Fin dalle origini Venezia ha vissuto in simbiosi con la laguna che la circonda e per preservarla il governo della Serenissima è stato molto attento alla gestione del territorio lagunare, con interventi di ampio respiro e istituzioni appositamente create. Oggi Venezia si trova di nuovo in una situazione critica. L'acqua alta del novembre 2019 ha riportato l'attenzione sul MOSE, l'opera che doveva mettere al riparo la città da nuove disastrose alluvioni e che, dopo mezzo secolo di dibattito e un cantiere durato quasi vent'anni, non è ancora in funzione, né se ne conosce l'efficacia. Nel frattempo, però, la costruzione del MOSE ha favorito la nascita di un sistema corruttivo e di malaffare che ha provocato un terremoto politico e giudiziario, coinvolgendo negli anni le principali istituzioni locali e nazionali e generando sprechi enormi a carico dei cittadini. In questo libro, pubblicato nella prima edizione con il titolo "Corruzione a norma di legge" e qui completamente aggiornato, Barbieri e Giavazzi raccontano come tutto ciò sia stato possibile e come sia avvenuto. Ma si chiedono anche come da questa situazione si possa uscire salvando Venezia dal disastro in cui si trova. È una storia che, per come si è sviluppata e per le opportunità che ora offre, può trasformarsi in un esempio per l'Italia nel momento in cui il nostro Paese si appresta, grazie all'aiuto dell'Europa, a lanciare quello che potrebbe divenire il più grande progetto di rinnovamento degli ultimi cinquant'anni.
Già Pasolini, in tempi non sospetti, aveva inquadrato il nuovo potere globalista come «il più violento e totalitario che ci sia mai stato: esso cambia la natura della gente, entra nel più profondo delle coscienze». E non è un caso se si era spinto a parlare, con lucida lungimiranza, di «genocidio culturale». Mascherandosi dietro un multiculturalismo di facciata, che è solo la riproposizione infinita dello stesso modello politically correct, la civiltà globale in cui viviamo non accetta infatti differenze. Esiste un unico profilo consentito: quello del consumatore sradicato, indistinguibile dagli altri, senza identità né spessore culturale. Per usare le parole di Fusaro, il globalismo si fonda su un'inclusione neutralizzante: «in nome del mercato unificato, opera affinché ogni ente si muti in merce liberamente circolante, senza frontiere politiche e geopolitiche, morali ed etiche, religiose e giuridiche». In quest'ottica distorta, ogni tradizione è sacrificata sull'altare del finto progresso turbocapitalista, che vuole «non popoli radicati nella loro storia e nella loro terra, né soggettività dall'identità forte e capaci di opporre resistenza, bensì consumatori dall'io minimo e narcisista, con identità liquide, gadgetizzate ed effimere». Acquirenti indistinti cui vendere ovunque la stessa illusione. Come possiamo opporci a quest'imperante «eterofobia»? Recuperando e difendendo il valore della nostra identità, che si definisce solo nel dialogo con le differenze dell'altro. In questo saggio acuto e provocatorio, la voce critica di Diego Fusaro ci invita dunque a riappropriarci delle nostre radici; a rieducarci - e rieducare soprattutto i più giovani, condannati a un futuro precarizzato che rischiano di accettare supinamente - al «sogno di una cosa», come diceva Marx. All'immagine di un futuro meno indecente di quello che ci vede solo come merce tra le merci.
Questo libro è diventato un piccolo "culto" nel mondo, soprattutto tra librai, bibliotecari e appassionati lettori. Carrión, autore colto e grande viaggiatore, ha percorso le strade di mezzo mondo visitando librerie e biblioteche di ogni tipo e parlando con le persone che considerano i libri un bene fondamentale per l'umanità. Dalle biblioteche e librerie innovatrici di Seul, in Corea, alle più belle librerie e biblioteche del mondo sparse ai quattro angoli della terra, dalle conversazioni su città e librerie con esperti come Alberto Manguel e Luigi Amara all'interpretazione delle biblioteche di Don Chisciotte e del Capitano Nemo, Jorge Carrión ci accompagna in un viaggio appassionato attraverso le meraviglie della lettura e delle persone che ne hanno fatto un'arte di vita. Nella prima delle storie che compongono il libro, Contro Amazon, l'autore catalano enuncia sette ragioni (un manifesto) per cui opporsi ad Amazon: 1) Perché non voglio essere complice di un'espropriazione simbolica; 2) perché siamo tutti cyborg, ma non robot; 3) perché rifiuto l'ipocrisia; 4) perché non voglio essere complice del neo-impero; 5) perché non voglio che mi spiino mentre leggo; 6) perché difendo la lentezza accelerata, la vicinanza relativa; 7) perché non sono ingenuo.
Con l'espressione "le cento città d'Italia" Carlo Cattaneo constatava l'eterogeneità e le differenze fisiche, storiche e sociali del nostro Paese. Ancora oggi, colpisce chi si muove lungo la penisola quanto possano essere diverse antropologicamente e culturalmente città peraltro vicinissime tra loro, appartenenti a uno stesso territorio e a una simile storia. In questo saggio Goffredo Fofi indaga le originalità del nostro territorio e le sue mutazioni, come scrittori e registi lo hanno raccontato e quali siano i dialoghi tra centri e periferie.
É necessario riscoprire il ruolo del dialogo nella Chiesa, nella società e nella politica. Dialogare é un gesto essenziale dell'interazione umana e della trasformazione sociale. Esso non si esaurisce nella comunicazione intima o nello scambio tra persone affini. Lo stile dialogico di Gesù continua a ispirare azioni e conversazioni popolari mettendoli sotto il segno della misericordia e della partecipazione. Occorre dilatare il dialogo per avviare processi di riforma ecclesiale. Bisogna incoraggiare le pratiche di rinnovamento sociale per edificare città più giuste, eque e solidali.
Siamo abituati a pensare alla criminalità come a un problema locale o, se di tipo mafioso, tutt'al più nazionale. Ma oggi siamo di fronte a una criminalità 2.0, le cui minacce hanno portata globale perché globali sono i flussi del narcotraffico, del riciclaggio, della tratta di esseri umani e del terrorismo. E l'Europa è al centro di tutte queste minacce. Filippo Spiezia, magistrato italiano vicepresidente di Eurojust, affronta in questo libro i rischi più inquietanti per la sicurezza dei cittadini europei. Le mafie, tra cui primeggia la 'ndrangheta, si stanno espandendo in tutto il continente, dove si infiltrano nell'economia legale per reinvestire gli straordinari proventi della droga e arrivano ad allacciare rapporti con le alte sfere della politica e dell'imprenditoria. Il terrorismo islamico si rigenera senza sosta, e solo un'intensa attività di contrasto internazionale ha potuto sventare nuovi attentati. L'emergenza migratoria ha sconvolto l'UE, impreparata davanti a milioni di persone che hanno varcato illegalmente i suoi confini, spesso perché vittime di tratta. I ciberattacchi e le truffe sul web si moltiplicano, mettendo a repentaglio le nostre identità (e i nostri soldi) online. Fra tutti questi fenomeni c'è un legame molto stretto, che Spiezia ricostruisce ricorrendo anche a esempi concreti tratti dal suo impegno in prima linea. Una gigantesca questione criminale attanaglia l'Europa, ed è solo a livello europeo che può essere affrontata efficacemente, armonizzando le legislazioni e l'azione delle polizie e delle autorità giudiziarie nazionali. Prefazione di Maria Falcone. Postfazione di Franco Roberti.
Con l'ampliamento degli ambiti, non solo territoriali, su cui l'uomo può esercitare il suo potere, si sono allargati anche i campi in cui la politica dei singoli Paesi vuole imporre il proprio controllo, e la scienza della geopolitica è tornata ad assumere l'importanza che, in qualche modo, aveva perso dopo la Seconda guerra mondiale, con l'obiettivo primario della supremazia economica. Quello che non è cambiato, sostiene Pedro Baños, esperto spagnolo di strategia politica e militare, sono le strategie per mettere in atto la volontà di dominio e di espansione, la maggior parte delle quali si possono considerare "immortali". Con il sostegno delle parole di autori senza tempo, da Sun-Tzu a Machiavelli, e attraverso l'esempio di eventi fondamentali della storia moderna e dell'attualità, l'autore svela per la prima volta da dietro le quinte il mondo opaco dei giochi di potere tra le élite politiche internazionali e le tecniche e i trucchi "classici" ancora oggi utilizzati per indirizzare gli eventi e manipolare l'avversario - "Impoverisci e indebolisci il tuo vicino", "Menti, qualcosa resterà", "Chi fa le parti si prende quella migliore" e molte altre. E come tutto questo si riversi, a cascata, nella vita di ogni singolo cittadino.
Chi sono i neoitaliani? Siamo tutti noi, che abbiamo attraversato la stranissima primavera del 2020 e ora affrontiamo un futuro incerto. "Ci vorrà tempo per capire come la pandemia, lo spavento e le difficoltà abbiano cambiato il nostro carattere. Ma un cambiamento è avvenuto." Beppe Severgnini, che ha dedicato la carriera alla meticolosa osservazione dei connazionali, non ha dubbi: "Dalla bufera siamo usciti diversi. Peggiori o migliori? Direi: non siamo andati indietro. A modo nostro, siamo andati avanti. Siamo stati costretti a trovare dentro di noi - nelle nostre città, nelle nostre famiglie, nelle nostre teste, nel nostro cuore - risorse che non sapevamo di possedere". Quindici anni dopo "La testa degli italiani" - il libro che ha spiegato agli stranieri il nostro carattere nazionale - l'autore ha deciso di raccontare i cambiamenti avvenuti e anticipare quelli che verranno. "Neoitaliani" ruota intorno a una sorta di manifesto: 50 motivi per essere italiani. Un modo insolito per spiegare chi siamo, e capire chi potremmo essere. Scrive Severgnini: "Il virus ci ha messo con le spalle al muro. La posizione in cui noi italiani diamo tradizionalmente il meglio". E aggiunge: "Abbiamo dimostrato di saper essere disciplinati, ma ci scoccia ammetterlo. Temiamo di rovinarci la reputazione". Il suo racconto vi convincerà che i neoitaliani sono pronti a fare cose nuove. Non sappiamo quali e non sappiamo quante e non sappiamo quando. Sappiamo, però, che dipenderà da noi. Noi siamo italiani. Non sottovalutateci mai.
Il racconto è un'attività identitaria del genere umano, tanto antica quanto irrinunciabile per una specie, la nostra, che si fonda sulla comunità. Le storie ci uniscono, mentre tutto ciò che rimane non detto, nascosto dal silenzio, produce distanza, isolamento. È questa la riflessione da cui muove Elif Shafak per proporre una lettura del tempo in cui viviamo. Il nostro mondo diviso, tartassato dal fiorire dei populismi, ferito da un'imprevista e violentissima crisi sanitaria, può trovare slancio, e un rinnovato ottimismo, dall'ascolto dell'altro. L'intero sistema mondiale è rotto e attraversiamo una fase storica unica, che spinge verso un cambiamento radicale. A cosa guardare, adesso, per dare forma a un nuovo presente? Elif Shafak, cittadina del mondo per antonomasia, stretta con il cuore alla sua Istanbul, dove però non le è permesso tornare, trova una risposta nel potere dello scambio con gli altri. In una comunicazione che non rifugga la complessità, una conoscenza che sia antitesi dell'informazione. Per arrivare infine a un racconto comune, un nuovo spazio di civiltà, in cui identificarsi.
A volte la vita ti casca addosso e ti obbliga a cambiare forma. Entra nella tua struttura consueta e la rivoluziona. Ti allarghi, ti stringi, ti pieghi. Ti spalmi e ti ritrai. Cambi continuamente, nello sforzo di reggere l’impatto che continua a sconvolgerti. Che ti potrebbe rompere e frantumare. Ma tu continui ad adattarti a quella forza d’urto. Non lo sapevi che potevi assumere nuove forme, modificare i contorni e i confini della tua sagoma. O meglio, non lo sapevi perché non ci avevi mai provato. Non era mai successo nulla, prima, che ti obbligasse a inventare nuove forme di te. Tutto questo si chiama resilienza. E il dato di fatto è che a molti di noi, nell’emergenza che la pandemia da COVID-19 ha messo nelle nostre vite, è proprio successo questo: siamo diventati più forti. E forse anche un po’ migliori. Perché è successo? Come è successo? Cosa è successo realmente? E soprattutto cosa abbiamo appreso e dobbiamo imparare a tenere con noi anche nei tempi di quiete, perché ci rende migliori? Questo libro vuole provare a rispondere a queste domande. Partendo da ciò che è successo in molte delle nostre famiglie, rielaborando i fatti, gli eventi e gli avvenimenti salienti, riprendendo la traccia di quelle settimane in cui il virus ci ha obbligato a diventare diversi da ciò che eravamo sempre stati, pur continuando a rimanere quelli di sempre, queste pagine vogliono essere un percorso di resilienza e apprendimento. Perché ciò che ha sconvolto il mondo ha cambiato anche il nostro modo di essere famiglia. E probabilmente ci ha reso anche più forti. Il rischio potrebbe essere, dopo una grande fatica, di cancellarne la memoria, rimuoverla da noi e ributtarsi in ciò che eravamo prima di viverla. Ma così facendo staremmo solo in un territorio vuoto e deserto, che non sa far tesoro dell’esperienza che ci è data per elaborarne significati e contenuti. Questo libro parte proprio da quel tesoro. Da ciò che l’emergenza COVID-19 ci ha lasciato. E che non deve essere più dimenticato. Ma integrato nelle nostre storie di vita, nei nostri rapporti più intimi, nelle nostre relazioni familiari.
Stalin andava quasi ogni sera al Bolscioi, percorrendo un corridoio sotterraneo segreto. Spesso gli artisti ricambiavano la cortesia e si recavano al Cremlino. Tra essi, una donna ebbe un rapporto privilegiato con il dittatore: Olga Lepeshinskaya, prima ballerina a Mosca dal 1933 al 1963. Stalin le portava delle rose in camerino, poi cenava con lei e le chiedeva di danzare. Dopo la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell'Unione Sovietica, dagli archivi, dalle biblioteche, ma soprattutto dalle confidenze personali di molti protagonisti della storia russa emergono racconti sorprendenti.
Sommario
Prefatio dolorosa. 1. Il catalogo di Voltaire e la volpe russa. 2. Le tesi di Lenin sono nel menù . 3. Un pinguino per Eisenhower. 4. Tolstoj sul divano verde . 5. Il pendolo di Jasnaja Poljana . 6. Segreti della Stalinka. 7. «Non uccidete lo Zar». 8. Le rose di Stalin. 9. Pasternak e Togliatti. 10. Simenon: l’indizio è in una pipa. 11. Chruščëv e il falso della scarpa. 12. Una lettera per il Papa. 13. Il modesto comò del dottor Čechov. 14. Una beauty farm nel bunker. 15. Leggere De Amicis nella dacia di Gorki. 16. La notte in cui l’Urss si fermò per Glenn Gould. 17. Cervelli da clonare. 18. Quando Dostoevskij dormiva nel baule. 19. Il mistero delle dodici stazioni. 20. Una lunga scia di fuoco. 21. Le spie in cantina. 22. Come i cosacchi inventarono il bistrò
Note sull'autore
Armando Torno è stato fondatore e responsabile del supplemento culturale “Domenica” de Il Sole 24 Ore e responsabile delle pagine culturali del Corriere della Sera. Ha frequentato la Russia per oltre un decennio ed è stato l'unico giornalista italiano ad accedere alla biblioteca di Stalin. I suoi libri sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco, russo, svedese, sloveno e portoghese.
«Non so mai se abbia senso parlare in termini generazionali. D'altra parte, è pur vero che c'è qualcosa che mi accomuna a quelli che hanno vissuto il passaggio tra i millenni. Sono cresciuto, come chiunque abbia la mia età, con i miti - i feticci, alle volte - politici del Sessantotto e del Settantasette: qualunque gesto somigliasse anche vagamente a una rivolta, mi è stato detto di misurarlo con quel metro simbolico. E lo stesso è stato per le sconfitte e i reflussi. Di quegli anni e di quelle lotte, però, ho conosciuto anche la tinta della sconfitta. Il terrorismo da una parte e l'eroina di massa dall'altra. In una generazione come la mia, che non ha mai avuto simili esplosioni se non in forme minori e spesso emulative, il confronto con i momenti di sconfitta è più interessante. Siamo per lo più degli sconfitti, dei reduci, dei superstiti, senza aver ingaggiato alcuna battaglia. Molti sono semplicemente implosi, spesso tornati a vivere a casa dei genitori, molti agganciati agli psicofarmaci. L'espressione assente, il tono di voce distratto, il disincanto che si sclerotizza in apatia, il cinismo di maniera che non riesce nemmeno più a proteggere. Non faccio che chiedermi perché la condizione di sofferenza comune solo raramente abbia prodotto un atto di ribellione. E soprattutto, perché non è scattato un senso di fratellanza nella condivisione di una condizione materiale, sociale, simbolica simile?» È tempo di tornare a essere animali politici.