
Quattro saggi inediti si affiancano in questo volume a uno studio sull'eredità dell'etica marxiana e al testo, ormai classico, sulla teoria dei bisogni. Una lettura del pensiero di Marx decisamente controcorrente che - analizzando il rapporto con la modernità, la giustizia, la liberazione dell'uomo, l'ebraismo, la cultura tedesca - sottolinea l'importanza filosofica del lavoro di Marx, la cui attualità non è scalfita dal superamento delle sue teorie economiche o sociologiche ed è ancora oggi indispensabile per comprendere i caratteri fondamentali della nostra modernità e molti problemi cruciali del nostro tempo. «Karl Marx non si è mai identificato con il suo essere un tedesco o un ebreo, né con il suo essere un membro del proletariato internazionale o un marxista. È ben nota la sua affermazione: 'lo non sono un marxista, sono Karl Marx'. Quindi quando parlo di Marx come filosofo ebreo-tedesco ho in mente l'identità delle sue creazioni, della sua opera, della sua filosofia, non la sua identità personale».
In Mauritania da secoli convivono berberi e neri. I primi sono la minoranza dei quattro milioni di abitanti del Paese, i secondi sono oltre due terzi della popolazione. Nonostante la schiavitù sia stata abolita nel 1981, attualmente circa trecentomila neri sono schiavi dei berberi. Si tratta soprattutto di donne e bambini: costretti a un lavoro massacrante, non pagato, sono oggetto di violenze e soprusi, non possono studiare né decidere di andarsene. Le autorità politiche e religiose locali tendono a schierarsi dalla parte dei berberi. Nel 2008 Biram Dah Abeid, nero nato libero, ha fondato l'«Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista» (Ira), movimento nonviolento contro lo schiavismo in Mauritania. Imprigionato più volte, nel 2014 si è candidato alle elezioni presidenziali ed è deciso a ripresentarsi nel 2019. Inserito dal Time tra le cento persone più influenti del 2017, nella primavera dello stesso anno è stato intervistato dall'autrice, che nel libro racconta anche la sua storia.
"Non mi ero reso conto, prima di conoscere Giovanna, di quanta umanità, dolcezza e profonda civiltà ci fossero in un'attività di assistenza ai malati terminali e alle loro famiglie. Ne comprendevo l'importanza certo, ma non la carica di rivoluzionaria solidarietà. Un dono di affetto autentico, forse perché svincolato da una visione funzionale e materiale della vita. Un dono che può sembrare addirittura inutile, perché non c'è speranza. Invece, nel rispetto della dignità della persona, esalta i sentimenti, i legami familiari e d'amicizia. Dà senso a un'intera vita, favorisce la trasmissione di valori e sentimenti. Ridimensiona la paura della morte, ormai esorcizzata ed estrapolata in una società che stenta a ritenerla un fatto naturale, che non l'accetta, non la guarda, non pensa che vi si debba preparare. Giovanna me lo aveva fatto capire con il suo esempio quotidiano, il suo pensiero costantemente rivolto alle persone che soffrono e non debbono essere lasciate mai sole, vittime di un egoismo contemporaneo che riduce tutto a una dimensione individuale." (dalla prefazione di Ferruccio de Bortoli)
«Spero di mostrare un Lenin del tutto diverso da come appare agli occhi dell'opinione pubblica europea» confida Malaparte all'amico Halévy nel settembre del 1931. Il suo intento era, in realtà, ancora più audace: mostrare Lenin come appare agli occhi dei «Russi intelligenti». O, se vogliamo, analizzare un fenomeno entro la sua stessa logica, come già aveva fatto nell'"Intelligenza di Lenin" per spiegare il bolscevismo. E il nuovo libro, uscito a Parigi nel 1932, avrà l'effetto di una scossa elettrica. Perché in questo romanzo-ritratto Lenin non è affatto il Gengis Khan proletario sbucato dal fondo dell'Asia per conquistare l'Europa, raffigurazione ideale per chi voglia ricacciarlo al di là dei confini dello «spirito borghese»: semmai, un piccolo borghese egli stesso. Di più: freddo e riflessivo, sedentario e burocratico, animato da un'immaginazione meticolosa e da una «crudeltà platonica», ostile a ogni romanticismo terrorista e incapace di agire all'infuori della teoria, a suo agio più nelle discussioni politiche e nelle faide personali che non nel confronto con la realtà, Lenin non è che un europeo medio, un buonuomo violento e timido, un «funzionario puntuale e zelante del disordine», un fanatico e un opportunista, per il quale la rivoluzione è una questione interna di partito, il risultato di ossessivi calcoli. Non a caso quando, giunto al potere, non potrà più attendere gli eventi e osservarli da lontano, e - proprio lui, dotato di un vivo «senso dell'irrealtà» - dovrà fare i conti con la realtà, si risolverà a inventarla, a crearla, imponendola «a se stesso, ai suoi collaboratori, al popolo di Russia, alla rivoluzione proletaria, all'avvenire dell'Europa».
Hanna Lévy-Hass scrisse il suo diario a Bergen-Belsen quando ancora sperava in un mondo migliore. «Si scrivono così tanti libri», diceva spesso, «se non si ha nulla di veramente eccezionale da dire, non ha senso scrivere». Il suo scrivere aveva un senso – documentare e ricordare avevano un ruolo nella costruzione di un mondo «che sarà bello». Il suo successivo silenzio fu una costante ammissione che il mondo del dopoguerra non era affatto nuovo. Hanna, di famiglia ebrea sefardita, nata e cresciuta a Sarajevo nella ex Jugoslavia (oggi Bosnia-Erzegovina), fu internata nel campo di Bergen-Belsen nel 1944 e, per una serie di coincidenze, fu tra le poche persone a sopravvivere. Il suo diario sulla prigionia, che venne pubblicato per la prima volta in Italia solo all’inizio degli anni Settanta, è una testimonianza unica e perciò ancor più preziosa sulle fasi finali del sistema concentrazionario nazista.
Nella primavera del 1962 la famiglia Ichino riceve la visita dell'amico don Milani. Indicando i libri e il benessere che si respira in quel salotto milanese, il priore si rivolge a Pietro, tredicenne: «Per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dal giorno in cui sarai maggiorenne, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato». Marchiato a fuoco da questo monito, che pur nella sua radicalità racchiude in sé molti altri insegnamenti familiari, il protagonista di queste pagine diventa sindacalista, professore e parlamentare impegnato sul fronte del diritto del lavoro nell'epoca drammatica della fine delle ideologie, del terrorismo rosso e poi della sua nuova fiammata negli anni Novanta. In questo libro insolito, al confine tra un racconto intimo e il grande affresco di un'epoca, le vicende pubbliche si intrecciano alla storia di una famiglia italiana che raccoglie in sé l'eredità ebraica e un cattolicesimo dalla forte vocazione sociale e che ha eletto la Versilia a proprio luogo dello spirito: è così che - dalla Grande Guerra fino alla fine del millennio, dalle persecuzioni razziali al Concilio Vaticano II, dal '68 agli anni di piombo - la "casa nella pineta" diventa il crocevia di vite vissute con singolare intensità.
La storia della sinistra italiana è anche una storia di famiglia. È il caso della famiglia Foa, dai nonni al padre Vittorio e alla madre Lisa, fino ai figli Anna, Renzo e Bettina. Una famiglia in cui la passione politica e l'impegno civile si sono intrecciati così fortemente con lo svolgimento della vita quotidiana da educare e governare anche le relazioni, i sentimenti. Si aprono vecchie scatole con dentro foto e carte di famiglia: un trasloco può far riemergere il passato di tante vite. È quello che è successo ad Anna Foa. Storie di bisnonni, prozii e cugini, fino a quelle dei genitori, Vittorio e Lisa, ricordi a lungo accantonati. Avvocati mazziniani e 'internazionalisti', 'suffragette' e rabbini lasciano il passo ai primi socialisti, agli antifascisti di Giustizia e Libertà, ai comunisti. Come sfogliando un vecchio album, vediamo rievocati il fascismo, il carcere, la Resistenza, la Shoah, il dopoguerra, il 1968, gli anni di piombo, l'impegno di Lisa in Lotta Continua, il suo anticonformismo, la lunga saggia vecchiaia di Vittorio. Come in ogni storia di famiglia, le case sono centrali: le stanze delle case di vacanza, quelle dei nonni disperse per la Penisola, quelle dei genitori frequentate da amici d'eccezione. E poi il racconto dei luoghi e le città: Torino, la Valle d'Aosta, Roma, ma anche la Spagna della guerra civile, il Vietnam, l'Africa, la Cina. Quella che si viene a comporre, pagina dopo pagina, è una storia 'intima' della sinistra italiana. I libri che si leggevano, le percezioni politiche, il modo in cui il mondo esterno veniva filtrato da quello familiare. È anche la storia della fine di un'illusione, quella del comunismo, della sua lenta fine. Una storia familiare e autobiografica aperta a tutte quelle remissioni della memoria e a quelle percezioni personali che la rendono dichiaratamente parziale e non definitiva. Un esperimento storiografico condotto "sul vivo" per riscoprire le passioni del Novecento.
Quando cinque anni fa gli hanno dato quattro mesi di vita, Leonardo ha preso una decisione: «Non se ne parla neanche, ho troppi sogni in corso, troppe cose da fare». Ha chiesto scusa alla mamma perché si era ammalato di un male inguaribile, ha festeggiato il capodanno a novembre per portarsi avanti, si è tirato su le maniche della tuta e si è dato da fare per rendere il tempo che gli restava il migliore possibile. Da buon maratoneta, ha detto al suo cancro «io continuo a camminare, vedi un po' se riesci a starmi dietro». E il suo "ospite", così lo chiama lui, ha dovuto rassegnarsi e seguirlo fino a New York, correndo con lui ben due maratone. Quest'anno ha battuto il suo record concludendo il percorso in 4 ore e 6 minuti e dedicando l'impresa a tutti i malati di cancro. Da vero imprenditore di se stesso, ha pensato di costruirsi una nuova vita dal momento che quella di prima faceva acqua da tutte le parti. Da matto autentico, sta muovendo mari e monti per rendere la vita dei malati di cancro una vita di buona qualità e non un'esistenza che susciti compassione. Tutto in queste pagine è una testimonianza che Leonardo lascia per farci comprendere il suo punto di vista: malato di cancro non vuol dire arreso, credere non significa illudersi, essere consapevole non vuol dire consegnarsi all'ospite il giorno della diagnosi. E ogni segno che Leonardo traccia, si compone in un disegno sorprendente, dove il cancro diventa una presenza con cui contrattare lo spazio vitale, un suggeritore di nuove soluzioni, un'occasione per camminare verso nuove scelte, nuovi equilibri.
Un giovane suona il pianoforte in mezzo a una strada bombardata. Suona per i suoi vicini, soprattutto per i bambini, per distrarli dalle atrocità della guerra: un’immagine che ha fatto il giro del mondo diventando un simbolo della catastrofe in Siria, ma anche dell’inestinguibile volontà dell’uomo di opporsi in ogni modo alla distruzione. Il suono di quello strumento ha raggiunto e commosso milioni di persone nel mondo su YouTube. Ora Aeham Ahmad racconta la propria storia: l’infanzia in una Siria ancora in pace, l’inizio delle rivolte preludio di una guerra terribile, la fuga per la stessa via battuta da migliaia di disperati. Un lungo e pericoloso viaggio via terra, la drammatica traversata del Mediterraneo, le insidie della rotta balcanica. Fino alla nuova vita in Germania, dove ha realizzato il suo sogno di artista e si esibisce nelle più importanti sale concerti, ma è costretto a vivere lontano dalla sua famiglia rimasta in Siria. Allora come oggi, è la musica che gli ha salvato la vita a dargli conforto e infondergli coraggio.
La storia vera, raccontata in prima persona, di un pianista che ha sfidato le bombe e i terroristi in nome della sua musica, un caso mondiale, una commovente testimonianza di resistenza e fede nell’arte.
Aeham Ahmad, nato nel 1988 a Damasco, appartiene alla minoranza palestinese in Siria e ha vissuto nel campo rifugiati di Yarmouk con la sua famiglia. Ha iniziato a studiare il piano a 5 anni e ha continuato gli studi a Damasco e a Homs. Nel 2015 ha dovuto lasciare il suo paese e si è trasferito in Germania. Oggi vive con la sua famiglia a Wiesbaden e tiene numerosi concerti nel mondo. Nel dicembre 2015 ha ricevuto l’International Beethoven Prize for Human Rights.
Fino a ieri le buone notizie non erano notizie. Erano brevi di cronaca. Stampa minore. Odoravano di vecchio. I giornalisti guardavano altrove. Rincorrevano procure, questure, preture, mascalzoni, predoni, corrotti, truffatori, manipolatori, speculatori. Perché la stampa deve denunciare, stimolare, far riflettere. È il suo dovere: gli orrori non si possono ignorare. Però quante storie dimenticate, quanto distacco dal mondo della gente comune. L'Italia non è solo quella delle vite sbagliate. È piena di piccoli eroi della normalità, di esempi imitabili, di uomini e donne straordinari che non hanno storia perché nessuno li racconta. Dal premio «Buone Notizie», ai nuovi blog, all'inserto settimanale del «Corriere della Sera» arriva l'invito a guardare anche dall'altra parte: quella del bene che fa notizia. C'è un esercito di persone che combatte ogni giorno una battaglia di civiltà e si impegna per far fare un passo avanti a chi è rimasto indietro. Sono storie di accoglienza, generosità, rinascita, resistenza e coraggio. Storie che parlano di sognatori capaci di inventare il futuro, per sé e per gli altri, di costruire dal nulla progetti destinati a durare. L'imprenditore che apre un ristorante solidale; il medico che restituisce ai bambini non solo la salute, ma anche il sorriso; la ragazza che dopo gli studi diventa contadina, per far rivivere la sua campagna; il prete che trova il lavoro ai ragazzi del rione Sanità a Napoli; il lavoratore licenziato che rimette in piedi l'azienda. Alcuni di loro hanno fatto notizia. Altri meno. Insieme rappresentano un antidoto al pessimismo che ci perseguita. Sono l'Italia di un nuovo racconto giornalistico. L'Italia delle good news.
Uscito nel 1963 e pubblicato in Italia con il titolo "La forza di amare", questo è sicuramente uno dei libri più famosi di Martin Luther King in italiano. Un'opera intensa, forte, dal messaggio più che mai attuale, che parla ancora oggi a tutti noi. Un libro in cui si fondono mirabilmente - raggiungendo un equilibrio forse ineguagliato - le due "anime" di King: il pastore cristiano, che fa del sermone il mezzo preferito per rivolgersi ai fratelli, lui che non aveva intenzione «di fare altro che rimanere un pastore», e l'attivista per i diritti civili, in un'epoca in cui la segregazione razziale macchiava ancora con la sua vergogna la nazione americana.
Oggi il libro viene riproposto al pubblico italiano in una nuova edizione, nel 50° anniversario dell'assassinio dell'autore (4 aprile 1968), con l'aggiunta di un testo totalmente inedito in Italia, in cui King raccoglie le impressioni suscitategli da un recente viaggio in Terra Santa. Un viaggio che lo segnò in maniera indelebile: «Non dimenticherò mai quello che ho provato dentro di me».
L'infanzia di Dori e quella di «Bicio», che mostra come la storia sia sempre stata una sola, anche quando loro non si conoscevano. Il primo incontro, a un premio musicale vinto da entrambi, durante il quale non smettevano di guardarsi. La nascita della figlia Luvi e la quotidianità campestre in Gallura. I mesi del sequestro, in cui a sostenerli fu proprio quel legame «fermo, limpido e accecante» che sarebbe continuato oltre il tempo. Un tempo sempre scandito dalla magia degli incontri: da Marco Ferreri a Lucio Battisti, da Cesare Zavattini a Fernanda Pivano. Tra bambine che chiacchierano con Arturo Toscanini e bambini che bevono cognac sotto i bombardamenti. Tra cuccioli di tigre allevati in salotto e un viaggio in nave con un toro limousine. Scritto assieme agli sceneggiatori di Principe libero, il film tv sul cantautore, Lui, io, noi è una storia privata che s'intreccia con quella pubblica di chi, da sessant'anni, ascolta De André. Soprattutto è il racconto intimo, commovente, a tratti perfino buffo, di un grande amore.