
"Per dare un futuro alla democrazia, si deve rifondarla fino in fondo e, per prima cosa, nella relazione fra l'uomo e la donna dove l'identità naturale non ha ancora raggiunto uno status civile. Cambiare le relazioni fra l'uomo e la donna nella coppia, nella genealogia, in tutti gli incontri privati e pubblici sarebbe un cammino per rendere più democratiche le famiglie culturali, religiose, politiche. Tale via è d'altronde indispensabile per permettere all'Europa di diventare un'Unione fra cittadini e cittadine e non un gran mercato dove ciascuno(a) gioca alla competizione con ciascuno(a). La democrazia che incomincia a due si propone di iniziare la strada, e di scoprire un nuovo alfabeto e una nuova grammatica politici."
Il tema è universale. Forse non c’è tema più universale di questo: che cosa significa per noi umani nascere.
«Il primo e forse il più radicale fallimento della nostra cultura è il fatto di prendere avvio dall'essere umano in quanto tale. Ora, questo nostro essere non corrisponde a un essere vivente, ma a un'idea o a un'entità costruita»
Non ci sviluppiamo dalle radici come una pianta, e non siamo neppure autosufficienti come Dio. Così, siamo gli unici viventi che mancano di un’origine, e ne vanno sempre alla ricerca. Privi di un «essere» originariamente identificabile, dobbiamo assumerci la responsabilità della nostra esistenza e del nostro destino. Come? «In primo luogo, coltivando il nostro respiro, una risorsa che troppo passivamente abbiamo attribuito a un Dio estraneo alla nostra esistenza terrena, sebbene il respiro sia ciò che ci permette non solo di vivere autonomamente, ma anche di trascendere la mera sopravvivenza, di superare il livello della mera vitalità, così da essere in grado di portare a compimento un’esistenza umana. Incaricarci di incarnare la nostra appartenenza sessuata è il secondo elemento che ci rende capaci di adempiere la nostra esistenza naturale, pur trascendendola». La sessuazione compensa l’assenza di radici attraverso la spinta all’unione tra due esseri: «Dove prima non c’era nulla tra loro, se non l’aria, a partire dalla loro attrazione e dalla loro capacità di assumere il negativo della loro differenza nasce il germe di un nuovo essere umano e di un mondo in cui possiamo davvero dimorare». La potenza di pensiero di Luce Irigaray si muove con «con passi di colomba» – direbbe Nietzsche – e vince ogni scetticismo circa l’arditezza di un compito di trasformazione che riparta dall’istanza incondizionata della vita in sé, e non dagli «assoluti sovrasensibili che troppo spesso sono il risultato della nostra incapacità di vivere».
"L'antica arte di saper vivere" esplora la saggezza della filosofia stoica, mostrandoci come le intuizioni e i consigli degli antichi maestri possono essere perfettamente applicati anche ai nostri giorni. Ricorrendo alle intuizioni psicologiche e alle tecniche pratiche degli stoici, L'antica arte di saper vivere indica una via per superare l'inquietudine cronica che ci affligge: come ridurre al minimo le preoccupazioni? Come lasciar andare il passato senza rimpianti e concentrare i nostri sforzi solo su ciò che possiamo cambiare? Come reagire agli insulti, alla sofferenza, alla vecchiaia? Semplici strategie da applicare nella quotidianità, rivolte alle persone comuni per aiutarle a vivere meglio: la contemplazione della natura transitoria del mondo, il dominio del desiderio, la distinzione tra le cose che possiamo controllare e quelle che non possiamo controllare e di cui quindi non dovremmo preoccuparci. Vivere secondo natura e accettare il proprio destino. Non permettere agli altri di turbare la nostra tranquillità. Con questo libro Irvine apre un canale di comunicazione tra i lettori moderni e alcune figure centrali della cultura europea come Marco Aurelio, Seneca ed Epitteto, al fine di fornire una "filosofia di vita pratica" radicata nella tradizione occidentale e applicabile al nostro tempo.
Il titolo di questo libro riflette il modo sintetico e netto con cui abitualmente si distingue l’impostazione dell’etica classica, fondata sulla virtù, dall’impostazione dell’etica moderna, fondata sull’obbligo e sul dovere. Il contenuto però punta a dimostrare che questa distinzione va superata in quanto fondata su una comprensione non sufficientemente accurata della filosofia morale classica, in particolare dell’etica di Aristotele, e di quella moderna. E in questo tentativo l’autore va a minare le fondamenta stesse su cui poggia buona parte dell’attuale Virtue Ethics, con la chiara pretesa di contrastare non solo la posizione di Prichard, ma anche quella, a suo parere ancora più inesatta, della Anscombe. L’autore non si limita a realizzare un mero esercizio di analisi e dissezione di testi, antichi o moderni, fine a se stesso, ma vuole rispondere alla domanda che – malgrado Prichard – ritiene non solo ragionevole ma ineludibile per ogni filosofo etico e per ogni uomo: perché dovrei comportarmi in un determinato modo? Perché dovrei perseguire il bene? Si tratta dunque di trovare una risposta alla questione del dovere morale. Tale risposta Irwin pensa di trovarla, almeno in nuce, nell’etica aristotelica che, pur sottolineando l’importanza della virtù, non può essere ritenuta una Virtue Ethics così come alcuni oggi la intendono, ovvero fondata soltanto sulla ricerca di una felicità e di un bene esclusivamente attraenti; per Irwin, infatti, anche nell’etica aristotelica è presente il dovere ancorato a ragioni esterne, a imperativi non solo ipotetici ma categorici, detto in termini kantiani. Se questa interpretazione dell’etica aristotelica è esatta, allora la pretesa distinzione tra l’impostazione etica classica, aristotelica, e quella moderna va riveduta, perché l’etica classica può puntare sulla virtù in quanto ha il sostegno di un bene fondato su ragioni esterne al desiderio del soggetto, senza bisogno però di una legge e di un legislatore.
L'uomo non può essere né ereditato né venduto né donato; non può essere proprietà di nessuno, perché egli è, e deve rimanere, proprietà di se stesso. Egli porta nel profondo del suo animo una scintilla divina, che lo innalza al di sopra dell'animalità e lo fa concittadino di un mondo di cui il primo membro è Dio stesso, scintilla divina che è la sua coscienza. Questa gli comanda in modo assoluto e incondizionato di volere questo, di non volere quello; e ciò liberamente e di propria iniziativa, senza alcuna costrizione fuori di lui (da Rivendicazione della libertà di pensiero).
Pietra d'inciampo dei sistemi filosofici, il problema del male sembra attrarre in misura assai limitata l'attenzione delle filosofie contemporanee. Nel cosiddetto 'secolo breve', così radicalmente segnato dallo scatenamento del male (morale e fisico), ma anche nella nostra epoca di cambiamento, il tema del male è parso e pare risultare poco interessante per un pensiero prevalentemente attirato da indagini analitiche ed empiriche. La filosofia classica tedesca invece - che pure viene impropriamente catalogata come una sequenza di sistematiche astratte - si è seriamente confrontata con il tema del male, all'interno di un pensiero fondante, anche se differenziato, che tiene fermo il binomio dialettico di ragione e libertà. Il male ha una natura spirituale, è negatività attiva, non mera assenza, e questo ne spiega la valenza distruttiva. La ricerca che segue è soprattutto un invito a porsi riflessivamente in ascolto di quattro protagonisti della filosofia tedesca sul tema del male, con la consapevolezza che le loro lezioni sollecitino a cercare ancora e 'pensare altrimenti'
Questo libro ha l’origine in una conferenza tenuta dall’autore presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, il 9-10 aprile del 2014, dal titolo Tre modi di conoscere le cose con le idee secondo San Tommaso, come contributo al Convegno su Le Idee Divine nel Medioevo, organizzato dalla Facoltà di Filosofia e dalla Cattedra Marco Arosio. Esso compara in una serie di “trittici tomistici” il vario modo di conoscere mediante idee nell’uomo, nelle intelligenze e in Dio; approfondisce la dottrina di San Tommaso sul ruolo della idea-specie come mezzo astratto immanente, immateriale e intenzionale tipico della conoscenza umana, e rileva il realismo critico di Tommaso nel rendere il supposito il luogo delle idee. Il libro adotta anche il metodo di un tomismo “testuale”, intercalando alcuni scritti di Tommaso.
José Antonio Izquierdo Labeaga, nato a Viana (Spagna) il 17 marzo di 1948, è sacerdote Legionario di Cristo. Membro della Pontificia Accademia di San Tomaso D’Aquino e della SITA, è uno studioso di Filosofia Tomista nell’ambito epistemologico e antropologico. Professore Emerito dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (Roma), è stato anche Docente di filosofia tomista nella Pontificia Università Gregoriana (Roma). Ha partecipato come conferenziere in diversi Congressi Internazionali di Filosofia. Ha pubblicato e collaborato in vari libri, tra cui La vita intellettiva. Lectio Sancti Thomae Aquinatis (1994); L’organicità della vita umana nella visione di Tommaso d’Aquino (2006); Exitus, reditus, ascensus. Il triplice moto della mente umana secondo San Tommaso (2007); San Tommaso, filosofo del corpo umano, in «La teologia del corpo di Giovanni Paolo II» (2012). Ha pubblicato articoli in diverse riviste di filosofia, come Gregorianum, Angelicum, Alpha Omega, Ecclesia, Il Cannocchiale, Studia Bioethica.
"Il Libro delle Interrogazioni", che viene qui pubblicato integralmente, è un classico dell'umanesimo ebraico del Novecento. L'opera, scritta tra il 1963 e il 1973, si sviluppa in sette volumi, comprendenti, oltre al primo, che dà il titolo al ciclo, Il Libro di Yukel, Il ritorno al Libro, Yaël, Elya, Aely, El. La filosofia si intreccia qui con la scrittura poetica, diventando pensiero poetante, in un'interrogazione infinita che è testimonianza di vita e insieme ricerca di assoluto. Con un saggio di Vincenzo Vitiello.
La nonviolenza non è l’opzione di un’élite intellettuale, ma un’alternativa pratica che inizia dalla quotidianità di ciascuno. Essa non può dunque essere confusa con la passività o con l’indifferenza poiché sposta il piano del confronto dalla prova di forza a quello della riflessione sui valori e sulla giustizia, imponendo una modifica radicale nel modo di pensare della società civile. La riflessione di questo libro si snoda su due livelli: uno è storico, attraverso l’interpretazione di alcuni avvenimenti a partire dalla prospettiva nonviolenta, l’altro è filosofico-politico, sia attraverso il confronto con la tradizione occidentale sia proponendo una concezione tipicamente orientale, in cui la dimensione spirituale dell’essere umano svolge un ruolo essenziale.
Sommario
Prefazione (Debora Tonelli). Introduzione. 1. Non violenza nell’induismo, nel jainismo e nel buddismo. 2. Cristianesimo e non violenza. 3. Islam e nonviolenza. 4. Fondamenti filosofici della nonviolenza. 5. Gandhi e la nonviolenza. 6. La nonviolenza pragmatica. 7. Critiche alla nonviolenza. 8. La nonviolenza nel XX secolo. 9. La nonviolenza nel XXI secolo. Conclusioni: democrazia e nonviolenza. Ringraziamenti. Bibliografia.
Ramin Jahanbegloo, filosofo iraniano naturalizzato canadese, è professore di Scienza politica all’Università di Toronto. Nel 2006 è stato arrestato dalle autorità di Teheran con l’accusa di tramare per il rovesciamento del regime iraniano. Il Consiglio dell’Unione Europea e numerosi intellettuali – tra i quali Chomsky, Coetzee, Eco, Habermas e Rorty – sono intervenuti per la sua liberazione, avvenuta dopo quattro mesi di carcere. Nel 2009 ha ricevuto in Spagna il Premio per la Pace delle Nazioni Unite.
Debora Tonelli è ricercatrice senior presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento.

