
Non siamo in un'epoca di cambiamento ma in un cambiamento d'epoca. Così principia l'autore in questo libro, che analizza un percorso storico iniziato con la Pace di Versailles e confluito nel postmodernismo. Il fine? Un nuovo ordine del mondo, fondato sul libero mercato e ostacolato soltanto dagli interessi degli ultimi Paesi socialisti. Negli ultimi decenni, tuttavia, sono emersi alcuni elementi che ci obbligheranno a cambiamenti sostanziali nella nostra vita pubblica e privata. L'autore esamina i fatti storici che hanno accelerato questo processo e gli attori politici che, più di altri, godranno dei vantaggi di un pianeta globalizzato. Un processo di cambiamento che, con l'attuale pandemia mondiale di Coronavirus, ridisegna il nostro modo di pensare, di sentire, di vedere il mondo.
La partecipazione attiva al dibattito politico è la caratteristica fondamentale di una società democratica. In questi primi anni del XXI secolo assistiamo invece a una crescente passività dei cittadini occidentali. Finite le elezioni, trasformate in uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione, la politica viene poi decisa in privato dallo scambio di favori tra i governi eletti e le lobbies che rappresentanto in forme sempre più marcate gli interessi economici. E, in una società in cui la democrazia rappresentativa sembra al tramonto, la gente vive la politica come un corpo estraneo, lontano, inafferrabile.
La partecipazione attiva al dibattito politico è la caratteristica fondamentale di una società democratica. In questi primi anni del XXI secolo assistiamo invece a una crescente passività dei cittadini occidentali. Finite le elezioni, trasformate in uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione, la politica viene poi decisa in privato dallo scambio di favori tra i governi eletti e le lobbies che rappresentanto in forme sempre più marcate gli interessi economici. E, in una società in cui la democrazia rappresentativa sembra al tramonto, la gente vive la politica come un corpo estraneo, lontano, inafferrabile.
Dove sono finite le appartenenze politiche? Non pochi sostengono che l'attenuarsi del contrasto tra opposte identità collettive è il segno di un passaggio della politica dall'infatuazione ideologica a una conquistata dimensione pragmatica. Ma le ragioni della contrapposizione Sinistra-Destra sono ancora tutte lì, sul tappeto "globale", potenziate e ingigantite dall'unificazione dello spazio planetario. Quel che più sorprende è che l'appannamento della Sinistra si manifesti proprio nel momento in cui esplode lo scandalo della diseguaglianza. È difficile sottrarsi alla sensazione che questo indifferenziato convergere di programmi e proposte della politica, questa rinuncia a dividersi sulle questioni di fondo derivi da una non dichiarata né dichiarabile impotenza, da un'obiettiva assenza di risposte alle questioni vitali del nostro vivere in comune.
Dalla dissoluzione della Democrazia cristiana sono nate alcune formazioni politiche - Partito popolare (Ppi), Centro cristiano democratico (Ccd), Cristiani democratici uniti (Cdu) - che nel 2002 hanno dato vita da un lato all'Unione dei democratici cristiani e di centro (Udc), dall'altro alla Margherita. Che cosa si sa, oggi, su queste due componenti decisive degli schieramenti politici che si confrontano in Italia? Nel volume si mostra come i post-democristiani abbiano fatto proprio il "partito di correnti" che fu tipico della Dc, incentrato sulle reti di potere personale facenti capo ai notabili locali. Questa tradizione, però, è stata innovata attraverso il modello del "partito in franchising": i leader nazionali si occupano di pubblicizzare e vendere ai potenziali elettori-acquirenti il "marchio" del partito sui mass media, mentre dirigenti, parlamentari e amministratori locali hanno una notevole autonomia nel gestire la "rete commerciale" sul territorio (sezioni, circoli, comitati provinciali e regionali ecc.). In questo scenario, quali prospettive si aprono per l'Udc dopo l'uscita di Marco Follini e lo "sganciamento" dalla tutela di Berlusconi voluto da Casini? E, sull'altro versante, quali saranno gli effetti che il modello di partito della Margherita potrà avere sulla nascita e sul consolidamento del Partito democratico?
I populismi si alimentano di un'illusione, che può essere pericolosa: il recupero della sovranità. Ma si tratta di una promessa che non si può mantenere, perché le leve del potere sono, ormai, inesorabilmente altrove.
Di fronte a problemi che nessun governo nazionale è in grado di risolvere, elettori e politici, sfiduciati verso la globalizzazione, inseguono le sirene del populismo. Spaventati dai fantasmi di una sovranità che sembra svanire, stiamo cosí distruggendo proprio quegli strumenti che ci consentirebbero di ricostruirla in un mondo che non è piú quello dominato dagli Stati nazionali. Frustrati per l'impressione di non riuscire a far sentire la nostra voce e di non avere piú il controllo sulle nostre vite, ci rassegniamo a uno stato di natura del tutti contro tutti, incapaci di quella fiducia reciproca - tra persone e nazioni - che ci permetterebbe di riprendere in mano il nostro destino. Si è rotto il compromesso della delega, nemica giurata dei populismi, travolta da referendum, progetti di uscita dall'euro e ostilità a ogni élite politica e tecnocratica. L'errore finora è stato cercare di preservare il patto sociale che ha retto l'Europa nel lungo Dopoguerra - integrazione come garanzia di pace e di prosperità - invece che dare alla sovranità condivisa una base di legittimità piú attuale. Che può essere soltanto protezione e identità, sicurezza e difesa dalle conseguenze della globalizzazione.
La democrazia diretta invocata dai populisti rischia di sfociare nella dittatura della maggioranza. Il peggiore nemico del populismo sono i corpi intermedi della cosiddetta società civile: associazioni, partiti, sindacati, autorità indipendenti, amministrazioni pubbliche. La lucida analisi di una questione essenziale per il futuro del nostro mondo, e una proposta concreta sul tema dell'immigrazione.
Il populismo si è manifestato in forme molto diverse nel corso della storia, tra la fine dell'Ottocento e l'intero secolo breve; e anche oggi, la nuova disseminazione populista in Europa e negli Stati Uniti presenta differenze interne notevolissime, quelle che passano ad esempio tra la vittoria di Donald Trump e l'ascesa di Marine Le Pen. Ma un denominatore comune c'è: il populismo è sempre indicatore di un deficit di democrazia, cioè di «rappresentanza». Un deficit «infantile», per cosi dire, per i populismi delle origini, sintomo di una democrazia non ancora compiuta; e un deficit «senile», quando cresce il numero di cittadini che non se ne sentono più «coperti». Il populismo attuale - questa la tesi centrale del libro - è del secondo tipo: rappresenta una sorta di «malattia senile della democrazia». Il sintomo di una crisi di rappresentanza che si estende alla forma democratica stessa. È il segno più preoccupante del rapido impoverimento delle classi medie occidentali sotto il peso della crisi economica; ma anche della sconfitta storica del lavoro - e delle sinistre che lo rappresentarono - nel cambio di paradigma socio-produttivo che ha accompagnato il passaggio di secolo.
Il populismo è comparso e compare sempre in periodi di forti incertezze, di momenti traumatici, di fasi di crisi. Crisi economiche, sociali, culturali. E, soprattutto, crisi politiche quando rientrano nell'ambito dell'eccezionale, dell'inatteso, dell'imprevisto, dell'inedito: la delegittimazione dei governanti, delle istituzioni, delle regole e delle norme in vigore, delle abituali procedure di mediazione. È su questo terreno che i populisti possono prosperare, dipingendo un quadro apocalittico del presente e proponendo il ritorno a un passato favoleggiato o facendo intravedere un futuro radioso. Sono contemporaneamente i prodotti di queste crisi e i loro creatori. Come sta rispondendo la democrazia a tutto questo? Ahimè inglobando elementi di populismo: adeguando gli stili e il linguaggio politico, i modelli di partito, le scelte e le strategie di governo. In una parola, sta trasformando se stessa in una popolocrazia.
I populismi sono una febbre, non la malattia.
In America il miliardario Donald Trump, inviso all’establishment del suo stesso partito, viene nominato Presidente. In Gran Bretagna vince la Brexit nonostante le forze politiche e quelle economiche fossero per il ‘remain’. A Parigi il Front National di Marie Le Pen è avversato da tutte le formazioni tradizionali ma cresce. In Italia vince il Movimento 5 Stelle, il vessillo degli anti-sistema. Un filo rosso tiene insieme tutto questo: il rifiuto, anzi addirittura l’odio verso le classi dirigenti. Non solo verso la casta politica, anche quelle social-imprenditoriali, economiche, finanziarie, aziendali, accademiche, intellettuali, mediatiche. Ci siamo dentro tutti.La similitudine fa tremare i polsi, ma ricorda il sentimento diffuso negli anni ’20 e ’30, il periodo che prepara le dittature totalitarie e la seconda guerra mondiale. Questo non vuol dire che sono la stessa cosa, bensì sottolinea come nella storia ci siano momenti in cui esiste armonia e convergenza tra élite e popolo e altri in cui c’è divorzio.Eppure per quanto sconfitte, le élite sono indispensabili. Non c’è alternativa. E riesumarle vuol dire modificare la composizione della classe dirigente, uscire da questa oligarchia che si riproduce in continuazione e ristabilire quella uguaglianza dei punti di partenza. Non prima però di aver ricomposto una serie di fratture profonde: tra chi ha un certo grado di istruzione, ed è favorevole a una società aperta, e chi no; tra i giovani e gli anziani; tra le periferie e i centri delle città.Il Movimento 5 Stelle in Italia è riuscito meglio degli altri a cavalcare la frustrazione sociale, la rabbia degli esclusi. La forbice della disuguaglianza si è talmente allargata da risultare insopportabile. Da qui parte l’odio che può assumere gli aspetti di una rivoluzione politica di ampiezza storica che supera gli steccati della distinzione classica tra destra e sinistra per proporne una nuova tra forze ‘nel sistema’ e forze ‘anti-sistema’. Eppure esiste ancora una differenza ideale, filosofica tra una sinistra che pensa che le disuguaglianze vadano corrette con l’intervento pubblico e una destra per la quale si correggono solo con l’azione del singolo.I populismi sono una febbre, non sono la malattia. Pongono il problema del funzionamento della democrazia e questo potrebbe costringerci a migliorare le nostre procedure democratiche. Potremmo, in definitiva, considerarla un’opportunità.
Questo volume ripercorre la vicenda politica di Luigi Sturzo (Caltagirone 1871 - Roma 1959). E si offre quale contributo per recuperare il senso del popolarismo sturziano, che torna a essere invocato da alcuni osservatori come l'antidoto più efficace contro i populismi di varia matrice che oggi fanno capolino un po' in tutti i luoghi del confronto politico, dalle piazze ai salotti televisivi, dai social network ai media che plasmano l'opinione pubblica nel mondo ormai globalizzato. Il titolo pone in sequenza alcuni termini che si ritrovano disseminati nel discorso sui «Problemi della vita nazionale dei cattolici italiani» pronunciato nel 1905 da Sturzo quand'era pro-sindaco della sua città di nascita: «popolo, democrazia, libertà». Sono le parole chiave di quello che potremmo considerare un vero e proprio lessico sturziano.