
“Sto preparando nella mia mente e anche sulla carta la formazione di nulla meno che un romanzo. Il protagonista dovrebbe essere un ragazzo della mia età (17 anni), [...] i tipi fondamentali li ho già trovati e sono gente che ho conosciuto e osservato. [...] ci vorrà un anno e più; ma sono sicuro che quando l’avrò finito avrò fatto qualche cosa di buono.”
Alberto Moravia, lettera ad Amelia Rosselli del maggio 1925
Alberto Moravia era legato per nascita ai fratelli Rosselli: Carlo e Nello, assassinati in Francia su mandato del fascismo italiano. Con loro, suoi cugini, e con tutta la famiglia Rosselli, in particolare con la zia Amelia, Moravia intratteneva un costante carteggio, qui raccolto con circa 60 lettere: Amelia Rosselli (1870-1954) svolse un ruolo decisivo nella formazione umana e intellettuale del giovane scrittore. Molte lettere sono state scritte da Moravia durante la degenza al sanatorio di Cortina e testimoniano della sua sensibilità di adolescente e della formazione letteraria e culturale nel periodo della lunga convalescenza. Quel che ne emerge, insieme ad altre lettere familiari e ai primi esercizi poetici, è un vero e proprio ritratto dello scrittore da giovane – quando già letture e interessi facevano presagire il futuro di grande scrittore che di lì a poco lo aspettava. Le lettere registrano infatti la crescente minaccia del regime, che sin dagli anni Venti si abbatte con violenza sui Rosselli, protagonisti della lotta antifascista, e negli anni Trenta in modi più circospetti anche sul loro cugino, divenuto ormai l’autore famoso degli Indifferenti. Il rapporto tra Moravia e i Rosselli prosegue oltre la morte di Carlo e Nello e presiede nel ’50 al discusso romanzo Il conformista. Un capitolo ineludibile del Novecento italiano.
“Non leggerete in questo libro di particolari teorie sulla tutela dell’arte, ma della consapevolezza piena dei nostri tesori che troppo spesso sono guardati con insufficiente importanza, anche nei luoghi più piccoli. Quasi ogni due chilometri, infatti, girando l’Italia, è possibile ammirare, perfino nei luoghi apparentemente più degradati, spettacoli meravigliosi. Ed è questa quantità di cose misconosciute che rappresenta il percorso dell’Italia dei desideri che è proprio, come dice il concetto, il paese che uno vorrebbe sperare ci fosse. E che c’è, se hai la pazienza di scoprirlo. E che una volta scoperto ti fa trovare qualcosa che va oltre il tuo stesso desiderio. Nell’infinità delle bellezze italiane, allora, lasciati guidare dal senso di incompletezza che ogni tuo viaggio in Italia dovrà affrontare, tali e tanto vaste sono le sue meravigliose opere. Solo il sentimento della continua bellezza potrà esserti di guida in quello che non potrai desiderare di vedere in una vita. Tanto breve il nostro tempo, tanto magnifica la nostra terra.”
Vittorio Sgarbi
I due anni, dal 1859 al 1861, in cui l’Italia, divisa per secoli, è diventata una nazione, sono stati memorabili anche per la storia dell’arte, in particolare per la pittura, chiamata a testimoniare questa straordinaria vicenda.
Artisti come Giovanni Fattori, il pittore soldato Gerolamo Induno, Federico Faruffini, Eleuterio Pagliano, Michele Cammarano s’impegnarono a narrare la dinamica e lo spirito delle celebri battaglie della Seconda guerra di indipendenza ma anche a rendere la passione che animò Garibaldi e le sue leggendarie Camicie rosse, trovando toni e forza espressiva originali e innovativi, in opere, prive di ogni retorica celebrativa, dove i veri protagonisti sono gli umili soldati, spesso travolti dalla storia. È ancora la vita del popolo a risaltare nei dipinti, in cui i macchiaioli Fattori, Silvestro Lega, Odoardo Borrani, ma anche i romantici lombardi Francesco Hayez, Domenico e Gerolamo Induno, o il siciliano Giuseppe Sciuti, hanno saputo rappresentare i riflessi di quegli eventi storici all’interno delle mura domestiche componendo l’altro volto del Risorgimento, quello intimo e privato, in capolavori unici per intensità emotiva o drammatico pathos.
«Un illustre contemporaneo di Goldoni, Denis Diderot (grande illuminista, padre della Enciclopedia), ricorda la propria giovanile tentazione di fare l'attore, e si confessa con lucida onestà: "Quale era il mio progetto? Essere applaudito? Forse. Vivere familiarmente con le donne di teatro che io trovavo infinitamente amabili e che io sapevo molto facili? Sicuramente". Ciò che conta – nel sogno di diventare uomo di teatro – non è tanto il successo, l'applauso del pubblico, bensì la possibilità di una vita più libera e più libertina, con le belle attrici che risultano "infinitamente amabili" e al tempo stesso "molto facili", cioè di facili costumi. Ecco, Goldoni non ha la limpida trasparenza delle esternazioni di Diderot, ma appartiene allo stesso secolo e alla stessa visione del mondo».
Roberto Alonge cestina con un colpo secco la tradizione che ci ha consegnato il ritratto stereotipato del 'buon papà Goldoni' e illustra al contrario il profilo di un artista organicamente inserito nel Settecento libertino di Casanova e del marchese De Sade.
Il film cristologico ha fatto da comune denominatore di poliedrici saperi, di formazioni e impostazioni metodologiche differenti, producendo una sorprendente convergenza nella profondità di un dialogo dinamico e vitale scaturito dall’incontro culturale di studiosi di vario ambito storico e scientifico (cristianisti, classicisti, storici di letterature europee, arte, cinema). «… E la “Parola” si fece film» (17-18.10.2008) è stato il secondo appuntamento delle Giornate genovesi di cultura cristiana inaugurate nel 2004 dal convegno Letteratura cristiana e Letterature europee, col patrocinio dell’allora arcivescovo di Genova card. Bertone. Conservando la collaudata formula dell’abbinamento antichista/modernista, l’obiettivo del convegno – il film come punto di arrivo delle fonti antiche attraverso diverse ‘traduzioni’ culturali – è stato conseguito grazie a una sinergica manovra di ‘accerchiamento’, nel coro armonico di teologia e arti. Allo scopo, si sono scelti film debitori oltre che della tradizione cristiana antica (Vangeli canonici, apocrifi, letteratura patristica) anche di moderne rivisitazioni, artistiche e letterarie. Nell’odierna società dell’immagine, è indubbia la potenzialità educativa della settima arte. Anche il grande schermo quando ‘grida’ contro la malattia della storia e del mondo, ingiustizia, amoralità e violenza, e diventa ideologico, ricorre alla Parola (la polemica contro il regime socialista polacco di Wajda o la denuncia dell’ipocrisia borghese di Buñuel). La Parola fatta carne, sangue e anima dell’uomo, di fede dichiarata e/o negata, resta dunque al centro dell’ascolto e della contemplazione, mentre le note della Passione di San Matteo di Bach risuonano in Pasolini, Wajda, Godard.
Questo volume non è solo un saggio di storia dell'arte, ma un ricco e prezioso manuale per conoscere in modo più approfondito la tradizione e la funzione della preghiera nella bimillenaria storia della Chiesa. Una testimonianza di come l'arte svolga un ruolo primario nella comunicazione religiosa, nella predicazione evangelica, ma soprattutto nell'educazione alla preghiera come espressione privilegiata della fede. Attraverso più di 100 illustrazioni di tutte le epoche, l'Autore presenta un percorso spirituale ed artistico.
Un resoconto diretto e vivace dell’evoluzione di una straordinaria selezione di poster e fotogrammi di film vintage, accompagnati dalle descrizioni delle star e dei film rappresentati. Su quattro decadi della storia del cinema, Ira M. Resnick ha organizzato una superba collezione composta da 2000 locandine di film vintage e 1500 fotogrammi, sino ad oggi inedita. Hollywood: i manifesti del cinema nell’età dell’oro presenta il meglio della ricerca di Resnick, con vivide riproduzioni di 258 manifesti tratti dall’età dell’oro di Hollywood, dal 1912 al 1962. Guidando il lettore attraverso celeberrime locandine e fotogrammi della sua collezione, Resnick lo accompagna in un viaggio attraverso la storia del cinema, che ha inizio nell’età del cinema muto e continua sino a "Colazione da Tiffany" (1961). Un libro imperdibile per ogni collezionista e cinefilo, per i grafici e per il mondo della comunicazione.
I giardini cinesi sono sovente considerati delle astrazioni intellettuali, troppo esclusivi per essere compresi da chi normalmente si occupa di giardini. Troppo cerebrali per scalfire la sensibilità occidentale. Tuttavia essi costituiscono un insieme di brillanti soluzioni per quasi tutti i principali problemi riguardanti i giardini: vi sono regole formali, ma che a volte possono essere disattese; vi sono varietà di stili, ma essi possono essere adattati e diversamente combinabili a seconda delle necessità. Anche se molti di questi giardini infatti sembrano cristallizzati in un passato eccessivamente lontano, essi sono in realtà in continua evoluzione e rinnovamento. Per non continuare a guardare ad essi come a dei "pezzi da museo" occorre quindi cambiare atteggiamento e liberarsi da alcuni preconcetti riguardo a ciò che un giardino dovrebbe essere. A cogliere la loro modernità può aiutare la consapevolezza che proprio il giardino cinese ha profondamente influenzato le avanguardie nel campo della progettazione di giardini: Charles Jenks e Maggie Keswick Jenks, così come I.M. Pei, risentono della sua influenza e cercano nelle loro opere di declinarne le caratteristiche in modo da trovare un equilibrio tra la filosofia sottesa al giardino cinese e l'estetica occidentale. Partendo dunque da questa convinzione, il volume presenta una immersione totale in questa affascinante arte.

