
Pensato come riflessione critica sul ruolo che le donne hanno avuto nel processo di costruzione dell'Italia unita come soggetti attivi e come proiezioni dell'immaginario collettivo, il volume è costruito secondo una sequenza di "generazioni brevi", affrontate ciascuna attraverso un suo tratto caratterizzante, affiancando un quadro generale al profilo di una o più figure che ne hanno impersonato la specificità: Giannina Milli, Erminia Fuà Fusinato, Matilde Serao, Maria Montessori, Margherita Sarfatti, Nilde Iotti, Tina Anselmi, Carla Lonzi. Una articolazione per blocchi ventennali - le "generazioni brevi" appunto - permette di rappresentare al meglio alcune scansioni di fondo della presenza delle donne in quanto soggetti ed emblemi del processo di nazionalizzazione: processo che, soprattutto sul fronte femminile, ha stentato a diventare di massa e che risulta fortemente segnato dalla tensione tra affermazione dei diritti (individuali e collettivi) e pratiche di controllo volte a modellare pensieri, progetti di vita, comportamenti delle donne e, con esse e attraverso di esse, di tutto il paese. Nell'ultima parte, attraverso un ventaglio di riflessioni, il volume dà voce alle contraddizioni in atto nel nuovo secolo, che valorizzano la soggettività delle giovani ma ne imbrigliano la proiezione sul futuro.
Tra la metà del XVI e la fine del XVIII secolo, quando furono espulsi da tutte le colonie spagnole e portoghesi delle Americhe, i Gesuiti posero le basi di un sistema culturale ed economico autosufficiente, fondato sulla religione e sulla convivenza tra indigeni ed europei. Attorno alle chiese e alle scuole delle missioni, la vita e il lavoro si svolgevano secondo un regime quasi collettivista, mentre la Compagnia di Gesù era ormai un pericoloso concorrente per gli affari dei latifondisti. Per questo e per la ferma opposizione allo schiavismo, dopo due secoli di lotte con le autorità laiche e le gerarchie cattoliche, le missioni vennero attaccate e distrutte una dopo l'altra, i Gesuiti espulsi, i nativi uccisi o ridotti in schiavitù. Robert Cunninghame Graham - attivista politico, scrittore e avventuriero - racconta la storia delle missioni gesuitiche in Paraguay servendosi dei numerosi e discordanti documenti dell'epoca. La sua cronaca è precisa, ma non nasconde la passione per un'epopea che anticipa per molti versi le idee del cristianesimo sociale del Novecento, per un'utopia - nobile nonostante i limiti posti dal proselitismo cristiano - cancellata quando era sul punto di realizzarsi.
Opera fondamentale della latinità e di tutta la storiografia occidentale, "Le storie" di Tacito furono scritte intorno al 110 d.C. e narrano - nella parte a noi pervenuta - i fatti del 69-70 d. C., dal famoso "anno dei quattro imperatori" succeduti a Nerone alla prima guerra giudaica con l'assedio di Gerusalemme. Benché incomplete, "Le storie" costituiscono un prezioso documento per conoscere la storia del I secolo dell'Impero e un raffinato documento letterario, di straordinaria densità e forza espressiva. Severo, solenne, Tacito scava nel profondo degli animi degli uomini per dipingere senza infingimenti la brama di potere di chi regna, l'ipocrisia dei cortigiani, la volubilità degli eserciti, l'insensatezza del volgo. Con un'analisi lucida e un giudizio acuto, innalza il contingente - la vicenda del principatus romano - a categoria storica universale, mostrando come la corruzione dei valori, il benessere e l'avidità abbiano portato alla fine di quella libertas mai sufficientemente rimpianta. Ancora oggi le sue parole permettono di penetrare nei disegni nascosti dei governanti, mostrando "di che lacrime grondi e di che sangue" la facciata del potere.
La Grande guerra continua a occupare un posto di primissimo piano tanto dal punto di vista della storiografia quanto da quello della memoria collettiva. Essa fu la prima manifestazione sistematica della combinazione tra tecnologia e produzione di morte, la prima espressione di una mobilitazione totale delle masse, fu, in breve, la prima rivelazione compiuta e folgorante della modernità, della sua natura, dei suoi dilemmi e dei suoi rischi. L'ambizione di questa enciclopedia della prima guerra mondiale è di fondere sensibilità e interessi propri della storiografia tradizionale più attenta all'oggettività dei processi, alle dimensioni diplomatiche, politiche, militari, ma anche economiche e sociali dell'evento, con i nuovi orizzonti aperti da una storia che si suole definire culturale e che riporta in primo piano le dimensioni della soggettività, dell'esperienza vissuta, dell'immaginario e della memoria anche grazie all'uso di fonti mai prima esplorate.
L'Odissea di Omero e le Storie di Erodoto: due tra le più antiche opere di viaggio della letteratura occidentale, entrambe espressione del mondo greco, eppure straordinariamente diverse l'una dall'altra. Il poema di Ulisse tratteggia l'itinerario simbolico e introspettivo di un uomo alla ricerca di se stesso, ed è la grande metafora che sta alle radici della letteratura occidentale e del nostro immaginario collettivo. Le Storie, invece, anche se permeate di informazioni favolose e poco veritiere, sono i resoconti delle ricerche e delle esplorazioni che Erodoto ha effettivamente compiuto lungo le rotte e le strade del Mediterraneo e dell'Antico Oriente. In Omero, il mondo selvaggio, al di là dei confini dell'Egeo occidentale, popolato da maghe seduttrici, giganti cannibali e Ciclopi, è modello negativo di barbarie, contrapposto ai valori della civiltà greca: a questi Ulisse, tra mille peripezie, e non senza indugiare, desidera infine fare ritorno. In Erodoto, l'orizzonte geografico si allarga a luoghi lontani e meravigliosi - la Libia, l'Iran, il Caucaso - e ai popoli che li abitano. Lo storico li osserva con l'atteggiamento di un moderno antropologo, che non crede all'esistenza di valori assoluti e civiltà superiori, ma sa che "se si proponesse a tutti gli uomini di scegliere, tra tutte, le usanze migliori, ciascuno dopo un'attenta riflessione indicherebbe le proprie". Con e-book scaricabile fino al 30-06-2014.
"In forma strisciante o in forma aperta, per molte generazioni, la guerra civile era, nelle città greche, "lo stato abituale, regolare, normale: si è nati, si vive, si morrà in essa. Non vi è atto, ambizione o pensiero che non si rapporti ad essa". Riconoscere che un conflitto è stato una guerra civile, cioè una guerra "tra cittadini", dipende dal vincitore. È il vincitore che concede, o non concede, al vinto tale riconoscimento. Che non significa annullare la distinzione tra torti e ragioni. Gli Ateniesi non compirono mai questo sforzo. Nel loro calendario ufficiale l'anno della guerra civile (404/3) era indicato con una formula quasi surreale: "non governo". Come se quell'anno non fosse mai esistito." Ripercorrendo l'opera storiografica di Senofonte, che di quei fatti fu protagonista, Luciano Canfora fa riaffiorare gli snodi drammatici che segnarono il sanguinoso epilogo fratricida della trentennale guerra contro Sparta: dall'elezione dei trenta "tiranni" alla riscossa dei "partigiani democratici" di Trasibulo fino alla violazione del patto di amnistia con l'eccidio di Eleusi. Un "diario" fazioso e apologetico, quello senofonteo, che va dunque raffrontato con le testimonianze di segno opposto, ma non per questo meno prezioso nel restituirci in presa diretta la crisi di un sistema in cui la manipolazione demagogica del consenso e il conflitto tra interessi di ceto, ideali e Realpolitik (temi di sorprendente attualità) aprirono crepe insanabili.
Il volume indaga le reti delle donne seguaci di Girolamo Savonarola, numerose nelle due generazioni successive alla morte del predicatore e leader politico. Nel tentativo di rimanere fedeli agli insegnamenti del loro capo, le seguaci di Savonarola dovettero spesso fare i conti con superiori ostili all'interno degli ordini religiosi cui appartenevano, furono esposte a pressioni politiche locali e all'ostilità nei confronti del protagonismo femminile, ben radicata nelle gerarchie cattoliche. In questo senso, "Le donne di Savonarola" offre una ricostruzione della presenza femminile in uno dei più importanti e controversi movimenti religiosi europei della prima età moderna. Prefazione di Gabriella Zarri.
Apertura ai comunisti? Possibile ingresso del Partito comunista italiano nella maggioranza di governo? Instaurazione di una Repubblica conciliare? Sul finire degli anni Sessanta del Novecento questi interrogativi animarono e in alcuni momenti dominarono il dibattito politico nel nostro paese. Della discussione che si sviluppò intorno alla possibilità di un nuovo corso nei rapporti con i comunisti i protagonisti principali furono indubbiamente Aldo Moro e la Democrazia cristiana. Sulla base di una vasta documentazione, italiana e statunitense, il volume ricostruisce la politica di Moro e della DC verso il PCI tra il 1967 e il 1969, fornendo un quadro analitico anche delle reazioni degli altri partiti, dei commenti della stampa e dell'atteggiamento degli Stati Uniti di fronte alle posizioni espresse dai democristiani e, più in generale, alla "questione comunista".
Sessant'anni fa il settimanale "Candido" di Giovannino Guareschi pubblicava due lettere datate gennaio 1944 e firmate da Alcide De Gasperi, in cui si esortavano gli angloamericani a bombardare Roma, affinché il popolo insorgesse insieme ai "nostri gruppi Patrioti". La polemica che ne scaturì, condotta sulle colonne di quotidiani e settimanali dell'epoca, si rivelò furibonda. C'era una sola domanda a cui nessuno sembrava rispondere in maniera convincente: De Gasperi le aveva davvero scritte, quelle lettere? A decidere, nell'aprile del 1954, fu il tribunale di Milano. La sentenza, pur rinunciando alla perizia grafologica, sancì la falsità delle missive e Guareschi fu condannato a un anno di reclusione. Il noto scrittore e vignettista rinunciò a ricorrere in appello e varcò le porte del carcere: sopporterà con fierezza la pena, ma ne uscirà indelebilmente segnato. La vicenda scosse in maniera profonda anche De Gasperi, costretto a difendersi di fronte all'opinione pubblica da un'accusa così infamante. Grazie alla scrupolosa analisi di una vasta documentazione inedita (conservata negli archivi di Alcide De Gasperi, di Giovannino Guareschi e di Giorgio Pisano), "Bombardate Roma!" delinea i contorni di una vicenda ancora avvolta nel mistero. L'indagine di Mimmo Franzinelli dimostra infatti l'esistenza di un "livello segreto", un piano messo a punto da un gruppo neofascista che ideò e fece costruire gli apocrifi. Conclude il libro un saggio della grafologa giudiziaria Nicole Ciccolo.
Ex partigiano poi regista di culto, oggi novantenne film-maker di cortometraggi che spopolano in rete, Giulio Questi ha partecipato giovanissimo alla guerra di liberazione tra Val Seriana e Val Brembana, e di quell'esperienza ha scritto nell'immediato dopoguerra dando vita a racconti portentosi, crudi e umanissimi. Su quei temi l'autore è tornato cinquant'anni dopo, a completare una raccolta che vede ora per la prima volta la luce. In mezzo, tutta una vita piena di incontri e avventure, ma soprattutto di cinema. Con uno sguardo "fenogliano" (proprio con Fenoglio, poco prima della sua morte, Giulio Questi stava ragionando su una trasposizione cinematografica di "Una questione privata") questi racconti ci restituiscono tutta la complessità di una scelta morale, vitale e violenta insieme, riuscendo a mescolare magistralmente realismo e visionarietà. La Resistenza di Giulio Questi è lontana da ogni retorica: nelle sue storie a volte feroci, ma sempre accese dall'ironia e dall'intelligenza, la guerra e la giovinezza si sovrappongono in una grande avventura che comprende il terrore e la sconsideratezza, il coraggio, la dignità, la fame, il freddo, la casualità dei gesti e l'impellenza dei desideri. Ma ci sono anche racconti onirici, d'indagine psicologica, che trascinano il lettore nel tempo e nello spazio, fin nella Colombia di Gabriel Garda Màrquez, continuando in fondo a raccontare i fantasmi dell'animo umano, le sue crepe e anche la sua inesauribile vitalità.
"Mafia Republic si basa su due semplici principi: il primo è che fra le tre grandi mafie italiane esistono molte più differenze di quanto potrebbe sembrare a prima vista. L'altro principio è che a dispetto di queste differenze le mafie hanno molto in comune, innanzi tutto il rapporto perverso con lo Stato italiano. Uno Stato in cui si sono infiltrate, con cui hanno collaborato, contro cui hanno combattuto. L'Italia non ha entità criminali statiche e solitarie, ma un ricco ecosistema malavitoso che continua ancora oggi a generare nuove forme di vita." Questo è il racconto di una storia lunga più di sessant'anni che si intreccia in molte, troppe, fasi con quella della Repubblica italiana.