
"Buongiorno brava gente" con queste parole Francesco d'Assisi si rivolse agli abitanti di Poggio Bustone quando, lasciata la sua città, iniziò a predicare la Parola di Dio per le strade del mondo. Un saluto che racchiude insieme l'entusiasmo per l'avvio di una nuova giornata e il piacere di poterla condividere con gli altri. La recente pandemia ci ha insegnato che nessuno si salva da solo, e che andare incontro a chi ci è vicino, con una parola, un gesto, un pensiero positivo, è un atto salvifico, rigenerante. Per accompagnare le persone in questi difficili mesi, padre Enzo Fortunato ha avviato una rubrica quotidiana sulla sua pagina Facebook, aprendola proprio con il francescano saluto "Buongiorno brava gente" via via è divenuta un prezioso momento di confronto e conforto reciproco, nel quale scoprire la bellezza di non sentirsi soli, di farsi comunità alla luce del Vangelo e dell'esperienza del santo di Assisi. Così, ripartendo dalle riflessioni che lì sono scaturite, padre Enzo ci propone in queste pagine un breviario per tutto l'anno, un cammino di meditazioni che scandisca il nostro tempo giorno per giorno. Perché "il Vangelo è la guida per aprire un cantiere dentro noi stessi. Nella misura in cui lavoriamo su noi stessi, lavoriamo il mondo. Nella misura in cui ci immaginiamo nel sogno, cresciamo in un mondo diverso». Anche noi siamo invitati a ricordarci che l'unico modo per affrontare le difficoltà è avere fede, e che «il rapporto con Dio, la preghiera, ci conduce agli altri. È un modo di vivere la Parola e la nostra esistenza basato sull'avvicinarsi, sul sostenersi a vicenda, sul prendersi per mano". Solo così, camminando insieme, diventeremo strumenti di pace e renderemo ogni giorno un buon giorno.
Pigne affusolate, ghiande tonde tonde e zucche sorridenti... L'autunno è una stagione dalle mille forme, scoprila insieme al piccolo Bruco Maisazio! Età di lettura: da 3 anni.
Chi è, veramente, Gesù? Sappiamo cosa è diventato dopo la sua morte, in duemila anni di fede cristiana. Ma come lo considerano i contemporanei? Cosa pensano quando lo ascoltano parlare e mentre lo vedono agire? Poco prima della fine, egli pronuncia su di sé parole enigmatiche: «Io so da dove vengo, e dove vado. Voi, invece, non sapete da dove vengo e dove vado» (Gv 8,14). Può questo messaggio di un «re» ebreo illuminare anche l'origine e la meta della nostra vita? Attraverso un fitto e appassionato dialogo con i Vangeli, Giulio Busi traccia il profilo di un Gesù ribelle, assai diverso dall'immagine del buon pastore, mite e mansueto, trasmessa da gran parte della tradizione cristiana. È il Gesù della polemica e dell'invettiva. E, insieme, il Gesù visionario che sovverte e trascende ogni limite di spazio e di tempo, in continuo movimento tra il «qui» della sofferenza e della sopraffazione e il «là» della pace e della vita spirituale. A delinearsi con chiarezza in queste pagine è, in particolare, una «storia ebraica» del maestro di Nazaret. Per lui, infatti, gli ebrei non sono mai «loro» ma «noi». E se la sua ribellione s'indirizza anche contro l'élite religiosa giudaica, è pur sempre la ribellione di un ebreo, orgoglioso della propria appartenenza, che sa interpretare la Torah in modo straordinariamente raffinato, eppure libero, nuovo, creativo. Alla fine, Gesù è un re proscritto, su cui pende un ordine di arresto. Un rabbi itinerante braccato e costretto a nascondersi. Quando sale a Gerusalemme per l'ultima Pasqua, sa che verrà tradito, catturato, percosso, ucciso. I suoi si sbandano, rinnegano. Solo un gruppo di donne non lo lascia nell'ora più oscura. E soltanto una donna cerca il proprio maestro e per prima lo trova, all'alba, in un giardino, al di là della morte. Il giudaismo ha rifiutato il regno senza potere impersonato da Gesù. Il cristianesimo ha trasformato la missione errante dei primi discepoli ebrei, senza famiglia e senza averi, senza bagaglio e senza armi, in una realtà solida, ben costruita, capace di durare per millenni. Ma la ribellione di Gesù ancora continua.
Che cosa ci attende dopo la morte? L'inferno è vuoto? Come conciliare la fede cristiana con la teoria evoluzionistica? Sono alcune delle tante domande, scomode e affascinanti al tempo stesso, che nel corso degli anni sono state rivolte a Gianfranco Ravasi. Le sue risposte, rivolte a tutti, credenti e non credenti, partono sempre dalla Bibbia, con il suo impareggiabile repertorio di immagini e simboli, e si fondano su un preciso criterio: per comprenderne appieno il significato occorre rifuggire da ogni interpretazione letterale e distinguere il messaggio religioso, sempre valido, dai retaggi storico-culturali di civiltà del passato, che esprimevano costumi e modelli sociali spesso lontani dalla nostra sensibilità.
Gianfranco Ravasi ci accompagna in un percorso affascinante e originale alla scoperta dei «sette vizi capitali» - superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e pigrizia -, dimostrandoci come siano tratti permanenti e sempre attuali della realtà umana. Una ricostruzione ricca di citazioni colte e aneddoti sottili, in cui «ogni vizio ha la sua trattazione specifica, secondo le sue tipologie e il diverso rilievo che occupa nella gerarchia dell'immoralità», che può anche risultare «un sano esercizio di autocoscienza: si potrà dire di conoscere bene se stessi quando si scopriranno in sé più difetti di quanti gli altri riescano a vedere».
Il Vangelo di Giovanni è il più colto dei Vangeli ma anche il meno affidabile dal punto di vista storico. È questa un'opinione antica, diffusa, tenace. Ed è però un'opinione profondamente falsa.
Giovanni Scoto Eriugena, un irlandese, fu tra 1'846 e 1'870 al centro della vita intellettuale alla corte di Carlo il Calvo, "l'imperatore filosofo". Tradusse dal greco il corpus di Dionigi l'Areopagita, Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore; rinnovando la terminologia filosofica d'Occidente. Scrisse il de divina praedestinatione e il Periphyseon. Fuse la tradizione platonica col cristianesimo, così che il platonismo diventò, in lui, la forma naturale della rivelazione cristiana; e incarnò gli sviluppi più arditi della teologia negativa. Egli ricerca il Primo Principio, che fonda l'Essere e sta al di sopra dell'Essere: tenebra che irradia luce. "Tutto ciò che si comprende e si sente non è altro che apparizione del non apparente, manifestazione dell'occulto, affermazione della negazione, comprensione dell'incomprensibile, parola dell'ineffabile, accesso dell'inaccessibile." Il mondo nel quale viviamo è un paradosso vivente. Da un lato, è divino: "questa pietra e questo legno per me sono luce"; non c'è frammento di realtà, per quanto umile e insignificante, che non partecipi dell'eterno raggio divino. Al tempo stesso, il mondo è radicalmente altro da Dio: opacità, caduta, ombra, separazione. Quanto all'umanità, il suo rappresentante più alto, Giovanni evangelista, è superiore alle gerarchie angeliche: come un'aquila spirituale vola con le ah veloci della più inaccessibile teologia, sollevandosi sopra ciò che può essere compreso dall'intelligenza, fino a spingersi all'interno di ciò che trascende ogni significato. Scritta probabilmente tra 1'805 e l'870 e molto diffusa nel Medioevo, L'Omelia sul Prologo di Giovanni è uno dei capolavori della lingua latina: un testo filosofico-poetico che ha la concentrazione degli scritti presocratici e taoisti; una piccola gemma radiosa, che raccoglie in sé i misteri della teologia trinitaria, della creazione, della natura, dell'eterno e del tempo, e della via mistica a Dio.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Nota al testo
Omelia di Giovanni Scoto
COMMENTO
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La civiltà carolingia. Restaurazione politica e restaurazione culturale.
"Dopo che Gesù Cristo, Dio e signore nostro [...] è tornato gloriosamente e trionfalmente alla sede della maestà paterna, per sconfiggere in tutta la terra le cupe tenebre dell'ignoranza, ha ripartito per tutto il mondo i luminari innumerevoli dei santi dottori, risplendenti della luce della predicazione evangelica: affinché, come il cielo si orna di stelle fulgenti, che però sono illuminate tutte da un unico sole, così anche i vasti spazi terrestri risplendessero di santi dottori, illuminati tuttavia dall'eterno sole, destinati, per la preveggenza della divina grazia, a rischiarare le cieche tenebre dell'ignoranza con lo splendore della vera fede e con il glorioso nome di Cristo."*
In questa luce di cosmica Aufklärung, in cui l'ignoranza e l'orrore delle sue tenebre sono il nemico più potente della parola evangelica, il maestro e creatore della nuova civiltà carolingia, Alcuino di York, colloca l'incontro storicamente decisivo del sovrano franco Clodoveo e del santo Vedasto. Al di là del valore topico di certe immagini, le ricorrenti metafore della luce, che nell'opera di Alcuino annunciano le speranze di una spirituale rinascita, affidata al magistero dei santi, esprimono forse la consapevolezza storica che il mondo cristiano, e quindi - nella prospettiva altomedievale - l'umanità intera, hanno attraversato un oscuro passaggio, una zona di rischio. A questa oscurità Alcuino contrappone, con sincero entusiasmo, i valori infine recuperati della eruditio e della sapientia cristiana, quella continuità di linguaggio che soltanto la scrittura può trasmettere: nella costruzione del regno di Dio nel mondo, come si esprime un autore contemporaneo, il liturgista Amalario di Metz, le strutture sono costituite dai maestri e dagli allievi, come una pietra sull'altra, in ordine ascendente.
Se, come è stato osservato, la caratteristica più peculiare dell'alto Medioevo è quella di essere un'età senza scuola, il rischio che l'Occidente romano-barbarico sembra aver corso fra il VII e l'VIII secolo è soprattutto quello della perdita della scrittura, di quelle arti della parola e del discorso che erano state uno dei fondamenti della civiltà antica. Mentre l'aspirazione più profonda e radicale della tradizione cristiana, quella di costruire un uomo totalmente nuovo, libero dai condizionamenti della cultura profana, aveva finito per coincidere con il più affascinante e solenne dei fenomeni storici, la progressiva degradazione di un grande insieme come l'Impero d'Occidente, il rischio era stato quello di una non rimediabile perdita della stessa parola divina, del verbo cristiano consegnato per sempre a una scrittura sacralizzata, e all'ormai ricchissimo patrimonio esegetico, che ne aveva elaborato i complessi strumenti di interpretazione.
La volontà di continuità sarà espressa però dalla cultura ecclesiastica nella forma storicamente più decisiva, attraverso quella restaurazione dell'istituzione imperiale, che condizionerà comunque lo sviluppo dell'Europa del Medioevo. Restaurazione determinata e condizionata a sua volta da un insieme complesso di fenomeni: in primo luogo dal fenomeno macroscopico della ricostituzione, ad opera della dinastia dei Pipinidi, di un grande dominio territoriale al centro dell'Europa, dall'interesse della Chiesa e della cristianità occidentale di conservare quella unità, che in effetti solo l'eccezionale personalità politica di Carlo sarà
in grado di garantire, con le sue conquiste militari, con la sua geniale e tenace opera di recupero culturale. Oggetto di questo recupero, attraverso precise disposizioni legislative, è prima di tutto il fondamentale strumento intellettuale della lingua latina, chiave d'accesso a tutto il patrimonio della cultura scritta, il cui apprendimento e uso appare indispensabile per formare una gerarchia ecclesiastica in grado di svolgere le sue funzioni. I formulari delle Interrogationes responsionis, che ci tramandano lo schema di una sorta di esame annuale, a cui i vescovi avrebbero dovuto sottoporre i primi elementi della gerarchia, i parroci, costituiscono lo strumento attraverso il quale l'autorità sovrana si preoccupa di controllare la conoscenza della pratica liturgica, e possibilmente la comprensione del suo significato. Le formule ricorrenti, legere et intelligere, scire et intelligere, nascere et intelligere, sembrano, quasi paradossalmente, ricalcare il linguaggio della corrispondenza di una raffinata personalità intellettuale come Alcuino, che si adopera a diffondere, nella sua vasta cerchia di amici e di allievi, la pratica di un cristianesimo colto, nutrito di lettura e di meditazione.
Se resta ancora problematica la definizione in termini di "rinascita" di questo decisivo momento storico-culturale, caratterizzato piuttosto da un'evidente volontà di restaurazione, di continuità con il passato "costantiniano", cristiano-imperiale, evidente e determinante appare il consapevole disegno dei sovrani, soprattutto di Carlo Magno, di organizzare le strutture amministrative del regnum utilizzando le istituzioni ecclesiastiche, valendosi di quel contributo dell'episcopato e della sua grande tradizione, che aveva costituito uno degli elementi di forza del potere dei Franchi.
Verso la fine del primo secolo, un cristiano, che era stato relegato nella piccola isola di Patmos, fu tratto "in spirito" nel regno di Dio. Come Isaia, Giovanni varcò le porte dei cieli, che si aprirono davanti a lui con un mortale fragore di cardini. Non fu un sogno, né un lampo: ma una visione folgorante che si impresse nei suoi sguardi, colmò il suo cuore e venne trascritta nelle pagine di un piccolo libro dolce come il miele, amaro come l'assenzio.
Mentre leggiamo "l'Apocalisse", avvertiamo una tensione, un impeto, una passione, che hanno qualcosa di cannibalesco: furore di possedere e ingoiare dei libri e di proiettarli in un altro spazio di carta. Le immagini strappate a Isaia e a Ezechiele sembrano aggredirci negli occhi. Così questo libro, che non nasce da un'esperienza visionaria, è diventato il più grande testo visionario dell'Occidente. La letteratura ha appreso "dal1'Apocalisse" che vedere è, in primo luogo, una visione di libri. Il futuro si approssima. Tutti i presentimenti ci minacciano e stanno per diventare presenti. "Il tempo è vicino" L'ora della prova si abbatterà fra poco sul mondo intero: una drammatica imminenza, come non si era mai intesa in un'opera umana, incombe su ogni segno. Avvertiamo sulla carta la presenza dell'evento che sta per erompere davanti ai nostri occhi: le immagini ci sembrano frammenti di futuro, aeroliti di futuro, che una mano ha strappato all'ignoto del tempo.
Come i profeti biblici, Giovanni voleva che le parole della profezia fossero osservate e messe in pratica. Così fu aperto, chiaro, violento, per proclamare l'essenza del suo messaggio: l'avvento di Cristo, l'imminenza di eventi tremendi. Ma, col gesto opposto, nascose la sua rivelazione dietro un velo di enigmi. Contava sul mistero, sull'equivoco, sulla polivalenza dei significati. Sapeva che, per quanto gli interpreti traforassero il suo testo, vi sarebbe rimasto molto o moltissimo di insondabile. Sapeva che i libri chiari e aperti muoiono appena nati. Soltanto i libri scritti con la calligrafia cifrata dei cieli, solo i libri che nessuno può dissigillare completamente, continuano a infuocare per secoli i pensieri degli uomini.
In questo ampio commento "dell'Apocalisse", che può essere letto con passione da tutti, Edmondo Lupieri ha cercato di penetrarne il mistero. La sua interpretazione, fondata su una conoscenza minuziosissima della letteratura giudaica apocalittica e di Qumran, sorprenderà per la sua novità e la sua verisimiglianza.
Indice - Sommario
Premessa
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Abbreviazioni delle opere citate
TESTO E TRADUZIONE
- Sigla
- Apocalisse di Giovanni
COMMENTO
Indice dei passi e degli autori citati
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Può ancora esistere, oggi, uno spazio culturale ufficiale per "l'Apocalisse"? Se vi è un testo colmo di angeli e diavoli, di mostri e di cataclismi, di visioni celesti e ultraterrene, di viaggi spirituali in un cosmo geocentrico e pregalileiano, tale testo è proprio quello del veggente di Patmo. Non soltanto, poi, esso pare così ancorato alle categorie mentali del mondo antico, ma non vi è brano del Nuovo Testamento che sia così ricco di minacce e di scene di guerra, con il sangue degli uccisi che giunge sino alle froge dei cavalli e dove la misericordia sembra aver ceduto il passo alla spada. Anche gli stessi premi per gli eletti, infine, soprattutto quel famoso regno millenario di Cristo con i risorti sulla terra, creano problemi a chiese radicate e strutturate in questo mondo. I motivi di disagio nelle chiese cristiane di fronte al "libro delle profezie" di Giovanni, quindi, sono stati e sono numerosi e diffusi. A ripercorrere la storia dell'interpretazione del testo, pare che nelle gerarchie ecclesiali si sia sentito il bisogno di neutralizzarlo, prima ancora di permetterne l'ascolto o la lettura da parte di persone ritenute impreparate. Di converso, l'uso non controllato "dell'Apocalisse" ha sempre accompagnato fenomeni di effervescenza religiosa, spesso sfociati in attività politiche o sociali anticonformistiche, talora concluse davvero nel sangue o nel fuoco. Eppure il fascino del libro permane. La sua lingua dalla cadenza arcaica e strana, le sue immagini che si susseguono come onde di un mare mosso da venti lontani, l'incomprensibilità stessa di certe sue frasi sono altrettanti motivi di attrazione. La lettura o l'ascolto quotidiano della Bibbia sono divenuti un'abitudine di pochi, ma il mistero "dell'Apocalisse", a conclusione del Libro per eccellenza, sta, come in attesa di lettori, anche in quest'ultimo scorcio del secondo millennio cristiano.
"L'Apocalisse" è un testo controverso, difficile da maneggiare: una sorta di esplosivo che costituisce sempre un rischio per l'incauto manipolatore. Anche la critica moderna, nata dalle battaglie illuministiche, ha infine generato teorie interpretative contrapposte e inconciliabili, che a tratti ricalcano le antiche opposte interpretazioni ecclesiastiche. Il fatto è tanto evidente che, negli studi biblici contemporanei, l'esegesi "dell'Apocalisse" è divenuta uno degli obiettivi eletti per gli assalti della critica cosiddetta "postmoderna". Nata dal convincimento che la scienza di tipo positivistico abbia fallito i propri scopi in ogni ramo dello scibile umano, giacché i risultati di ogni indagine sedicente scientifica altro non sarebbero che le proiezioni soggettive del ricercatore, la critica "postmoderna" appare come un'entità multiforme e difficile da analizzare. Essa ha tuttavia spinto ai limiti estremi un processo di relativizzazione di ogni altra forma di ricerca, creando una sorta di nuova apocalisse culturale: non a torto il "postmoderno" è stato paragonato a una specie di mostro che procede inghiottendo ogni altra espressione del patrimonio culturale preesistente, facendosi beffe della ragione e preparandosi alla sublime e definitiva voluttà di inghiottire sé stesso. Coerenza infatti esige che i criteri usati nella demolizione della scienza moderna siano applicati anche ai metodi "postmoderni", non meno soggettivi e relativi di quelli sedicenti razionali e scientifici: la qual cosa dovrebbe condurre al silenzio.
2. In tale temperie culturale, che scopi può prefiggersi un'edizione commentata "dell''Apocalisse"? Abbandoniamo subito le velleità di una lettura che pretenda di spiegare assolutamente tutto. Nella fattispecie "dell'Apocalisse", le letture in cui tutto viene fatto quadrare non quadrano affatto, ma derivano di solito dalla precomprensione del commentatore, mosso da esigenze teologiche o da convincimenti personali che spesso raggiungono livelli monomaniacali.
Questo vuole essere un commento aperto, che proporrà soluzioni nuove e spero convincenti, ma che cercherà sempre di mostrare i nodi interpretativi, rifuggendo dalla tentazione di risolverli tagliandoli. Lo scopo principale del mio lavoro consiste nel condurre il lettore il più vicino possibile a quello che oggi riteniamo fosse il modo di pensare di un giudeo seguace di Gesù nel I secolo d.C. A questo è dedicata l'Introduzione. Il mondo è quello di Gesù di Nazaret, Giovanni Battista, Paolo di Tarso; ma è anche lo stesso di molti altri, a cominciare dagli esseni ultraosservanti di Qumran per finire con Giuseppe, che divenne lo storico ufficiale dei Flavi, cioè proprio di quei generali romani che questo mondo incominciarono a distruggere. Né si trattava di una realtà monolitica o chiusa in sé stessa, ma ricca di permeabilità culturali a tratti sconcertanti. Lo mostra la vicenda di Giuseppe Flavio. Quasi un simbolo appare Berenice, ebrea e "regina" dei giudei, sorella e amante di Agrippa II (ultimo dei piccoli re giudei riconosciuti dai Romani), che divenne amante anche di Tito, sino a seguirlo sul Palatino e a rischiare di divenire imperatrice.
Il testo greco riproduce con poche varianti la più recente delle edizioni critiche "dell'Apocalisse" e la più usata negli studi. In senso proprio, sarebbe onesto dire che non possediamo una vera edizione critica di alcun libro del Nuovo Testamento. Quello che noi abbiamo è un'armonia, ricostruita oggi, fra i testi di diverse edizioni antiche, la cui storia possiamo ipoteticamente tracciare a ritroso fino a un periodo compreso fra il II e il IV secolo d.C. Si tratta di un testo teorico, che nessun antico ha mai avuto fra le mani e che corrisponde a quello che noi pensiamo possa essere stato scritto dall'autore, sulla base dei manoscritti che ci sono giunti. Che siano giunti tali manoscritti, e non altri con testi certamente diversi, è un fatto del tutto casuale, dipendente da motivi esterni: ad esempio il non essere andati distrutti in un incendio o l'essersi trovati in un luogo asciutto. Possiamo comunque considerarlo un buon punto di partenza, non dissimile da quello delle altre opere antiche, quasi tutte ricostruite a tavolino in epoca moderna o contemporanea. Eventuali strepitose scoperte di manoscritti (l'improbabile è già accaduto un paio di volte in questo secolo, a Qumran e a Nag Hammadi) ci porterebbero probabilmente altre varianti, sulla cui validità sarebbe difficile decidere; certamente molte differenze emergerebbero nell'aspetto esteriore del testo.
In questo libro, curato da Mauro Pesce, vengono raccolte le parole di Gesù, contenute in testi greci e latini, che non appartengono ai quattro Vangeli canonici. Cosa ha veramente detto Gesù, nella sua apparizione terrena? Con lo sviluppo degli studi, la risposta diventa sempre più difficile. Dopo la morte di Gesù, in Palestina e poi in tutto l'ambiente cristiano, era diffusa una moltitudine di suoi detti. I quattro evangelisti ne fecero ognuno una scelta, secondo lo scopo che si prefiggevano scrivendo il loro Vangelo. Ma molti detti rimasero fuori da questa scelta. Alcuni di essi, anteriori ai Vangeli, sono confluiti nelle Lettere di Paolo, che per esempio conserva le parole sulla fine del mondo che i Vangeli aboliscono: un grido, una voce di arcangelo, la tromba di Dio, la discesa del Cristo, la resurrezione dei morti. Molti altri detti, di cui non possiamo mettere in dubbio l'antichità, rimasero esclusi anche dalle Lettere di Paolo e dagli altri scritti del Nuovo Testamento. Sino a poco tempo fa, gli studiosi li ritenevano tarde invenzioni o rielaborazioni di tipo gnostico. Oggi, invece, pensano che fossero accolti con piena fiducia dai gruppi cristiani almeno fino al IV secolo, quando la Chiesa finì per vedere solo nei quattro Vangeli la voce autentica di Gesù. Da queste bellissime Parole dimenticate, viene alla luce un ritratto di Gesù che ci sorprende e talora ci sconvolge. Spesso egli rivela ad alcuni dei suoi discepoli delle parole segrete, che dovevano restare nascoste, e aggiunge: «Chi troverà l'interpretazione di queste parole non gusterà la morte». Gesù è dovunque: «Solleva la pietra e là mi troverai, taglia il legno e io sono là». Annuncia un futuro misterioso: «Essendo stato interrogato da uno su quando venisse il suo regno, disse: "Quando i due saranno uno, e il fuori come il dentro, e il maschio con la femmina né maschio né femmina"».
Gesù e un uomo raggiungono la riva di un fiume e si siedono a mangiare. Consumano due dei tre pani che hanno. Gesù si alza, va a bere al fiume, torna e, non trovando la pagnotta, chiede all'altro chi l'abbia presa. "Non so", risponde. Ripartiti, Gesù vede una gazzella con due piccoli, ne chiama a sé uno, lo uccide, ne arrostisce una parte e ne mangiano. Poi dice al piccolo di gazzella: "Con il consenso di Dio, alzati!", e quello si alza e se ne va. Allora si rivolge all'uomo: "Per Colui che ti ha mostrato questo prodigio, ti chiedo: chi ha preso la pagnotta?"; e quello risponde: "Non lo so". Giunti a un corso d'acqua, Gesù prende l'uomo per mano e i due camminano sull'acqua. Gesù domanda: "Per Colui che ti ha mostrato questo prodigio, ti chiedo: chi ha preso la pagnotta?". L'altro risponde di nuovo: "Non lo so". Arrivati in un deserto, Gesù prende a raccogliere della sabbia: "Con il consenso di Dio, diventa oro", dice, e così accade. Gesù lo divide in tre parti: "Un terzo a me, uno a te e uno a chi ha preso la pagnotta ". Quello replica: "L'ho presa io!". E Gesù: "Allora è tutto per te!".
È una delle tante storie incantevoli che fanno parte del vero e proprio "vangelo musulmano" contenuto in questo libro: e prosegue poi verso una conclusione sorprendente. Ma il Gesù dell'islam è nello stesso tempo più semplice e più complesso di quanto non emerga da essa. R)mi, il più grande mistico persiano, scrive: "Il corpo è simile a Maria: ognuno ha un Gesù dentro di sé. Se sentiremo in noi i dolori, il nostro Gesù nascerà ". 'Ôsa Ibn Maryam, Gesù figlio di Maria, è infatti uno dei maggiori profeti dell'islam: che, fin dal Corano, ne tramanda molte parole. Riletture plurisecolari del Gesù dei Vangeli e degli apocrifi, esse ci restituiscono un Gesù musulmano, o un Gesù che parla all'islam, e a noi: "Beato colui che guarda con il cuore, ma il suo cuore non è in ciò che vede".
I detti islamici di Gesù - che segue Le parole dimenticate di Gesù, in una serie intesa a offrire un quadro completo delle immagini di Gesù nelle varie tradizioni - è un libro dal fascino particolare: racconta l'unico caso di una religione mondiale che sceglie di adottare la figura centrale di un'altra, finendo per riconoscere questa figura come costitutiva della propria identità.