
Questo libro di Otto Pächt si occupa di uno dei problemi centrali della storia dell'arte occidentale: la nascita di un nuovo tipo di pittura negli antichi Paesi Bassi, quella fiamminga; gli artisti che furono i promotori di questo rinnovamento sono il Maestro di Flémalle e i fratelli Van Eyck, mentre il Polittico di Gand appare come opera centrale che apre, al tempo stesso, nuove discussioni. Questa svolta non è caratterizzata soltanto da un nuovo tipo di tecnica pittorica, ma soprattutto da una inedita concezione della rappresentazione, liberata da costrizioni ideologiche. Intorno a questi temi, a questi artisti e alle loro opere (dal Maestro di Flémalle a Jan Van Eyck, dal Polittico di Gand a Hubert Van Eyck e al Libro d'Ore di Torino) si snodano i cinque capitoli in cui è suddiviso il testo che, senza voler trattare da un punto di vista monografico né le personalità artistiche, né tanto meno i loro celebri dipinti, mira a tracciare un disegno complessivo del nuovo linguaggio figurativo, che dissolse a nord delle Alpi la tradizione medievale e introdusse la prima idea di realismo moderno. Pächt procede attraverso una sapiente e serrata lettura formale del dipinto, dal quale non si allontana mai. Anche per questo le numerosissime riproduzioni a colori accompagnano costantemente il lettore in una vera e propria galleria di capolavori.
Contributi di Enrico Castelnuovo
A cura di Fabrizio Crivello
Traduzione di Francesca Pistone
«Fingere che un evento storico di così grande portata quale la comparsa della pittura di paesaggio come genere indipendente possa essere spiegato a sufficienza in termini di mera evoluzione pittorica sarebbe, certo, ingenuo e miope. La scoperta del valore estetico del paesaggio fu il risultato finale di un complesso processo di maturazione al quale contribuirono tutte le forme di immaginazione e che coinvolse l'intero atteggiamento dell'uomo nei confronti dell'ambiente fisico».
Otto Pächt
Pubblicato nel 1950 in inglese, La scoperta della natura. I primi studi italiani di Otto Pächt non solo ha resuscitato capolavori scomparsi e dimenticati, ma soprattutto ha indicato per quali vie si sia fatto strada in Italia un nuovo modo di guardare e rappresentare la natura, quale significato questo abbia avuto per la storia dell'uomo, della cultura e dell'arte.
Il ciclo di avori conservato nel Museo Diocesano di Salerno è il più vasto giunto sino a noi dall’età medioevale. Si compone di sessantasette pezzi. Diciotto tavolette sono dedicate al ciclo iconografico dell’Antico Testamento, diciannove a quello del Nuovo; i rimanenti sono medaglioni o frammenti decorativi di quello che con tutta probabilità costituiva il rivestimento prezioso di una cattedra episcopale.
L’ampiezza del ciclo e la straordinaria raffinatezza della sua esecuzione, dovuta a maestri verosimilmente salernitani dell’XI secolo, ne fanno uno dei capolavori dell’arte medioevale.
Schede di Serena La Mantia
Fotografie di Marcello De Masi
Un'auto lascia Roma di primo mattino. Alla guida, c'è un affermato regista. Sul sedile accanto, l'uomo che da molti anni ama di un amore sconfinato. Dove stanno andando? Mentre la città si allontana e la strada comincia a inerpicarsi dentro e fuori dai boschi, il regista decide di narrare al compagno silenzioso il suo mondo "prima di lui": "La mia vita è la tua e ora te la racconterò, perché domani sarà solo nostra". Inizia così un viaggio avanti e indietro nel tempo: i primi anni in Italia, dove era giunto dalla Turchia non ancora diciottenne con il sogno di studiare e fare cinema, le persone che hanno lasciato il segno, gli amici, gli amori, le speranze, le delusioni, i successi. Storie che conducono ad altre storie, popolate da figure indimenticabili e bizzarre: una trans egocentrica sul viale del tramonto, un principe cleptomane, un centralinista con il rimpianto della recitazione, una cassiera tradita dalle congiunzioni astrali, una bellissima ragazza dallo spirito inquieto. E poi, raffinati intellettuali, inguaribili romantiche, noti cinefili, amanti respinti e madri niente affatto banali. Sullo sfondo, il palazzo di via Ostiense dove tutto accade, crocevia di solitudini diverse, ma anche di intense amicizie e travolgenti passioni. Il palazzo che nel tempo si è trasformato, conservando però intatti i suoi più intimi segreti.
È una domenica mattina di fine giugno e Sergio e Giovanna, come d'abitudine, hanno invitato a pranzo nel loro appartamento al Testaccio due coppie di cari amici. Stanno facendo gli ultimi preparativi in attesa degli ospiti quando una sconosciuta si presenta alla loro porta. Molti anni prima ha vissuto in quella casa e vorrebbe rivederla un'ultima volta, si giustifica. Il suo sguardo sembra smarrito, come se cercasse qualcuno. O qualcosa. Si chiama Elsa Corti, viene da lontano e nella borsa che ha con sé conserva un fascio di vecchie lettere che nessuno ha mai letto. E che, fra aneddoti di una vita avventurosa e confidenze piene di nostalgia, custodiscono un terribile segreto. Riaffiora così un passato inconfessabile, capace di incrinare anche l'esistenza apparentemente tranquilla e quasi monotona di Sergio e Giovanna e dei loro amici, segnandoli per sempre. Ferzan Ozpetek, al suo terzo libro, dà vita a un thriller dei sentimenti, che intreccia antiche e nuove verità trasportando il lettore dall'oggi alla fine degli anni Sessanta, da Roma a Istanbul, in un susseguirsi di colpi di scena, avanti e indietro nel tempo. Chi è davvero Elsa Corti? Come mai tanti anni prima ha lasciato l'Italia quasi fuggendo, allontanandosi per sempre dalla sorella Adele, cui era così legata? Pagina dopo pagina, passioni che parevano sopite una volta evocate riprendono a divampare, costringendo ciascuno a fare i conti con i propri sentimenti, i dubbi, le bugie. Il presente si mescola al passato per narrare la potenza della vita stessa, che obbliga a scelte da cui non si torna più indietro. Ma anche per celebrare - come solo Ozpetek sa fare - una Istanbul magica, sensuale e tollerante, con i suoi antichi hamam, i palazzi ottomani che si specchiano nel Bosforo, i vecchi quartieri oggi scomparsi.
"Io vi ho raccontato tanto di me. Adesso voi dovete scrivere un libro sulla mia vita. Non ho mai scritto un libro, non ho mai pensato di poter scrivere... Ma vorrei raccontare il mio popolo rom, con le sue tradizioni, le sue storie d'amore e di sofferenza." Gesticola mentre parla: solleva le mani, le tiene sospese in aria, la fronte aggrottata. "E poi a voi vi ascoltano. Se lo scrivete voi, questo libro, tutti sapranno che è anche bello essere rom." Jovica Jovic è un grande musicista. Con la sua fisarmonica ha suonato in tutta Europa, in teatri, balere, matrimoni, sagre, festival. E come musicista l'hanno conosciuto Moni Ovadia e Marco Rovelli, ma presto è per loro diventato un amico e un formidabile cantastorie: quella volta che rubò le galline alla vicina cieca, quella volta che il padre Dusan compose una canzone ad Auschwitz, quella volta che non si voleva sposare, ma si sposò lo stesso, quella volta che la guerra in Jugoslavia gli distrusse la chiesa che aveva costruito, quella volta che si comprò una Dallapé rossa fiammante come una Ferrari... In questo libro molto speciale tutte le storie di Jovica Jovic compongono un arazzo coloratissimo, fatto anche di discussioni con Moni e con Marco, di lettere e di fiabe, di riflessioni e di invenzioni. E sotto gli occhi del lettore prende vita l'universo rom, al di fuori degli stereotipi ma ricco di personaggi, situazioni e avventure rocambolesche, calato nella storia del Novecento.
"L'inaugurazione di una mostra del prestigio di "Futurismo avanguardia avanguardie" è per me un'occasione felice. Per la sua centralità europea, anzitutto, posta com'è - tra Parigi e Londra - all'apice di un triangolo dell'arte novecentesca che onora la Capitale dell'Italia futurista. Non a caso l'evento cade in assoluta coincidenza con la data in cui, cento anni or sono, venne pubblicato a Parigi il Manifesto di un'epoca nuova. Non a caso perché il futurismo fu un movimento che in Italia ebbe le sue radici e la sua ispirazione. A cento anni di distanza va imponendosi l'immagine di un movimento vitale, portatore di esperienze culturali ed estetiche che ancor oggi seducono cultori e appassionati, non mancando di attrarre a sé giovani epigoni di una modernità che è ripensata con grande attenzione e che appare oggi in tutta la sua attualità, considerati la sintesi, la velocità e il dinamismo della società contemporanea. E non vi è dubbio alcuno che questa mostra, nel riproporre quello spirito del tempo, accompagni il visitatore lungo un percorso nel quale è sempre rintracciabile l'annuncio quasi esplosivo di un mondo nuovo, la cui eco si riascolta con assoluta chiarezza, Non si tratta soltanto di opere, né del magnifico estro pittorico a cui esse rimandano, ma soprattutto della capacità dell'arte futurista di riflettere un'idea anticipatrice e di proporne una possibile realizzazione. In ciò risiede il genio futurista che questa mostra riesce a valorizzare". G. Alemanno
Per lungo tempo la storia è stata raccontata così: fra Sei e Ottocento, gli artisti europei arrivavano (più o meno obbligatoriamente) in Italia, dove a contatto con un paesaggio ancora simile all'Arcadia, e con le maestose rovine della civiltà classica, trovavano il senso di un mestiere che avrebbero poi passato il resto della vita a perfezionare. Di questa parabola fin troppo lineare il nuovo libro di Anna Ottani Cavina costituisce una variante piena di scoperte e di sorprese. È vero, sostiene Ottani Cavina in questa sua arringa illustrata, gli artisti del Nord in Italia trovavano qualcosa, come la luce, cui gli studi non li avevano preparati; e, anche questo è vero, il trauma culturale e visivo li portava a modificare i loro stessi strumenti, l'uso che ne facevano: a esasperare il disegno, ad esempio, oppure, in una gran quantità di casi, ad abbandonarlo del tutto. Ma in questo modo non lavoravano a una replica fedele di quanto avevano visto, e vissuto: piuttosto, uno schizzo alla volta, una tela dopo l'altra, Poussin, Thomas Jones, Granet e molti altri cominciavano in realtà a costruire quasi dal nulla quel luogo dell'immaginazione e della memoria che da allora tutti noi, credendo di conoscerlo da sempre, chiamiamo Italia.
Con questo volume si conclude la serie proposta da Electa sulla pittura di paesaggio, un genere con il quale nel Settecento si sono confrontati i più grandi artisti contribuendo a uno dei momenti più ricchi e affascinanti della pittura italiana. Una prima sezione saggistica affronta dal punto di vista storico-critico i vari aspetti della pittura di paesaggio, dal capriccio all'arcadia, dal vedutismo veneziano al paesaggio illuminista. La seconda parte del libro è dedicata al repertorio di centoventi artisti, presentati ognuno attraverso una biografia aggiornata alle più recenti ricerche e illustrata con le opere più significative. Ampio spazio è dato ai paesaggisti stranieri venuti alla scoperta delle bellezze artistiche italiane.
Ad aprire le celebrazioni per il bicentenario della nascita di John Ruskin, che si terranno nel 2019, questo volume racconta la storia d'amore, lunga e fruttuosa, tra il famoso critico inglese e la città di Venezia. Durante la sua vita, Ruskin visitò Venezia numerosissime volte a partire dal 1835 e, in seguito ai lunghi soggiorni in città, pubblicò l'opera in tre volumi intitolata «Le pietre di Venezia», un inno alla bellezza, all'unicità e alla fragilità di questa città, destinata a diventare un caposaldo della cultura anglosassone e l'inizio del revival gotico d'epoca romantica. Tra i metodi d'indagine di cui Ruskin si serviva spiccano i numerosi taccuini, schizzi con rilievi architettonici, acquerelli, albumine, planotipi e dagherrotipi (il critico possedeva una primitiva macchina fotografica già nel 1849!). Queste testimonianze iconografiche sono l'oggetto di questo volume, e ci consentono di affrontare Ruskin da un nuovo, certamente meno conosciuto, punto di vista: come artista a tutto tondo e non solamente come scrittore. Catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, 10 marzo-10 giugno 2018).
“Venezia giace ancora davanti ai nostri sguardi come era nel periodo finale della decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all’infuori della sua bellezza, che qualche volta quando ammiriamo il languido riflesso nella laguna, ci chiediamo quasi fosse un miraggio quale sia la città, quale l’ombra. Vorrei tentare di tracciare le linee di questa immagine prima che vada perduta per sempre, e di raccogliere, per quanto mi sia possibile, il monito che proviene da ognuna delle onde che battono inesorabili, simili ai rintocchi della campana a morto, contro le pietre di Venezia”
- John Ruskin, The Stones of Venice