
«Mentre tutti sappiamo, più o meno, come dovrebbe essere una democrazia ideale, troppo poco si accerta e si sa intorno alle condizioni di una democrazia possibile» Edito per la prima volta nel 1957 ? uno dei primi libri pubblicati dall'editrice il Mulino nata tre anni prima ? e presto tradotto in inglese dallo stesso autore in una versione ampliata e in seguito in molte altre lingue, «Democrazia e definizioni» è unanimamente riconosciuto come uno dei più importanti libri di teoria della democrazia apparsi nel XX secolo. Con esso Sartori, allora poco più che trentenne, si afferma anche al di fuori dei confini nazionali, tanto che nel 1968 l'International Encyclopedia of Social Sciences gli affida la stesura della voce Democracy. Scritto in maniera efficace e brillante, con un impeccabile rigore logico, il volume affronta i problemi di fondo, i temi essenziali e perenni della democrazia, a cominciare dall'esigenza di definire con precisione il significato dei termini linguistici usati. Nel suo esame la dimensione descrittiva e quella normativa della democrazia risultano strettamente intrecciate; ne consegue che la democrazia è un regime politico che deve fare i conti con un ideale, per quanto lo scarto rimanga inevitabile. La presente edizione è corredata da un ampio saggio introduttivo di Angelo Panebianco che offre un ritratto intellettuale a tutto tondo dell'autore.
Il referendum sulle riforme costituzionali sarà un momento importante per il futuro del Paese. Stefano Rodotà non si limita a sostenere i limiti della riforma, esponendo con precisione i rischi che comporta, ma si interroga soprattutto su quale idea di democrazia risponda alle necessità del nostro tempo. In una società in rapidissimo cambiamento, le cui trasformazioni spesso la politica fatica a interpretare, occorre dare nuova centralità alla rappresentanza, trovando nuove forme per rinnovarla ed espanderla. La difesa della Costituzione si traduce così in uno sforzo attivo di ripensamento delle basi della democrazia, a partire dai diritti delle persone e da una cittadinanza sempre più ampia, multiforme e attiva.
Molti indicatori segnalano che la società liberale occidentale è attraversata da una crisi della partecipazione che in Italia si fa sempre più evidente: il progressivo calo dell'affluenza alle urne esprime il disinteresse di molti cittadini per la politica e desta preoccupazioni sulle sorti della stessa democrazia. Servendosi dei concetti più classici del pensiero sociale cristiano, Giovanni mette a fuoco la specificità dell'amicizia sociale e i motivi della sua crisi attuale. Alla luce delle esperienze di applicazione delle soluzioni metodologiche di supporto al "discernimento in comunità" prosegue quindi l'esplorazione del problema, traendo dall'intreccio tra "teoria" e "clinica" osservazioni originali e utili, per comprendere perché e in che modo la cultura della sinodalità rappresenti, anche in termini laici, una risorsa per la democrazia.
«Democrazia dissociativa» è la metafora di origine neuro-psichiatrica che si è voluto utilizzare per caratterizzare sinteticamente i profili del nostro sistema politico negli ultimi venti anni, dominato dalla contrapposizione ossessiva fra «berlusconismo » e «anti-berlusconismo». In senso esattamente opposto al paradigma di «democrazia consociativa» – raccomandato da Arend Lijphart come forma ottimale di democrazia (e in parte sperimentato nell’Italia di Prima Repubblica) – nel nuovo corso si rompono irreparabilmente i legami di rappresentanza e rappresentatività fra una società che, se non coesa al proprio interno, si presenta tuttavia priva di conflitti irriducibili, e la politica ridotta a un’arena di lotta permanente fra «bande», interamente calata in una logica di potere fine a se stessa. Alla luce di questo schema interpretativo, il pamphlet ripercorre le fasi salienti di sviluppo e agonia della cosiddetta Seconda Repubblica, dal primo governo di centrodestra, guidato da Silvio Berlusconi nel 1994, al recente governo dei tecnici affidato a Mario Monti nel 2011.
Questo libro nasce da una doppia interrogazione: sulla democrazia e sulla situazione attuale del nostro Paese. Si sofferma su alcuni classici della democrazia fra Otto e Novecento e su questo sfondo interpreta il fenomeno del berlusconismo. È stato infatti Tocqueville a segnalare i rischi dispotici della democrazia con due esiti possibili: diventare tutti eguali e tutti schiavi, oppure tutti eguali e tutti liberi. Ma la storia europea moderna ha dimostrato che la prima possibilità è più concreta della seconda: quello che, infatti, sta crescendo è un 'potere sociale' che assume il controllo di tutti, togliendo autonomia e responsabilità ai singoli, i quali a loro volta delegano a questo potere la gestione della loro vita. Non si tratta di un problema solo italiano; né di un morbo che affligge solo la destra. È una tendenza dell'epoca nella quale si intrecciano dispotismo, plebiscitarismo, populismo, dinamiche di tipo carismatico. Per questo «il berlusconismo è una forma patologica della democrazia dei 'moderni'; appartiene alla storia e alle metamorfosi della democrazia occidentale; e in questo senso, come oggi riguarda l'Italia, così può riguardare anche altre democrazie europee».s
Gli Stati Uniti sono il più religioso e il più nazionalista fra i paesi industrializzati dell'Occidente. La religione americana considera la democrazia e il destino del proprio paese una manifestazione della divina provvidenza. Per questo l'attacco terrorista dell'11 settembre ha coinvolto l'atteggiamento degli americani verso Dio, la visione del bene e del male, il senso della missione nazionale. E ha provocato un'esplosione di religiosità e di patriottismo, fusi nella santificazione dell'America come nazione eletta. Con un'analisi originale, Gentile mostra come Bush ha rielaborato i miti della religione americana, identificandoli con l'integralismo della destra religiosa, per giustificare la guerra contro l''asse del male'. Chi è con Bush, è con l'America; chi è con l'America, è con Dio: una nuova, inquietante esperienza di sacralizzazione della politica. Un libro coinvolgente, indispensabile per capire la 'democrazia di Dio' al culmine della sua potenza imperiale.
Oltre duecento anni fa, i Padri Fondatori degli Stati Uniti affermarono che tutti gli uomini ricevono da Dio i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla felicità. È nata cosi una religione civile che consacra gli Stati Uniti come la democrazia di Dio, secondo l'efficace definizione di Emilio Gentile. Dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001, George W. Bush si è richiamato a quel culto sacrale della nazione per guidare gli americani in una vera e propria crociata santa contro il terrorismo: chi ha osato dissentire dalla sua politica è stato bollato come eretico contro l'America e contro Dio. Oggi l'era di Bush sta per terminare e all'inizio del prossimo anno un nuovo presidente varcherà la soglia della Casa Bianca. Non ci sono certezze sulla sua identità, ma di una cosa Emilio Gentile non dubita: che sia nero o bianco, uomo o donna, repubblicano o democratico, il nuovo presidente americano continuerà a officiare il tradizionale culto della nazione, portando avanti la missione della democrazia di Dio nella salvaguardia del benessere mondiale.
"L'identità politica dei cattolici italiani è ancora una volta un problema aperto: non credo che debbano essere più alla ricerca di una 'loro' democrazia, ma di una forma più alta di democrazia. La democrazia dei cristiani non può più essere una nuova 'democrazia cristiana'. Oggi coincide con la democrazia di tutti; è un impegno a tener viva, anche con la fede, una speranza di civiltà per il nuovo millennio... Ma la democrazia non è autosufficiente. Per recuperare e approfondire il suo tessuto etico di base ha bisogno di nuove aristocrazie, morali, culturali e religiose. La laicità, che è una conquista condivisa, ha bisogno di un'anima religiosa". Intervista a cura di Giuseppe Tognon.
Il ritratto impietosamente obiettivo, ma non privo di affetto della Democrazia Cristiana, il partito in cui l'autore ha militato da dirigente fino alla fine. Un'interpretazione e, forse di più, l'analisi antropologica del partito-stato che ha governato la Repubblica per un ininterrotto cinquantennio. Si affrontano, da una prospettiva prossima e narrativa, i temi più consueti del bilancio politico e storico dell'esistenza di un partito dominante: come il rapporto tra i democristiani e il potere, la Dc e la destra, il partito diga verso il comunismo, il legame con la Chiesa e con la fede, l'intercettazione del paese profondo. Ma il libro di Marco Follini si concentra anche su alcuni aspetti più puntuali: l'atteggiamento verso il lusso, le dimore di dirigenti e militanti, biografie esemplari di personalità, aneddoti, le due anime simboliche: Andreotti e Moro, gli «appagati» e i «tormentati», e così via, dentro tutti gli angoli che introducono il lettore nella quotidianità di una forma di esistenza politica che ha aspetti di enigma. L'enigma non solo della lunga, tuttavia precaria, persistenza al potere, caso più unico che raro nei paesi dell'Occidente, ma anche della convivenza perfettamente equilibrata di posizioni politiche molto lontane fra loro, e quello più fondamentale della attitudine, scettica, flessibile, a volte dominata da un senso di limitazione e di colpa, verso la società e il futuro. E, a voler leggere questo saggio come un racconto, su tutto il testo aleggia la convinzione profonda e probabilmente pensata e ripensata da Follini in questi anni: che in effetti la vicenda della Democrazia Cristiana sia da guardare come un lungo e oscuro presagio
Crisi economica e crisi della democrazia: processi dei quali non si intravede la fine, ulteriormente complicati dalla diffusione di internet e dei social, che rende sempre più urgente un ripensamento dei fondamenti della partecipazione democratica. Eppure già nel 1939, in un discorso tenuto per i suoi ottant’anni, Dewey aveva tratto spunto dagli strascichi del ’29 e dal successo dei totalitarismi nella vecchia Europa per avanzare una nuova idea: la democrazia “creativa”, che non si limita alla semplice partecipazione del cittadino, ma che si radica negli atteggiamenti e nelle esperienze quotidiane dell’individuo; una democrazia fatta di fiducia nell’uomo, nella sua capacità di confronto aritario con gli altri, dove la differenza – e la sua libera espressione – diventa occasione di arricchimento per tutti. Una proposta, quella del filosofo americano, che si rivela ancora attuale.
JOHN DEWEY (Burlington, 1859 – New York, 1952)
Pedagogista e filosofo statunitense, si è formato tra l’Università del Vermont e la Johns Hopkins di Baltimora. Ha quindi insegnato nelle università del Middle West, a Chicago e, dal 1904 al 1929, alla Columbia University di New York. Il suo pensiero in ambito sociale e politico ha avuto grande fortuna tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, al punto da renderlo il leader dei liberal americani. Le sue scoperte in ambito pedagogico e gli studi sul rapporto tra democrazia e processi educativi hanno esercitato un forte influsso in tutto il mondo.

