"Abitare la distanza" è la condizione dell'uomo, caratterizzata dal paradosso: egli è dentro e fuori, vicino e lontano, ha bisogno di un luogo, di una casa dove "stare" ma poi, quando cerca questo luogo, scopre il fuori, la distanza, l'alterità. Nello scenario del pensiero contemporaneo, l'autore interroga i filosofi che guardano in questa stessa direzione - Heidegger, Derrida, Lacan, ma anche Merleau-Ponty, Ricoeur, Bateson -, non solo descrivendo una condizione "impossibile" ma soprattutto indicando un modo, un atteggiamento, un "come" stare nel paradosso. E proponendo alcuni esercizi - nello stile di possibili pratiche filosofiche - relativi allo sguardo, all'ascolto e alla scrittura.
Testimonianza di una nobile e sincera amicizia, il libro è il generoso omaggio di un grande filosofo a un filosofo più giovane che da principio ne ha seguito le tracce, per imporsi poi con un’opera originale. Omaggio filosofico, ovviamente: per quanto non manchino pagine intensamente affettuose che conferiscono un caldo colorito alle ricorrenti riflessioni sull’amicizia, il volume è dedicato a una lettura del pensiero di Jean-Luc Nancy (ben noto anche in Italia), considerato sotto una particolare angolazione, la questione del tatto, in tutti i significati che la parola ha assunto nella cultura occidentale, da quello erotico a quello religioso, da quello gnoseologico a quello etico. In un serrato dialogo con una tradizione che muove dall’antichità, ma con particolare attenzione a quella che Derrida chiama una linea filosofica «franco-tedesca», il libro, pur incentrato su Nancy, ne mette a confronto la scrittura con le tesi classiche in numerose digressioni che muovono da Aristotele per toccare Descartes e S. Giovanni della Croce, il Nuovo Testamento e Kant, il problema di Molineux e Maine de Biran, Husserl e Merleau-Ponty, Lévinas e Heidegger. Derrida tuttavia non elabora un trattato, e meno che mai si preoccupa di tracciare un capitolo della storia della filosofia occidentale, ma, secondo lo stile che caratterizza la sua splendida maturità, affida a un scrittura straordinariamente affascinante, benché non facile, il compito di cercare «nel solco di Heidegger, la specificità di un pensiero che non si riduca né alla poesia, né alla filosofia né alla scienza».
Accompagnato dai lavori di Simon Hantai
GLI AUTORI
JACQUES DERRIDA nasce il 15 luglio 1930 a El Biar, nei pressi di Algeri. Ha insegnato prevalentemente a Parigi e negli Stati Uniti, e ha ottenuto lauree e dottorati honoris causa in molte Università presenti nel mondo. Riconosciuto come uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, ha prodotto lavori che sono stati tradotti in una decina di lingue e che sono stati oggetto di convegni e incontri in Francia, Italia, Germania, Inghilterra, Canada, Stati Uniti e Giappone. Muore a Parigi il 9 ottobre 2004.
Un libro sull'origine dell'umanità, su Dio e sulla creazione di Eva, sul paradiso terrestre e sul peccato originale. Ma non si tratta di un libro di teologia. Piuttosto, è un'indagine di confine fra storia dell'arte e storia delle idee. In primo piano c'è la donna che Dio volle dare come compagna all'uomo: Eva che nasce dalla costola di Adamo, Eva che si lascia sedurre dal serpente tentatore e afferra il frutto proibito, Eva che porta, in eterno, la colpa della perdita dell'Eden e del peccato originale. Un mito, quello della coppia originaria, che pervade l'arte, la fede e la cultura occidentale: lo si ritrova raffigurato sulla facciata di Notre Dame, nel portale d'Adamo a Bamberga, nella Cappella Brancacci a Firenze, nella Cappella Sistina in Vaticano. E lo si incontra, persino più spesso, in una ricca tradizione di testi che muove da san Paolo e sant'Agostino per giungere, attraverso una quantità di commenti medievali e moderni, sino a oggi. Dopo aver presentato le immagini e i racconti, le diverse incarnazioni e interpretazioni che del mito sono state prodotte nel tempo, Kurt Flasch dà conto della rielaborazione che la cultura europea ha compiuto di un materiale mitologico nato originariamente in Oriente e indaga le dottrine e le costruzioni di pensiero originate dal racconto paradisiaco: il tema del peccato originale e della salvezza.
Averroè (1126-1198), il filosofo e scienziato arabo-spagnolo celebre in Occidente soprattutto per i suoi commentari al pensiero di Aristotele, fu uno degli intellettuali più controversi del suo tempo. Rampollo di un'eminente famiglia della sua città natale, fu lui stesso per molti anni fedele servitore dei sovrani almohadi, che dal 1147 presero a regnare in Africa e nella Spagna musulmana. Caduto in disgrazia, fu esiliato, le sue dottrine vennero condannate e fu vietato lo studio della sua filosofia. Poco prima della morte, venne tuttavia riabilitato e accolto a corte. Studioso poliedrico e versatile, ha lasciato contributi in campo non soltanto filosofico, ma anche teologico, giuridico e scientifico. Massimo Campanini ricostruisce la vicenda di questo importante protagonista della cultura medievale, mettendo in luce i principali aspetti del suo pensiero, analizzando i caratteri specifici di un'eredità filosofica destinata a esercitare un'influenza decisiva sul sapere dell'Occidente latino, e individuando nella natura "militante" del progetto culturale che egli elaborò il tratto più moderno e perspicuo dell'intera sua opera.
Che cosa lega logica e mistica, linguaggio e forma di vita? L'aspetto più affascinante del pensiero di Ludwig Wittgenstein è affrontato in queste pagine dal grande storico della filosofia antica Pierre Hadot. E cioè proprio da chi ebbe il merito di introdurre, alla fine degli anni cinquanta, il pensiero di Wittgenstein in Francia, con una serie di conferenze tenute presso il College Philosophique diretto da Jean Wahl. I quattro saggi scritti tra il 1959 e il 1962 e qui riuniti da Hadot costituiscono un itinerario unico nel suo genere: il filosofo, e non lo storico o lo specialista, si interroga sulla natura dell'indicibilità che il Tractatus logico-philosophicus ha svelato nel cuore del linguaggio, e la reinterpreta alla luce delle nozioni centrali delle Ricerche filosofiche, quelle di "gioco linguistico" e di "forma di vita". Questo libro famoso ci pone con la sua prosa piana e felice di fronte a un'immagine nuova e più vicina di Wittgenstein, l'immagine che ha poi ispirato l'idea centrale dell'opera di Hadot: il linguaggio filosofico, e dunque l'essenza della filosofia, è un'attività, o meglio un "esercizio spirituale".
Caratteristica peculiare dell'approccio arendtiano all'interpretazione dell'esperimento totalitario - di cui i campi di concentramento sono l'"istituzione centrale" - è la "cristallizzazione" storica di due elementi strutturali che troviamo alle origini della Grande Tradizione occidentale: da un lato la metamorfosi della politica in biopolitica; dall'altro la perdita della concezione del potere come dynamis e come spazio del tra a favore della razionalità onnipervasiva dell'homo faber. Dentro tale cornice si dipana il fil rouge che lega i saggi contenuti in questo volume: alcuni di essi ruotano intorno alla "teoria politica del giudizio" proposta da Hannah Arendt, relativa a quale forma etico-politica assuma l'atto prettamente umano del giudicare quando l'oggetto del giudizio sono esseri umani o azioni che sembrano aver perso del tutto ogni connotazione "umana"; gli altri esplorano il suo ardito tentativo di "ripensare il totalitarismo", sia in riferimento ai terrificanti e per tanti versi inconcepibili eventi che hanno marchiato indelebilmente il secolo scorso, sia applicando le categorie interpretative dell'ermeneutica arendtiana del totalitarismo alla contemporaneità e alle perverse dinamiche politiche del presente.
Frankfurt esamina l'idea di "verità": esiste? è davvero importante? Attingendo alla logica, alla linguistica, alla filosofia morale, a esempi quotidiani e passi di autori come Spinoza o Shakespeare, Frankfurt dimostra che conoscere la verità (o alcune verità) è di vitale importanza per la società e per la nostra stessa vita personale. Per questo i filosofi postmoderni che ritengono impossibile distinguere tra vero e falso forse, in fondo in fondo, non dicono la "verità".
La riflessione epistemologica di Michael Polanyi può, a buon diritto, annoverarsi come una delle più interessanti ed originali espressioni della cosiddetta "nuova filosofia della scienza". Essa ha la sua espressione più compiuta nella definizione della conoscenza scientifica come "conoscenza personale", che trova nel presente testo tutti gli elementi della futura elaborazione, corredati per di più dalle splendide e rivelative metafore del "golfista" e dello "scassinatore".
Che senso ha la vita? Perché sono qui? Perché dovrei fare la cosa giusta? E che cos'è la cosa giusta? Sono domande tutt'altro che facili. Ma alcune delle menti più brillanti della storia hanno lasciato idee e linee di condotta per il nostro benessere psicologico. Le concezioni di Platone sul bene e sul male, il consiglio di Aristotele di seguire in ogni situazione ragione e moderazione, i pensieri di Kierkegaard sulla morte, la saggezza tradizionale degli "I Ching" o la teoria dell'imperativo di Kant possono rivelarsi straordinariamente utili per affrontare problemi concreti. Questo libro riporta il pensiero dei grandi pensatori della filosofia di tutti i tempi, insegnando a vivere meglio il presente.
Il libro di Giuseppe Cambiano ricostruisce il ruolo fondante che le interpretazioni dell'esperienza politica e istituzionale di città come Atene e Sparta hanno svolto nel pensiero e nelle vicende politiche della storia italiana più recente, in particolare nel periodo che va dal Quattrocento al Settecento. Concetti-chiave come quelli di uguaglianza, di democrazia, di libertà, di partecipazione politica - sui quali molto si è discusso nell'età moderna - affondano infatti le loro radici nella nozione stessa di polis e hanno avuto origine nell'esperienza politica e istituzionale di una civiltà solo apparentemente lontana.
Cos'è la libertà? È un concetto che appartiene alla sfera privata di ciascun individuo, oppure ha a che fare con le relazioni tra gli individui e le leggi che regolano tali relazioni? I due concetti di realtà si escludono reciprocamente o possono convivere? Proprio al concetto di libertà sono dedicate le pagine delle Lezioni tenute da Guido De Ruggiero pochi mesi dopo la caduta del fascismo. L'opera può essere definita come una completa sintesi del pensiero politico, spesso mal interpretato, del filosofo napoletano. Per De Ruggiero la libertà è una inscindibile saldatura tra vita privata e politica, è la presa di responsabilità di ciascuno nell'ambito della collettività.
Cosa ha a che fare Atene con Gerusalemme? Vale a dire, cosa hanno in comune la cultura dell’uomo e la trascendenza dell’esperienza religiosa? È la domanda che si pose, tra la fine del II secolo e l’inizio del III, lo scrittore cristiano Tertulliano. E la sua risposta, sicura e intransigente, fu: «Assolutamente nulla».
Questa stessa domanda è lo stimolo di partenza per la ricognizione, precisa e insieme appassionata, che O’Malley compie della cultura occidentale, delle sue radici e della sua specificità. In una prospettiva originale e con una singolare capacità di sintesi, vengono individuati quattro grandi paradigmi culturali che si fronteggiano, si alleano, si contaminano lungo tutto l’arco della storia dell’Occidente. Quattro modelli che, come altrettante correnti, attraversano l’oceano della nostra tradizione consentendo di dipanarne e interpretarne le variegate espressioni, dal mondo classico all’avvento del cristianesimo, dall’esuberanza del Cinquecento alla secolarizzazione moderna e postmoderna.
La prima è la cultura profetica, quella di Isaia e Geremia, ma anche di Gregorio VII, di Lutero e, tra i moderni, dell’apostolo dei diritti civili Martin Luther King. È la cultura che parla alto e forte, che parte per le crociate e va al martirio, che non conosce compromessi e punta dritto a un futuro di libertà e giustizia. La seconda cultura è il suo contraltare immediato: è il mondo dei filosofi e degli scienziati, di Platone e Aristotele, dell’università e delle summae medievali, del Concilio di Trento e delle accademie scientifiche del Settecento. Privilegia il ragionamento, procede per prove e dimostrazioni.
C’è poi la cultura letteraria della poesia e della retorica, che accoglie anche l’attitudine pratica degli oratori e dei politici. È il modello umanistico, che realizza i suoi ideali nella lirica di Omero e Virgilio, ma insieme si preoccupa dell’educazione dei giovani e del bene comune; è la cultura della comprensione dell’uomo nelle sue mille sfaccettature, la cultura che accomuna attraverso i secoli Cicerone ed Erasmo, Molière ed Eleanor Roosevelt, Dante e il Concilio Vaticano II. Infine, c’è la cultura delle arti e dello spettacolo, che mette insieme Fidia e Prassitele, la musica e le cerimonie pubbliche, la liturgia e l’architettura barocca, la pittura sacra e la performance contemporanea. È la cultura del rito collettivo, dell’esperienza estetica, della bellezza fisica, materiale, ma insieme dell’incantesimo che trasporta in un luogo dove il linguaggio umano viene meno.
Nel disegnare il suo efficace ritratto della cultura occidentale, O’Malley ‘gioca’ con questi quattro modelli, mettendo a paragone situazioni storiche e personaggi esemplari e sottolineandone i momenti di rivalità e impermeabilità, ma anche di affinità e contatto. E infine ci invita a rileggere la nostra esperienza di uomini d’oggi, immaginando altri legami, altre combinazioni, per una comprensione sempre più stringente e consapevole della nostra storia e del nostro presente. Atene e Gerusalemme, lungi dall’essere incompatibili come le voleva Tertulliano, hanno insieme contribuito alla complessa architettura che chiamiamo Occidente. Sono la nostra eredità.
John W. O’Malley, gesuita, è professore emerito di Storia della Chiesa alla Weston Jesuit School di Cambridge (ma). Tra i curatori dell’edizione inglese dell’opera erasmiana, è autore di numerosi e pluripremiati saggi storici, tra cui, tradotti in italiano, I primi gesuiti (Vita e Pensiero 1999) e Trento e dintorni. Per una nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna (2005).