
Nei giorni 27-29 settembre 2018 si è svolto, presso il Santuario Maria Madre della Chiesa di Jaddico (BR), il IV Convegno di Mariologia Carmelitana organizzato da entrambe le famiglie carmelitane. L’iniziativa di tali Convegni ha una sua storia partita proprio da questo santuario nel 2012 quando vi fu celebrato il primo sui tratti mariani più tipicamente carmelitani. Ad esso ne sono seguiti due celebrati nel 2014 a Sassone (Roma) e nel 2016 a Maddaloni (CE), ognuno con una tematica propria del carisma mariano dell’Ordine dei Carmelitani, in un’ottica di progressiva specificazione. Il tema trattato in questo IV Convegno è di grande interesse e assai importante per vari motivi. In primo luogo, perché l’immagine, l’icona, la rappresentazione del sacro hanno provocato sempre nella storia delle religioni una certa controversia, in molte occasioni non esente da violenza. Di fronte all’abbondanza e all’esuberanza delle immagini di alcune religioni, che potremmo definire politeiste (da alcune tradizioni orientali fino alla religione greco-romana), il monoteismo ha teso a pensare che il divino non è, per definizione, rappresentabile. Dio è al di sopra di qualsiasi espressione umana, di qualunque immagine e persino di qualsiasi nozione (si pensi alla teologia apofatica più radicale). Perciò, quando rappresentiamo Dio, il sacro, il divino, creiamo idoli che, in ultima analisi, finiscono col separarci da quello che vorremmo rappresentare. In secondo luogo, il tema trattato è fondamentale perché viviamo in un’epoca davvero “iconica”: siamo immersi nella cultura dell’immagine. I moderni metodi informatici hanno relegato in un secondo piano molte forme di comunicazione tradizionali. Il messaggio breve, abbreviato, talvolta ridotto ad immagini, a dubbiose trascrizioni fonetiche o a parole sconnesse è il linguaggio più abituale tra i nostri giovani. C’è chi vede questo processo con un forte pessimismo, come un ritorno alla barbarie o un regresso ai geroglifici, con conseguenze incalcolabili per l’espressione scritta e orale; c’è poi chi, al contrario, lo vede come un ventaglio di nuove forme di espressione, di maggiori possibilità di divulgazione culturale e di nuove manifestazioni artistiche e letterarie e, perché no, di nuovi linguaggi. In ogni caso, e quale che sia la valutazione di questo processo culturale in cui viviamo, non c’è dubbio che la riflessione teologica (la catechetica, la spiritualità, la missiologia e persino la teologia sistematica) non può eludere questo tema e deve riconsiderare il senso e la missione dell’immagine nella trasmissione della fede. Né la vita religiosa in generale, né il Carmelo in particolare, possono eludere questa riflessione così necessaria al momento di prendere in considerazione la propria missione.
In questo testo Betty Edwards offre una proposta stimolante, poiché è convinta che tutti siano dotati di creatività e che esistano semplici tecniche basilari che possiamo usare per accrescere la nostra stessa espressione artistica e liberare il nostro vero potenziale creativo, indipendentemente dal fatto che il risultato finale sia un'opera d'arte o un'idea originale, un intuito personale o la soluzione creativa a un problema d'affari. Basando il proprio studio sulle più recenti ricerche attorno alla duplice funzione del cervello, l'autrice ci conduce in un'affascinante esplorazione della natura del processo creativo in sé, il quale nasce dalla combinazione del procedimento percettivo-visivo dell'emisfero destro.
Tutti possono imparare a disegnare, purché imparino a far emergere la capacità di "vedere artisticamente", ossia di percepire la realtà non secondo gli schemi precostituiti della mente razionale che è gestita dall'emisfero sinistro del cervello, bensì attraverso lo sviluppo delle categorie intuitive e della creatività, cui presiede l'emisfero destro. La Edwards propone una serie di esercizi e strategie per "ingannare" l'emisfero sinistro, tendenzialmente dominante, e permettere a quello destro di "dirigere le operazioni". Ricco di immagini esplicative e di suggerimenti pratici, il manuale insegna come riuscire a esprimere se stessi disegnando.
Che cos’è un genere cinematografico? Come far dialogare una tradizione, che è insieme di contenuto, produttiva e teorica, con le tensioni e i problemi che il cinema contemporaneo mette in campo a proposito della nozione di genere? Qual è la differenza tra il ‘genere’ di La grande rapina al treno e quello di Guerre stellari, tra Il cappello a cilindro e Cocktail? Il testo di Rick Altman si pone come punto di riferimento imprescindibile per il dibattito sui generi cinematografici, rispondendo a queste domande con l’obiettivo di riorientare le riflessioni sulla produzione e la ricezione dei nuovi generi e di stabilire una continuità con le codificazioni del cinema classico. Il punto di partenza è la messa in discussione della nozione stessa di genere, dapprima con una ricognizione storica che muove da Aristotele fino a Wittgenstein, in secondo luogo ripensando e distaccandosi dalle più recenti teorie sui generi cinematografici. L’aspetto più innovativo di tale posizione consiste nella scelta di rinunciare a costruire un ‘sistema’ tassonomico dei generi cinematografici esaminando i luoghi e i soggetti (molteplici ed eterogenei) della loro reale definizione.
I generi, infatti, vengono elaborati, agiscono e si sedimentano nelle conoscenze culturali di un particolare gruppo sociale. Proprio l’indagine di questa comunità conduce Altman a evidenziare i differenti ambiti e i processi all’interno dei quali il concetto di genere prende forma e si modifica: attraverso le pratiche delle istituzioni produttive; nell’ampio e variegato campo dei paratesti cinematografici; negli orizzonti di attese e nei relativi meccanismi interpretativi degli spettatori o nella costituzione di comunità trasversali da parte degli spettatori stessi. Fino a descrivere, con attenzione e immediata chiarezza, la stretta connessione tra produzione cinematografica, pubblico e critica, illustrata grazie allo studio delle dinamiche e dei discorsi sociali che si intersecano intorno a celebri casi cinematografici.
Rick Altman è professore di French and Film Studies, Comparative Literature e Communication Studies presso l’Università dello Iowa. Tra le sue pubblicazioni: The American Film Musical (Bloomington 1986) e Sound Theory/Sound Practice (New York 1992).
È possibile attraverso l'arte contemporanea rafforzare il sentimento religioso? L'arte per la liturgia, in relazione alle esigenze e aspettative della committenza ecclesiastica, vive una stagione critica. E questo accade proprio quando, più che in passato, gli strumenti della comunicazione visuale si dimostrano capaci di portare lo spettatore in uno spazio che lo strappa dalla contingenza per mostrargli nuovi mondi. Pensiamo al linguaggio della video arte, che per certi aspetti possiamo assimilare alla grande tradizione barocca, in grado di suscitare reazioni emotivamente coinvolgenti. Nella nostra epoca la dimensione totemica e animistica attribuita alle immagini è particolarmente accentuata e richiama quella primordiale necessità di un dialogo tra l'uomo e il divino, come bisogno antropologicamente fondato, che forse si era data come irrimediabilmente perduta. Il sacro contemporaneo non può non misurarsi con la visual culture del presente nelle sue infinite sfumature: una cultura delle immagini che, costantemente, sollecita la parte emozionale e spirituale dell'uomo. A fronte della capacità evocativa di questa 'svolta iconica' certa tradizione iconografica un po' scontata rischia di impallidire o di essere scarsamente comunicativa. Questo libro cerca di ricomporre tale frattura e di indagarne i motivi. Gli esempi di opere d'arte, dipinti sacri, ma anche i riferimenti tratti dal cinema e dalla moda, fino alla pubblicità di oggetti di consumo, consentiranno al lettore di allargare il proprio immaginario, rendendo visibile la connessione che esiste tra realtà semantiche diverse. Lo accompagnerà una domanda: l'arte sacra contemporanea possiede gli strumenti per tradursi in un'esperienza del sacro all'altezza dell'esigenza di spiritualità del nostro tempo? Non mancheranno le suggestioni e le immagini per riflettere.
Il volume è una biografia critica, che riassume in un discorso unitario, insieme al lavoro dell'architetto Giuseppe Terragni (1904-1943), l'analisi della sua formazione culturale, dell'impegno intellettuale e politico e il rilievo tragico assunto dalla sua vita negli ultimi anni.
Il volume, rivolto a coloro che desiderano approfondire la propria conoscenza dell'arte greca e, in particolare, agli studenti universitari, affronta il problema della cultura formale del mondo greco. Gli argomenti sono esposti con un linguaggio piano e accessibile, e in questo senso deve essere interpretata anche l'abbondanza del materiale illustrativo. Un punto di riferimento importante per gli approfondimenti del lettore è costituito dall'articolatissima bibliografia.
La mostra, ospitata ai Musei Capitolini di Roma, evoca, attraverso alcune selezionate opere d'arte, momenti significativi di un'epoca difficile della storia portoghese, segnata - tra il 1580 e il 1668 - dall'aspra lotta per la riconquista dell'indipendenza condotta contro la corona di Spagna e dalla tensione verso il conseguimento dellla ritrovata unità nazionale intorno alla casa regnante di Braganza, il cui stemma araldico è campito dai colori del rosso e dell'oro, assunti a simbolo del barocco portoghese.
"Questo è un libro sul cinema come abitualmente non se ne leggono, per la semplice ragione che non ne vengono scritti. Parte da lunghe conversazioni fra Tatti Sanguineti e uno dei personaggi forse meno noti, ma più singolari e influenti del cinema italiano nel periodo d'oro: Rodolfo Sonego, sceneggiatore di tutti i film maggiori di Alberto Sordi, dal 'Vedovo' a 'Una vita difficile' allo 'Scopone scientifico'. Ricostruisce, attraverso la rievocazione di volta in volta malinconica, sorridente, abrasiva, feroce di Sonego, molte delle vicende accadute in quell'immane circo le cui attrazioni erano la Mangano, la Lollo o Laura Antonelli, i cui domatori potevano chiamarsi Carlo Ponti o Federico Fellini, e il cui impresario occulto, ben nascosto dietro le quinte, era il suo primo censore: Giulio Andreotti. Lascia intendere come, di qualsiasi viaggio in Italia, una lunga sosta nel cervello di Alberto Sordi continui a essere una tappa estremamente formativa. Ma soprattutto, una battuta dopo l'altra, ci racconta un cinema molto diverso, e molto più sontuoso, di quello che vediamo in sala: una colossale fantasmagoria di aneddoti, chiacchiere a notte fonda in stadi decrescenti di lucidità, fantasticherie su film da fare, sceneggiature per film mai fatti, rulli perduti e fortunosamente ritrovati, scene tagliate e poi, miracolosamente, ricomparse."
In questo libro, frutto di lunghe conversazioni e di un'appassionata immersione nei ricordi di tutta una vita, il regista Jean Renoir è riuscito a raccontare, con lo stile rapido e ironico e insieme con la delicatezza che saranno poi la cifra del cinema di Truffaut, la storia di suo padre, fissandone per sempre, come solo un grande pittore avrebbe saputo fare, i gesti e i pensieri più quotidiani e segreti. Ma chi era veramente Pierre-Auguste Renoir? Quell'uomo semplice, sbrigativo, che nell'aspetto "aveva qualcosa di un vecchio arabo e molto di un contadino francese", che non poteva fare niente che non gli piacesse, che odiava sopra ogni cosa il progresso e aveva per la donna un culto incondizionato, restava per suo figlio un mistero. Un mistero che queste pagine non cercano di svelare ma solo di commentare: "Potrei scrivere dieci, cento libri sul mistero Renoir e non riuscirei a venirne a capo".
"A me non piacciono, i film. Mi piace farli". Una delle battute più celebri di Orson Welles sembrerebbe un paradosso, se si considera che di film propriamente intesi questo puro genio ne ha girato uno solo, a 24 anni, nel 1939, e che da quel momento fino alla sua morte i film li ha più che altro raccontati, immaginati, cominciati, interrotti, perduti, ritrovati - o se li è fatti massacrare. Ma per chi conosce bene la sua storia il paradosso è un altro, e cioè che proprio quella specie di fantasticheria permanente in 35 millimetri, che Welles sottoponeva a chiunque avesse voglia di ascoltarlo, ha finito nell'immaginario di tutti per diventare il cinema - una sostanza quasi alchemica che i film in sala contengono spesso solo in tracce. Per tutti gli altri, che magari di Welles conoscono solo l'immagine, o il frammento di una delle innumerevoli leggende da lui stesso messe in circolo, queste conversazioni settimanali con Harry Jaglom a un tavolo del Ma Maison di Los Angeles costituiscono la migliore introduzione possibile a una biografia per definizione più grande del vero, raccontata quasi dalla stessa voce che aveva tanti anni prima reso celebre, alla radio, il suo protagonista.

