Baldassarre Cossa-Giovanni XXIII fu un antipapa sui generis. Vissuto durante lo Scisma d'Occidente (1378-1417), quando di papi se ne contavano addirittura tre, questo focoso ischitano rampollo di una famiglia dedita alla pirateria fu accusato dai suoi contemporanei di incredibili nefandezze, dipinto come un campione di avidità, violenza, depravazione e, infine, dichiarato "indegno" e deposto dal Concilio di Costanza, che lui stesso aveva convocato per risolvere lo scisma.
La fuga clandestina da Costanza, il carcere duro, la liberazione e la sottomissione al pontefice legittimo Martino V non attenuano le colpe di Baldassarre Cossa. Ma, a seicento anni da quegli eventi, è forse il momento di guardare con più obiettività all'altro Giovanni XXIII. E magari scoprire che, quando la confusione è massima, perfino un antipapa può contribuire a salvare l'unità della Chiesa.
Quando nel 1378, dopo settant’anni di papato ad Avignone, i cardinali francesi elessero il semplice arcivescovo Bartolomeo Prignano al soglio pontificio, ritennero di avere compiuto un piccolo capolavoro. Prignano era italiano, come chiedevano i romani, ma anche un uomo di curia, quindi facilmente manovrabile. Si ingannarono.
Infatti, appena eletto, Urbano VI iniziò un’opera di demolizione del loro strapotere che ben presto li indusse a cercarsi un altro papa, provocando lo Scisma d’Occidente. Inoltre quest’uomo, noto per essere dottissimo e di costumi irreprensibili, si rivelò col tempo un sovrano dispotico, vendicativo e perfino sanguinario. Tra battaglie, assedi, fughe precipitose, intrighi e misteriosi omicidi di cardinali, la sua è la vicenda di un papa eletto per errore, forse non del tutto sano di mente; in lui, tuttavia, uno spirito impetuoso e puro come quello di Caterina da Siena non smise mai di riconoscere il vicario di Cristo sulla terra. Perché dunque ridurre tutto a criteri terreni? Forse non è il modo migliore per giudicare la storia. Lo dimostrano gli anni avventurosi e terribili del pontificato di Urbano VI: il papa che non avrebbe dovuto essere eletto.
Nel giornalismo politico non è vero, come talvolta si crede, che c'è sempre equidistanza e imparzialità nel riferire quello che accade all'interno del Palazzo. Perché, anche se nessuno lo ammetterebbe in modo esplicito, il rapporto tra giornalisti e uomini politici spesso si fonda sul più classico dei do ut des: il politico "sgancia" la notizia; il giornalista assicura visibilità, o benevolenza, sul suo giornale. Naturalmente esistono le eccezioni. Ma se la regola è cosi radicata dipende essenzialmente dal fatto che il Parlamento è, per coloro che lo abitano, come un villaggio dove tutti conoscono e tutti sanno (quasi) tutto di (quasi) tutti; dove fioriscono amicizie e antipatie le più impensate, e se c'è un vizio che accomuna ogni categoria di residenti si chiama vanità. Produrre un'informazione corretta e completa in un ambiente come questo non è semplice: è affascinante, rischioso, difficilissimo. Ma è ancora possibile. Come, ricorrendo a quali trucchi e scansando quali pericoli, lo racconta in questo libretto una delle penne più battagliere e schiette del giornalismo politico degli ultimi anni, che lo ha scritto mettendo da parte quasi giorno per giorno appunti di conversazioni, aneddoti o semplici riflessioni tratte dal suo lavoro quotidiano.