
La fiaba ebraica si dipana sospesa in un tempo che non è dato immaginare, libera dai confini di ogni concepibile realtà: animali e viaggiatori, figlioli più o meno prodighi, mogli astute e fanciulle sprovvedute, giudici saggi e lestofanti, un fiume che non vuol scorrere di Sabato. Figure e circostanze, colpi di scena e finali si possono ripetere sovente eppure questi racconti sono sempre diversi. La loro ossatura biblica è scheletro di giunco intorno cui ricamare, creando una favolistica che coniuga gli elementi delle fiabe tradizionali con il racconto sapienziale legato alle fonti religiose. Elena Loewenthal ha privilegiato le fonti più antiche e la possibilità di risalire a un testo in lingua ebraica.
Con questo volume riprende la pubblicazione delle lettere di Vittorini, rimasta ferma al periodo 1933-1951. In questa nuova collana verranno prossimamente integrati e riproposti i volumi già usciti e sarà completata la serie in modo da raccogliere in una veste omogenea il corpus dell'intero epistolario. Nelle lettere dal 1952 al 1955 si avvertono i segni di un distacco dai temi politici e dalle battaglie politico-culturali degli anni precedenti. L'attenzione di Vittorini si concentra sull'attività editoriale e sul rinnovamento della narrativa italiana. In particolare il lavoro per la collana dei "Gettoni" einaudiani mette in luce il suo rapporto di guida con tutta una giovane generazione di scrittori, ma anche la dialettica, a volte serrata, con gli altri collaboratori della casa editrice torinese, in particolare con Calvino. Tutte le lettere di questo volume sono testimonianza di un impegno serio e appassionato, di entusiasmo e difficoltà, e sono anche espressione di grandi soddisfazioni e confessione di impasse insuperabili, come per esempio quelle riguardanti l'ultimo romanzo, "Le città del mondo", che dopo lo slancio delle prime 140 pagine, giudicate "perfette", procederà a fatica per essere infine abbandonato da Vittorini al destino di opera incompiuta.
«... quando mi viene un’idea di qualcosa da scrivere, breve o lunga che sia,» ha dichiarato Sciascia «non so in prima se mi prenderà la forma del saggio o del racconto». Opera in lui, infatti, un «gioco costante di correlazione» tra queste due forme: il che fa sì che riesca a essere, come pochi altri, «saggista nel racconto e narratore nel saggio». E non sarà difficile, ripercorrendo – dopo quella ‘impura’ dei racconti-inchieste, delle ‘inquisizioni’ e delle cronachette affidata al precedente volume – anche la produzione saggistica in senso proprio, rintracciarvi un’innata vocazione alla fabula. La ritroveremo nei libretti dedicati al ‘padre’ Pirandello, al quale lo ha legato un rapporto così intenso da sfiorare l’ossessione («Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello: scontrosamente, e magari con un certo rancore, prima; cordialmente e serenamente poi»), vale a dire Pirandello e il pirandellismo, Pirandello e la Sicilia e Alfabeto pirandelliano; nelle raccolte come La corda pazza, Cruciverba e Fatti diversi di storia letteraria e civile, dove più si rivela il suo stendhalismo (nel senso di mobilità del pensiero, trasparenza e dilettantismo, inteso come ‘dilettarsi della vita’); e persino negli interventi che hanno fatto di lui, nel Novecento, lo scrittore disturbante per eccellenza: quelli dedicati alla mafia, al terrorismo e alla situazione della giustizia italiana, radunati in A futura memoria.
"Il cane di Diogene", la monumentale opera satirico-autobiografica di cui il presente volume costituisce un capitolo, è uno dei "casi letterari" irrisolti del Seicento italiano. Il suo autore, il genovese Frugoni, rappresenta uno dei primi sperimentatori della forma del "romanzo" in lingua italiana. Le vicende, narrate in prima persona, del cane Saetta scacciato dal filosofo Diogene e passato a successivi padroni, descrivono un mondo caleidoscopico, una sfilata di personaggi contro cui si scaglia il moralismo anticonformista dell'autore. Il cane Saetta si rende conto delle miserie degli uomini e nei suoi "latrati" dà voce alla sua pena e alla sua carica polemica.
Il volume ospita innanzitutto "Feria d'agosto", l'unico testo licenziato dall'autore stesso, e il lungo racconto giovanile "Ciau Masino". Accanto a questi sono presentati i racconti giovanili e gli altri racconti sparsi ricostruiti secondo le testimonianze a stampa e le carte delle prime stesure. Firma l'introduzione Marziano Guglielminetti, mentre Mariarosa Masoero cura il volume, firma il testo introduttivo "Fra le carte dei racconti", le note e le notizie sui testi.
La terza parte dell'opera completa di Giovanni Testori, dal 1977 al 1993.
Della poliedrica opera di Meneghello, narratore, linguista, saggista, il volume offre una scelta rappresentativa, in una disposizione cronologica che permette di cogliere la sua unità tematica e stilistica. Ai libri dei primi anni Sessanta, "Libera nos a malo", sulla cultura del suo paese, e "I piccoli maestri", sulla sua esperienza di partigiano, ne seguono due degli anni Settanta, "Pomo pero", continuazione di "Libera nos", e "Fiori italiani", riflessioni sull'istruzione scolastica di un giovane italiano nato agli inizi degli anni Venti, e in generale sulla natura dell'educazione e su cosa significhi imparare una lingua letteraria e assimilare una cultura. Queste opere restituiscono luoghi della memoria e della vita quotidiana in una prosa personale, caratterizzata da un impasto linguistico che nasce dal dialetto, ricostruito con cura filologica, e da innesti di modi gergali, idiotismi, neologismi. Agli anni Ottanta appartengono "Jura", che riunisce saggi dedicati al commento e all"'autocommento", e "Leda e la schioppa", mentre "La materia di Reading" e "Quaggiù nella biosfera" raccolgono saggi dell'ultimo decennio. La scelta dei testi e il saggio introduttivo sono di Giulio Lepschy, grande linguista e amico personale di Meneghello. Il volume si arricchisce di una testimonianza della scrittore Domenico Starnone, che è stato uno degli sceneggiatori del film "I piccoli maestri".
«Scritti letterari» comprende due parti, entrambe relative alla produzione letteraria rosminiana degli anni giovanili, precedenti al 1827. La prima parte raccoglie quattro operette in prosa: Sull'Idillio e la nuova letteratura italiana, Galateo dei letterati, il dialogo La carta di scusa e la Risposta alla lettera del dottor Pier Alessandro Paravia sulle cagioni per cui da pochi oggidì ben s'adopera la lingua italiana. La seconda raduna, in dodici sezioni tematiche, la quasi totalità degli scritti poetici di Rosmini (canzoni, odi, sonetti ecc.), scritti per varie occasioni e pressoché tutti inediti. Solo una minima parte di essi era stata pubblicata dall'autore, a volte sotto nome altrui. Completano il tutto due brevissime appendici con frammenti di studi su Dante Alighieri e sulla "scienza del bello" (callologia), che testimoniano il senso del volume: mostrare l'interesse poetico e linguistico di Rosmini nella più vasta ottica dei suoi rapporti con le arti, la letteratura e la filosofia.