Perché le parole sono così importanti per così tanti ebrei? Il romanziere Amos Oz e la storica Fania Oz-Salzberger si avventurano lungo le varie epoche della storia ebraica per spiegare la fondamentale relazione che esiste tra gli ebrei e le parole. Mescolando narrazione e studio, conversazione e argomentazione, padre e figlia raccontano le storie che stanno dietro ai nomi, ai proverbi, alle dispute, ai testi e alle barzellette più duraturi dell'ebraismo. Secondo loro, queste parole compongono la catena che lega Abramo agli ebrei di tutte le successive generazioni. Usando come cornice per la discussione questioni quali la continuità, le donne, l'atemporalità, l'individualismo, i due Oz riescono con maestria a entrare in contatto con personalità ebraiche di ogni tempo, dall'anonimo, forse femminile, autore del "Cantico dei Cantici", passando per oscuri talmudisti, fino agli scrittori contemporanei. Suggeriscono che la continuità ebraica, persino l'unicità ebraica, non dipenda tanto da alcuni luoghi essenziali, monumenti, personalità eroiche o rituali, quanto piuttosto dalle parole scritte e da un confronto che si perpetua tra le generazioni. Ricco com'è di cultura, poesia e umorismo, questo libro è un viaggio tra le parole che sono al centro della civiltà ebraica e porge la mano al lettore, qualsiasi lettore, perché si unisca alla conversazione.
Nel terzo Convegno del ciclo "Religiosità e civiltà", tema delle Settimane della Mendola, Nuova Serie, sono state indagate le varie modalità con cui il cristianesimo si è aperto alla conoscenza delle altre religioni. In particolare si è esplorato come, con varie modulazioni, i cristiani di età medievale abbiano percorso itinerari che, a partire dalla coscienza del loro essere profondo, li hanno portati a misurarsi con i messaggi delle altre religioni, utilizzando sia l'osservazione empirica, sia lo studio approfondito delle altrui tradizioni culturali, sia la traduzione e la riflessione sui testi sacri delle altre fedi religiose, con particolare riguardo al Corano. I singoli casi di studio sistematico di argomenti particolari sono anche serviti per verificare come il confronto tra gli aspetti culturali e le forme cultuali delle altre religioni non abbia portato a uno scontro di civiltà, come alcuni studiosi hanno recentemente sostenuto, bensì, allontanando ogni facile irenismo, a una effettiva difficoltà di realizzare un vero e proprio dialogo. Sono indubbiamente emersi gli influssi reciproci, sul piano del comportamento etico, e a volte sul terreno delle liturgie, ma a tratti sono stati messi a nudo gli scontri violenti, specialmente contro i pagani delle pianure dell'Est europeo, o contro gli ebrei presenti in Occidente, o contro i musulmani durante le diverse spedizioni crociate.
Petacco ricostruisce la storia dell'"emigrazione politica" dei comunisti italiani riparati in Unione Sovietica dopo l'avvento del fascismo: attraverso grandi e piccole vicende umane, tratteggia l'atmosfera irrespirabile del Club degli emigrati di Mosca, una sorta di dopolavoro dove le riunioni si erano trasformate in processi inquisitori. Rivela come le schede compilate e inviate dal PCI, in cui venivano elencati gli "errori" politici commessi e poi corretti, si fossero rivelate delle denunce che ponevano gli sventurati alla mercé degli inquisitori di Stalin. Descrive il clima ambiguo e inquietante del Lux, l'albergo dove alloggiavano i compagni "dirigenti" e dove l'acqua scorreva nei lavandini anche la notte per confondere le "cimici" nel caso qualcuno parlasse nel sonno. E, non ultimo, la misera sorte di tanti bambini i "figli del partito" -rimasti senza genitori e spediti negli istituti organizzati dal Comintern per forgiare gli "uomini nuovi". La vita di tanti italiani si concluse drammaticamente con la fucilazione o la deportazione nel gulag. Gli emigrati che chiesero l'"onore" della cittadinanza sovietica furono i più sfortunati, perché persero ogni diritto, mentre a coloro che rimasero italiani andò un po' meglio: qualcuno tornò a casa, sia pure a prezzo del silenzio.
Se il buon nome e il successo della monarchia britannica dipendessero dalla gloria degli antenati, Elisabetta II rischierebbe di trovarsi a mal partito: nessuno infatti ha lavorato più alacremente di molti suoi predecessori per demolire l'immagine della dinastia. Seguendo a ritroso l'albero genealogico dell'attuale regina, ci si imbatte in una serie di veri campioni di dissipatezza e follia. Donnaioli incalliti ricattati dalle amanti come Edoardo VIII, che abdicò per sposare l'americana Wallis Simpson, o Edoardo VII, al quale la madre - la solida e severa regina Vittoria - indirizzava inutilmente accorati richiami al dovere. Genitori sadici come Giorgio I, il re arrivato all'inizio del 1700 dal principato di Hannover, che sfrattò il figlio e la nuora separandoli dai loro bambini. Scialacquatori di ricchezze come Giorgio IV, in gioventù bello e raffinato quanto il principe delle favole, che per ripianare i suoi debiti fu costretto alle nozze con una donna che gli ripugnava. Per fortuna, fra sordide guerre dinastiche e scandali di letto spuntarono anche matrimoni fortunati e figure capaci di garantire la stabilità e il successo della monarchia: come quella di Elizabeth Bowes-Lyon, l'indimenticabile Regina Madre - volontà di ferro dietro il sorriso soave che conquistò non solo il cuore del balbuziente e incerto Giorgio VI, ma anche l'affetto dell'intera nazione.
«La battaglia della fame, delle ingiurie, delle percosse, delle umiliazioni. Le nostre sofferenze hanno contribuito certo alla vittoria». Così scriveva Tullio Calliari, deportato in un lager di lavoro in Germania, come 650mila altri militari italiani dopo l'8 settembre 1943. Cinquantamila «Imi» (italienische Militär-Internierte) morirono in prigionia, molti tornarono con segni indelebili dell'incubo vissuto. Ma avevano resistito alla follia nazista.
«Noi internati militari abbiamo sofferto ciò che nessuno può immaginare. Raccontate pure che gli italiani di Badoglio (come ci chiamavano) sono morti di fame, sono stati ammazzati a legnate, sono stati impiccati perché costretti a rubare per fame. Le donne tedesche ci respingevano dai rifugi durante i bombardamenti, dicendo che per i traditori non c'è posto. Oggi le cose sono cambiate, ma solo pensare che noi possiamo perdere il ricordo è da pazzi» (Fürstenfeldbruck, 22.7.1945).
Calliari era impaziente e attendeva di partecipare allo sforzo collettivo richiesto da un Paese che faticosamente usciva dalla guerra e si liberava dalle macerie prodotte dal fascismo. Era anche preoccupato dall'idea che qualcuno volesse «perdere il ricordo». Queste pagine sono un antidoto (Giuseppe Ferrandi).
Settant'anni dopo la voce di Tullio Calliari ritorna come testimonianza dell'orrore di una guerra voluta dalle dittature nazifasciste, che ha insanguinato l'Europa.
A cura di Alberto Conci, con una prefazione di Giuseppe Ferrandi, direttore del Museo storico di Trento.
Figlia naturale del cardinale Alessandro Farnese, Clelia (1557-1613) sposa nel 1571 Giovan Giorgio Cesarini, gonfaloniere del Popolo romano. Sullo sfondo di una Roma festaiola quanto violenta, cinica e spregiudicata, la bellissima Clelia si muove tra un marito che la tradisce e un padre deciso a servirsi di lei per le sue aspirazioni alla tiara. Riuscirà a piegare questa figlia caparbia e indomita solo facendola sequestrare e rinchiudere nella Rocca di Ronciglione. Costretta a sposare in seconde nozze il marchese di Sassuolo, nel 1587 Clelia verrà "esiliata" nel feudo padano, da dove farà ritorno a Roma solo dopo l'assassinio del marito (1599). La storia di una donna ribelle e affascinante, un eloquente ritratto della corte papale e dell'aristocrazia romana negli anni della Controriforma.
De Gasperi ha salvato la libertà dell'Italia e non era affatto un lacchè del governo americano. Togliatti veniva chiamato il migliore, ma per molti era il peggiore perché s'inchinava davanti ai baffi di Stalin. L'editore Feltrinelli non è stato eliminato dai servizi segreti, si è ucciso nell'inseguire la chimera di una rivoluzione proletaria. Il Sessantotto si è rivelato un tragico bluff che ha distrutto la nostra università. Andreotti Belzebù le ha sbagliate tutte? Assolutamente no. Sono alcuni dei giudizi che il lettore troverà in "Sangue, sesso, soldi". Un titolo che fotografa la natura dell'Italia che abbiamo costruito dal 1946 in poi.
Come accade che, dopo l'interminabile durata dei periodi preistorici, quasi di colpo sboccia questo mirabile fenomeno che è lo stato, cioè una società strutturata lungo linee di potere che inquadrano gli individui in un nuovo organismo supra-personale? Il volume esplora i motori che ne furono la causa, e di cui la Mesopotamia ci offre la prima e più ricca documentazione - dalla tecnica all'ideologia. In questa prospettiva, il fulcro del potere tende inevitabilmente a espandere il proprio raggio di azione fino a volerne escludere ogni altro analogo. È così che vediamo come si arrivi, proprio in Mesopotamia, dal primo stato territoriale nucleare, lo stato-città, fino all'ultima possibile realizzazione, e cioè lo stato universale, l'impero. Al contempo, vi sono esperimenti che mirano a salvaguardare la dimensione personale del singolo. In qualche modo, il sistema giuridico mira a difendere l'individuo. L'ideale di preservare l'integrità della persona all'interno di un organismo essenzialmente supra-personale rimane quindi un problema irrisolto. Un problema che la storia della Mesopotamia antica ci rimanda, avendolo ben inquadrato per le nostre istanze moderne. Il presente volume fa parte de "Il paese delle quattro rive. Corpus mesopotamico", del quale nel 2012 è già comparso presso Jaca Book "'Quando in alto i cieli...'. La spiritualità mesopotamica a confronto con quella biblica"
In gioventù, Shlomo Sand aveva fatto proprio l'impegno di Ilya Ehrenburg: avrebbe continuato a professarsi ebreo finché al mondo fosse rimasto anche un solo antisemita. Ma, forse proprio a causa dell'antisemitismo, l'identità ebraica ha subito una deformazione, è diventata una sorta di essenza eterna (perfino genetica, secondo gli scienziati sionisti) fino a trasformarsi nell'alibi per una politica aggressiva e autoritaria: così Israele è una democrazia che discrimina i suoi cittadini in base alla religione, visto che i non ebrei non godono degli stessi diritti degli ebrei, i matrimoni misti sono mal tollerati e la società è "una tra le più razziste del mondo occidentale". Come può allora "chi non è religioso ma umanista, democratico e dotato di un minimo di onestà, continuare a definirsi ebreo?" La risposta è un attacco al cuore di Israele, ma anche un incontro doloroso dell'autore con la propria storia, una riflessione profonda e culturalmente articolata sul senso di un'identità tormentata e sempre in bilico. Mettere in discussione i concetti chiave e le fondamenta del nostro sistema di pensiero è molto più difficile che orientarsi in base a pregiudizi e a frasi fatte, spiega Sand, ma è solo attraverso la voragine di dubbi e perplessità che si apre sotto i nostri piedi quando facciamo i conti con le logiche sotterranee del nostro passato che il futuro inizia a compiersi: "Sono figlio di ebrei sopravvissuti all'inferno europeo degli anni quaranta senza mai smettere di sognare una vita migliore".
Dagli anni del Risorgimento all'Unità d'Italia, dal fascismo e dalla Seconda guerra mondiale fino a oggi, la costruzione di una "religione civile" l'insieme dei valori e dei principî che fondano lo spazio pubblico della cittadinanza - è il banco di prova su cui, di volta in volta, si è misurata l'efficacia di una classe politica nel mettere mano al progetto di "fare gli italiani". Il trasformismo nell'Italia liberale, la dittatura in quella fascista, il debordante intervento dei partiti nell'Italia repubblicana, sono stati tutti elementi che hanno indebolito la costruzione politica dell'identità nazionale. Fino alla carestia morale e progettuale che ha investito uomini e partiti dell'Italia di oggi. Con un libro che somma analisi storica a riflessioni di pungente attualità, Giovanni De Luna ricostruisce la storia delle "tradizioni inventate", i tentativi di arginare l'ingombrante presenza della Chiesa cattolica, l'egemonia dei valori e degli interessi imposti dal mercato con una riflessione conclusiva proprio sugli aspetti piú inquietanti di venti anni di pensiero unico.
Sulla base di una conoscenza diretta delle fonti e dell'ormai sterminata bibliografia di lingua tedesca e italiana, l'autore traccia un profilo dell'imperatore normanno-svevo Federico II (1194-1250), una delle figure più discusse del Medioevo europeo. Il volume è suddiviso in tre parti: la prima è dedicata alla storia politica di Federico, segnata dalla lotta con il Papato e i Comuni; la seconda si occupa dell'uomo, della sua sfera famigliare, dei suoi interessi filosofici e scientifici, e del suo entourage di cui facevano parte anche studiosi ebraici e arabi; la terza segue la formazione del mito di Federico attraverso i secoli fino ai giorni nostri. Pur essendo un uomo del suo tempo e non, come volle dirlo un grande storico dell'Ottocento, "il primo uomo moderno sul trono", Federico II con i suoi interessi multiculturali e il suo tentativo di dialogo con il mondo arabo-musulmano, insoliti per un imperatore medievale, affascina ancora oggi.
Rovesciando una prospettiva tradizionale che vedeva nello stato della Chiesa un ingombrante residuo dell'epoca precedente e un ostacolo allo sviluppo delle forme statuali moderne, questo saggio mostra come il pontefice, a un tempo sovrano di uno stato territoriale e capo della cristianità, papa-re, in quello sviluppo giocò in realtà un ruolo decisivo. La monarchia papale fornisce infatti allo stato il modello per incorporare la religione all'interno della politica e per costruire le moderne chiese territoriali. È questa l'eredità che il papato della prima età moderna ha lasciato alla Chiesa e allo Stato dei secoli successivi.