Questo libro è stato scritto per il cristiano chiamato ad affrontare le sfide della lotta politica e culturale in un tempo che pare determinato a costruire una società senza Dio, quindi senza rapporto fra Creatore e creatura, senza princìpi assoluti né verità condivise. In ultima analisi, senza quella pienezza di significato e di speranza che secondo l'Autrice, nel maturare della sua conversione in età adulta, solamente il cristianesimo possiede. Perché non c'è salvezza, non c'è vita eterna nella scienza, nella tecnologia, negli uomini che pensano di bastare a sé stessi. Queste pagine richiamano chi ha il dono della fede a comunicarla in ogni àmbito della società in cui è chiamato a spendersi: «Si tratta di messaggi estremamente importanti per chi nella battaglia politica e giuridica si confronta con resistenze inaudite», ha scritto Johannes Hartl nel suo invito alla lettura, sottolineando come le armi imprescindibili con cui scendere in campo siano la preghiera e il digiuno, per favorire il discernimento e il rinnovamento interiori. E poco importa se oggi la presenza cristiana è fortemente minoritaria, poiché, come evidenzia l'autrice, «i trend sociali non sono irreversibili», ma soprattutto chi abbraccia Cristo sa che Egli ha già vinto il mondo e vive, pertanto, nella prospettiva dell'eternità, preoccupandosi unicamente di ciò che davvero conta davanti a Dio.
La fortuna di questo saggio, pubblicato per la prima volta nel 1967, è dovuta ad almeno due motivi. Per un verso, coglie lucidamente la natura particolare dell'intreccio tra religione e politica negli Stati Uniti, legata certo al cristianesimo protestante e puritano dei padri fondatori, ma anche in grado - come dimostra l'analisi dei discorsi presidenziali - di trascendere il dato confessionale, rivelandosi un potente fattore inclusivo e di coesione morale. Per un altro verso, proprio questa peculiarità fa sorgere un problema più generale di confronto, per analogia ma anche per differenza, con la situazione europea. Il fatto che oggi si ritorni a parlare di "religione civile" a vari livelli - riguardo sia al generale processo di sacralizzazione della politica sia ai cambiamenti nel frattempo intervenuti negli Stati Uniti come in Europa - dimostra la classicità di queste pagine, che ci parlano ancora oggi e nel contempo riflettono problemi e situazioni profondamente diverse da quelle attuali.
Nel 1960, accompagnando l'ascesa alla Presidenza del primo cattolico, John Kennedy, sospetto in vasti settori dell'opinione pubblica protestante perché la Chiesa cattolica sembrava limitarne l'autonomia, il padre gesuita John Courtney Murray pubblicò We Hold These Truths - Catholic Reflections on the American Proposition, la raccolta dei propri scritti. In essa, a partire dal diritto costituzionale americano, proponeva di assumere pienamente la libertà religiosa come principio da valorizzare e non come male da tollerare. Kennedy si ispirò a Murray anche in un celebre discorso a Houston di quello stesso anno che ebbe particolare risonanza politica ed ecclesiale, anche ad anni di distanza. La prima apparizione italiana del testo (Morcelliana, 1965) intendeva accompagnare i lavori del Concilio Vaticano II ed in effetti ebbe un'influenza decisiva sulla Dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae anche grazie ai rapporti di lunga data dell'autore con Paolo VI. Oggi, in concomitanza con l'ascesa alla Presidenza di Joe Biden, secondo cattolico dopo Kennedy, vede la luce questa nuova edizione, con una premessa e una nota biografica e bibliografica di Stefano Ceccanti, nella convinzione che alcune intuizioni di fondo del testo e della Dichiarazione possano avere ancora un significato.
Questo volume, già tradotto negli Stati Uniti, presenta una analisi del significato e delle possibili conseguenze dell'elezione di Biden per la storia del cattolicesimo e dal punto di vista dei rapporti tra la politica americana, il Vaticano e la Chiesa globale. Joe Biden è il secondo presidente cattolico, dopo John Fitzgerald Kennedy (1961- 1963), ed è stato il quarto a candidarsi (Al Smith nel 1928 e John Kerry nel 2004) per ricoprire quella carica politica, ma anche morale e in certo modo religiosa, che è la presidenza degli Stati Uniti. Biden rappresenta un Paese diviso al suo interno come non mai dai tempi della guerra civile, ma anche un mondo cattolico in crisi e polarizzato al suo interno su molti temi. Il nodo centrale resta la combattuta e controversa eredità del Concilio Vaticano II e le conseguenti scelte in merito alla giustizia sociale, ai modelli economici, all'ambiente, ai rapporti con culture e religioni diverse.
É possibile pensare un rapporto fra la verità e il potere? Questa domanda, per nulla scontata, occupa la fase finale del pensiero di Michel Foucault, in cui la pratica politica e l'etica si incontrano sul piano della soggettività, trovando nelle nozioni antiche della cura del sé e della parrhesia (dire il vero) l'esteriorizzazione di un rapporto fecondo quanto problematico.
In questa prospettiva, Foucault non manca di sfidare ognuno di noi ad interrogare il nostro presente e a costruirci come soggetti di una libertà autentica.
Principio protestante e situazione proletaria è un chiaro esempio di pensiero militante, ovvero di una proposta teoretica impegnata nel difendere un'opzione sociale intollerante all'ingiustizia. Perciò il principio non rimane esterno al dramma della responsabilità, chiamata a destreggiarsi tra cinico realismo e speranza utopica. Tillich opera una critica filosofico-morale che accetta il rischio e l'ambiguità dell'azione politica. Banco di prova di questo esercizio è l'analisi della situazione proletaria, che muove dall'opzione umanistica, da una dottrina dell'uomo che riconosce come originario l'intreccio tra l'autocoscienza della propria singolarità e l'essenziale condizione sociale e politica dell'esistenza.
Il testo è una raccolta di saggi sul tema dell'Europa e del Cristianesimo visti attraverso la prospettiva di Florenskij, Guardini e Newman. Questi tre grandi autori rappresentano le tre "anime" - anglosassone, continentale e orientale - del Vecchio Continente.
Dal 1933 al 1945 Hitler si presenta come l’autentico «portatore di salvezza». A due anni dal suo avvento al potere Romano Guardini decide di reagire a questa commistione di religione e politica affrontando il tema del salvatore in chiave esclusivamente religiosa. Dopo la fine della guerra esce una seconda versione del testo – riportata anch’essa in questa edizione – corredata da una parte sul regime nazista e sull’Europa.
La religione politica del nazionalsocialismo si è rivelata come il più minaccioso tentativo di negazione del cristianesimo, il quale per Guardini significa liberazione dell’uomo dalle catene del potere e della natura perché gli offre una possibilità personale di salvezza. La negazione del cristianesimo si accompagna a quella delle sue grandi creazioni: l’umanesimo e la civiltà europea. L’ispirazione cristiana deve allora tornare a fornire la propria linfa all’Europa per proteggerla dai miti dei falsi salvatori. Il fatto che oggi siano tornati in auge rende questo scritto guardiniano ancora attuale: un classico del dibattito teologico-politico.
ROMANO GUARDINI (1885-1968) è stato uno dei protagonisti della storia culturale europea del sec. XX. Presso la Morcelliana è in corso di stampa l’Opera Omnia.
Il fine della politica è quello di governare gli affari umani o è un compito a termine, da svolgere in un tempo intermedio, nell'attesa del mondo a venire, quando giustizia e pace regneranno per sempre? Questa domanda - la matrice stessa della «teologia politica» - è divenuta possibile quando, nella storia è apparsa la categoria giudaica di «éschaton»: l'attesa di un «mondo a venire», il pieno realizzarsi di quanto, fin dall'inizio, era stato promesso. A partire da qui, l'idea di éschaton ha segnato l'intera storia dell'Occidente e la sua filosofia politica: dal giudaismo, tramite il cristianesimo, è giunta al moderno e qui si è secolarizzata nella forma delle filosofie del progresso e delle apocalittiche rivoluzionare. Oggi l'éschaton pare giunto al tramonto: nell'odierno tempo senza fine, la storia non deve raggiungere più alcun culmine e non ci resta che governare la contingenza del mondo, portarsi all'altezza della sua improbabilità. Natoli, in questo breve e denso libro, insegue nei segni della storia i mutamenti che questo concetto centrale ha avuto nei secoli. In origine un termine spaziale, denotante i limiti remoti, i luoghi lontani che si trovano oltre il confine identitario di un territorio, l'éschaton ha assunto nel cristianesimo il suo marcato significato temporale, divenendo il punto cui tendere, il ritorno messianico, il momento nel quale il Giudizio riunirà in una sola cosa giustizia e governo. Intanto, però, nella loro attesa sulla terra, gli uomini vivono una dilatata «epoca del frattanto». È in questo limbo temporale che il governo delle cose umane deve destreggiarsi, darsi un ordinamento, prepararsi al compimento della storia. Fino a quando, nella contemporaneità, l'éschaton perde progressivamente di significato, il tempo si dilata, infinito, e il fine della politica resta la politica stessa.
«L'equivoco di fondo del populismo sta nel ritenere che la maggioranza parlamentare si identifichi con il popolo tutto intero, legittimando il comportamento trasgressivo dei leader eletti, che ambiscono a conquistare spazi di potere sempre maggiore. Occorre prendere posizione con coraggio su una serie di sintomi, espliciti indicatori di un cancro della nostra democrazia». Da questa forte provocazione prende le mosse la riflessione di un grande protagonista e testimone della storia politica italiana, che con sguardo lucido lancia un allarme sulle derive istituzionali in atto nel nostro Paese, in Europa e nell'intero Occidente. Pungolato dalle domande di Chiara Tintori, padre Sorge denuncia la superficialità con cui l'attuale politica, ossessionata dal consenso, affronta problemi complessi - immigrazione, povertà, disoccupazione - evitando di indagare, con la necessaria competenza, le radici profonde dei mali che affliggono la società italiana. L'antidoto al populismo è per i due autori un "popolarismo" moderno, certamente ancora ispirato all'Appello ai liberi e forti di don Sturzo (1919) - che con straordinaria lungimiranza aveva posto i fondamenti di una "buona politica" e di una "laicità positiva" -, ma capace di declinarsi oggi nelle nostre società multiculturali e multireligiose.
Il libro raccoglie due testi sui limiti e le ragioni dell'impegno politico di fronte a quello assoluto e trascendente rappresentato dalla fede. Il cristiano può - e in determinate circostanze, deve - accettare lo Stato, ma mai incondizionatamente, in quanto egli appartiene a uno Stato superiore e la sua libertà si fonda sull'indipendenza da qualsiasi ideologia o peculiare forma di governo. Prendendo le distanze dalla tentazione di ogni "Cristianesimo sociale", Barth ribadisce la necessità di una formazione politica della coscienza, unita al dovere del credente di lottare per la salvezza dell'umanità, interrogando sempre il rapporto perennemente in tensione tra fede e potere politico. La riflessione su questi temi trova forma nel commento al capitolo 13 della «Lettera ai Romani» di san Paolo (1919, poi rielaborato nel 1922) e nella conferenza del 1933, in cui l'autore si oppone radicalmente alla nascita in Germania di una Chiesa di regime sottomessa al culto del Führer, e afferma che è venuto il tempo di una "decisione politica" fondata sulla libertà del Vangelo.
Il legame tra la teologia e la politica è tornato prepotentemente in primo piano, non solo con l’affermarsi di forme di radicalismo islamico, ma anche con la rinnovata centralità del cristianesimo, e delle forme di vita tradizionali a esso ispirate, nel “secolarizzato” Occidente. Come provano a dimostrare i testi raccolti in questo volume, però, fra la politica e la religione c’è una relazione ben altrimenti complessa, in gran parte confluita nell’elaborazione del concetto di “teologia politica”, a significare l’origine teologica delle categorie portanti della moderna politica occidentale. Come è giusto ricordare, questo approccio, che ovviamente va fatto risalire a Carl Schmitt, ma anche a Jacob Taubes, ha goduto di una ricezione privilegiata e precoce da parte degli intellettuali italiani, in largo anticipo rispetto ad altri contesti culturali.
È dunque nell’arco dell’orizzonte teorico schmittiano e della sua critica che i contributi qui offerti cercano di mettere a fuoco il nesso tra religione e politica, lungo un percorso articolato in tre tappe, corrispondenti alle tre parti del libro: Teologia politica e pensiero italiano, Il dibattito tedesco e Per una critica della teologia politica. L’ambizione collettiva degli autori è quella di confrontarsi fruttuosamente con la pluralità dei discorsi teologici politicamente attivi, propri tanto dei monoteismi quanto delle rivoluzioni (si pensi alla “spiritualità politica” di cui parlò Foucault in occasione della sollevazione iraniana del 1978), e con gli addentellati che essi presentano con la dimensione economica – travolta dalla grande recessione iniziata nel 2008 –, con quella giuridica e con quella più propriamente politologica.