
L'introduzione di Ida Soldini
Il dato di fatto storico che il dialogo ebraico-cristiano è germogliato su suolo ebraico – fra la fine dell’800 e l’inizio della seconda guerra mondiale – passa quasi inosservato, tanto è evidente. Per un cristiano è come assistere da una posizione privilegiata – proprio per grazia – ad una straordinaria lotta. Essa è combattuta in un medesimo tempo sia come quella di Giacobbe con la misteriosa Presenza, sia come quella del giovane Davide contro il gigante pagano Golia. E le ferite più profonde vengono inferte ad Israele dalla prima delle due!
I suoi frutti più alti mettono in discussione proprio il confine fra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, fra l’antagonista divino e l’antagonista pagano: possiamo prendere a testimoni Franz Rosenzweig, che sulla soglia del battesimo, a seguito di una profonda meditazione del vangelo di Giovanni, decise di restare ebreo; ed Edith Stein, che da una posizione totalmente atea riconobbe Cristo e contemporaneamente la propria inalienabile appartenenza al popolo ebraico. All’inizio del XX secolo, sullo sfondo dell’immane tragedia che fu in Europa la prima guerra mondiale, entrambi scoprirono per vie diverse ma con identica profondità quanto il cristianesimo interpellasse la loro identità ebraica.
Con la semplicità e l’acutezza che contraddistinguono il suo pensiero, il papa riconosce: “Solo dopo la seconda guerra mondiale [noi cristiani] abbiamo cominciato davvero a capire che anche l’interpretazione ebraica [della Scrittura] possiede una sua specifica missione teologica nel tempo ‘dopo Cristo’ ” .
E nel 1950 fu Hans Urs von Balthasar il primo a raccogliere questa sfida, prendendo come interlocutore di quello che genialmente chiamò un ‘solitario colloquio’ uno dei giganti del pensiero ebraico del ‘900, Martin Buber, grande amico di Franz Rosenzweig, il quale era prematuramente morto di SLA già nel 1929.
L’ipotesi di Balthasar parte dalla costatazione che
“in nessun altro luogo si estende un tale deserto di più interminato, incalcolabile silenzio [che non qui,] dove si può documentare che Hegel abbia rinvenuto la dialettica storica e la dialogica: nel luogo in cui l’unico, prescelto popolo di Dio, il centro della storia, si rapporta a se stesso nei termini di antico e nuovo Patto.”
E seguendo Buber per tutti i meandri del pensiero moderno e contemporaneo, come anche per quelli meno battuti della teologia ebraica della storia e della mistica chassidica e cabalistica, giunge fino a discutere questa sua conclusione:
“L’alternativa non sembra risolvibile: o Dio basta eternamente a se stesso, e allora della tragedia della creazione non può importargli nulla, ma perciò stesso essa perde tutta la sua serietà; o questa tragedia è invece di una serietà assoluta, e in essa Dio è impegnato a fianco del mondo, il suo dolore non gli è indifferente, perché qualcosa in Lui, la sua Schekinà, ne soffre. […]
Noi in realtà inclineremmo a dire che su questo punto Buber oltrepassa, nell’unica forma a lui possibile, i limiti dell’antico Patto, e contrae un debito con la croce di Cristo: il mistero più profondo dell’antico Patto, il dolore del Servo di Dio, ha certamente nozione del mistero della vicarietà, ma nulla lascia intendere che questo stesso dolore sia divino.
Per lasciare che rifulga il segreto dell’ultima solidarietà di Dio con la sua creazione, e senza poterlo interpretare nel senso di un’incarnazione, non resta altra possibilità che servirsi della terminologia del panteismo cabalistico, anche se si finisce apparentemente per contraddire il principio della ‘Urdistanz’, la distanza originaria.
Ma cos’è la Schekinà, cosa la testimoniata, e la fa degna di fede? È forse possibile, pur continuando a muoverci nell’obbedienza alla parola di Dio, infrangere in un punto diverso da quello stabilito da Dio stesso il limite fra Dio e la creatura, in quello cioè dell’unione ipostatica delle due nature in Cristo? Non dobbiamo forse intendere proprio da questo punto di vista quanto è detto sullo Spirito di Dio che si rattrista e geme, come indica anche tutto il contesto del capitolo 8 della lettera ai Romani?
Noi cristiani dobbiamo ammettere che con il fatto fondamentale di Cristo l’Urdistanz vetero-testamentaria è stata oltrepassata in modo decisivo. Che Dio abbia in Cristo voluto assumere il dolore del mondo, nella sua natura umana, dimostra che un tale dolore non Gli è indifferente, e che Egli ne è toccato e commosso nella sua stessa natura divina. Non possiamo affermare contemporaneamente che Dio sia intimamente coinvolto nella tragedia del mondo, e che questa gli sia totalmente indifferente. Se non intendendo la trascendenza di Dio come talmente alta, e di una tale grandezza, che gli sia possibile intraprendere una simile compagnia in modo totalmente libero.”
Il papa sposa ed amplia la prospettiva inaugurata da Balthasar, affermando con “Heinrich Schlier nel suo commento alla lettera ai Galati: «La Torà del Messia Gesù è in effetti una ‘interpretazione’ della legge mosaica […] una ‘interpetazione’ mediante la croce del Messia Gesù.»”
E nella valorizzazione dell’intepretazione che l’ebreo Gesù propone alla vicenda ebraica dal suo interno, interpretazione riconosciuta come autorevole dal rabbino Jacob Neusner e per questo da lui discussa, si situano anche le ricerche degli autori appartenenti alla Comunità Cattolica d’Integrazione che qui vengono proposte in versione italiana.
Desiderando dare seguito al dialogo fra il papa e il rabbino cominciato nel primo volume dell’opera che Joseph Ratzinger ha dedicato alla figura di Gesù di Nazaret, dove tutto il capitolo in cui viene discusso il discorso della montagna è una serratissima, dotta e pia disputa fra i due , ci propongono di considerare anche altri punti nei quali il dialogo diventa vivace, in particolare un’esegesi delle parole e della dottrina di Gesù in cui si rilevano una profusione di riferimenti e di citazioni testuali dei Profeti, del Deuteronomio, del Pentateuco, e un’attenzione a situarle nel loro contesto storico tale da permettere di riconoscervi presenti le tracce degli insegnamenti rabbinici contemporanei a Gesù, documentati in seguito nel Talmud.
Gli autori della Comunità d’Integrazione ci propongono anche di considerare i limiti della lettura che Jacob Neusner fa del Nuovo Testamento, perché ad esempio non considera che il vangelo di Matteo, ed esclude, propedeuticamente ma anche pregiudizialmente, il vangelo di Giovanni e gli altri scritti che pur testimoniano di Gesù.
Non è piccolo perciò il merito di quest’opera che si propone di facilitare e rendere più spedito un dialogo dal quale ci aspettiamo ancora molte sorprese, perché fin dalle sue origini, totalmente umane, attraverso i suoi sviluppi lungo l’ultimo secolo e infine in questa su ultima e autorevolissima ripresa si può intravedre il sigillo della mano divina che conduce la storia.
La Lettera di Yaaqov/Giacomo, compresa nel Nuovo Testamento fra le sette lettere definite "cattoliche" per la loro destinazione ad un pubblico più vasto di quello a cui si rivolgeva l'epistolario paolino, è stata sin dai tempi più antichi oggetto di dispute circa la sua datazione e la sua paternità. Più recenti studi e nuove scoperte rafforzano le tesi volte ad affermare l'antichità e l'attribuzione a colui che viene espressamente indicato come l?Autore.
La Lettera ai Romani, uno degli scritti paolini più importanti del cristianesimo nascente, è molto ampia e ricca di tematiche complesse, con passi di ardua interpretazione. Fin dalle origini è divenuta uno dei capisaldi di quella teologia della sostituzione per la quale l'ebraismo e tutti i suoi valori fondanti erano ritenuti il "vecchio" da cui liberarsi per fare posto al "nuovo", ossia la fede cristiana. Come hanno già fatto per la Didachè (2009), per la Lettera di Giacomo (2011) e per la Lettera agli Ebrei (2013), anche con la Lettera ai Romani i curatori si sono proposti di offrire un contributo per una sua reinterpretazione che ne metta in luce i profondi legami con l'ambiente ebraico d'origine. Secondo questa nuova lettura, Shaul/Paolo appare come colui che ha cercato di raggiungere fuori della Terra d'Israele coloro che sono fuori della Torah, poiché Ha-Shem, il Signore, non è solo il Dio d'Israele ma di tutta l'umanità. È significativo che, quando il Concilio Vaticano II con la Dichiarazione Nostra Aetate volle ridefinire in modo più positivo i rapporti con l'ebraismo, si sia ispirato proprio alla Lettera ai Romani per riconoscere che «gli Ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento» (Rm 11,28-29).
Nella cornice del Nuovo Testamento, tra rivolgimenti storico-sociali e all’indomani della crocifissione di Cristo, come nascono i vangeli apocrifi? Quale ruolo hanno svolto, che fortuna letteraria hanno raccolto? Perché leggerli nel XXI secolo?
Gli apocrifi sono stati redatti in epoche diverse, dal II al VII secolo: alcuni respirano il clima della Chiesa primitiva e dei testimoni che hanno ascoltato i seguaci di Gesù; altri vengono composti in seguito, in un tempo che si allontana da quegli eventi, e raccolgono narrazioni della tradizione orale che guardano soprattutto alle situazioni lasciate in sospeso dai Vangeli canonici.
Gli apocrifi dell’infanzia si concentrano sulla figura di Gesù bambino o comunque giovane, prima della sua missione pubblica. I più importanti a noi pervenuti sono nove e tra questi il Vangelo siriaco dell’Infanzia, il cui originale sarebbe databile al VI-VII secolo, si distingue per una sensibilità e un’immaginazione tipicamente orientali non presenti in altri scritti. La variegata presenza di personaggi, miracoli e circostanze agisce sull’immaginario portando davanti agli occhi del lettore scene inedite di Gesù da bambino e, accanto a lui in primo piano, di una Maria piena di tenerezza e attenzione al cuore dell’uomo.
Il Vangelo siriaco dell’Infanzia è tratto da Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, un’edizione curata da Mario Erbetta (1924-2002) che Marietti ha proposto in tre sezioni: I/1. Vangeli. Testi giudeo-cristiani e gnostici; I/2. Vangeli. Infanzia, Passione, Assunzione di Maria; II. Atti e leggende; III. Lettere e apocalissi.
Il libro può essere considerato un catechismo completo "scritto" da Gesù di Nazaret, in quanto le varie tematiche sono trattate utilizzando esclusivamente i versetti dei quattro vangeli. All'inizio di ogni capitolo è inserita una breve intervista a Gesù, che riguarda lo stesso argomento.
«Il Vangelo è una sceneggiatura. Il racconto infrange sempre le regole perché contiene le sbavature della vita: gli eccessi e le depressioni, le frustrazioni e i desideri.» Per parlare di Gesù oggi, con un linguaggio nuovo, Antonio Spadaro spoglia la lettura dei testi sacri da orpelli e apparati e traccia un percorso che, inquadratura dopo inquadratura, permette di entrare in un mondo diverso. Seguendo una tradizione che risale a Ignazio di Loyola, secondo cui il modo migliore per meditare non è riflettere sulle parole ma chiudere gli occhi e ricostruire la scena in cui i personaggi agiscono, il racconto si fa immersivo e cinematografico. Nel succedersi dei ritratti e dei paesaggi emergono i rapporti tra le figure, i contrasti, i particolari sfuggiti nell'agire di un protagonista che spiazza e ribalta ogni situazione con i suoi gesti e discorsi. «Così - scrive papa Francesco nella prefazione - la storia di Gesù entra nella nostra. La guardiamo alla luce della nostra vita, vediamo i volti, le vicende, i personaggi... Possiamo immaginare persino noi stessi entrare nella storia di Gesù, vedere lui, i suoi luoghi, i suoi movimenti, ascoltare le parole dalla sua viva voce... La storia di Gesù si sposa con quella degli uomini e delle donne, risveglia e potenzia le energie nascoste, la passione per la verità e per la giustizia, i barlumi di pienezza che l'amore ha prodotto nel nostro cammino, ma anche la capacità di affrontare il fallimento e il dolore, per esorcizzare i demoni dell'amarezza e del risentimento.»
Ogni passo dei Vangeli è un'avventura dei sensi. Gesù si lascia ungere con oli profumati, mescola il fango con la sua saliva, chiede di essere gustosi come il sale, offre la sua stessa carne da mangiare. Ogni episodio della sua storia apre a interpretazioni controverse. E i primi a fraintenderlo sono proprio i discepoli. Dopo aver raccontato con taglio cinematografico movimenti, discorsi e percorsi del «personaggio» Gesù, Antonio Spadaro torna a confrontarsi con i testi evangelici e ne intraprende una lettura nuova e sorprendente. Attraverso lenti squisitamente letterarie, dà vita a un universo di suoni e odori, sensazioni tattili e immagini, che parlano delle sfumature dell'esistenza umana e del pericolo della libertà. Il Maestro non è un replicante divino paracadutato sulla terra per farsi portavoce dell'Eterno. Pretende di essere veramente Dio e pienamente uomo. Ma non basta la carne per essere umani: è necessaria la libertà. Da queste pagine Gesù sfonda la «quarta parete», si volta verso i lettori e chiede loro: «E voi chi dite che io sia?». Prefazione di Liliana Cavani.
Il libro ripercorre, da Abramo ad oggi, 4000 anni si storia delle religioni monoteiste - giudaismo, cristianesimo, islamismo - e rintraccia le sorprendenti similitudini che le accomunano riguardo all'idea di un unico Dio.
Due ricercatori d'oggi, un professore e un giornalista, diventati amici in seguito a un incontro drammatico a Roma, decidono di perlustrare luoghi e tempi del libro scritto dall'evangelista Giovanni sulle rivelazioni avute nell'isola di Patmos venti secoli fa. È la storia di due uomini del Duemila su un sentiero sacro e buio, abbagliante e tortuoso, che li porta da Roma a Gerusalemme, alla ricerca di San Giovanni e delle sue pagine. Scopriamo così l'attualità di questo libro e della sua forma linguistica, dove le parole diventano persone e in cui passato e futuro si uniscono sempre al presente. Ciò fa dell'Apocalisse la fiaba più fantastica e autentica che conclude il Nuovo Testamento e con cui la religione cristiana racconta se stessa.
In quest'opera, John Shelby Spong cerca di liberare il Vangelo di Giovanni dalle credenza che lo imprigionano, dimostrando che il quarto Vangelo, frainteso dagli estensori del credo del IV secolo come fosse storia in senso letterale, è di fatto una rielaborazione letteraria e interpretativa degli eventi della vita di Gesù mediante personaggi fittizi, da Nicodemo e Lazzaro al "discepolo amato". Libro profondamente ebraico, il quarto Vangelo fu ideato per collocare Gesù nel contesto delle scritture ebraiche, poi negli schemi del culto sinagogale, e per consentire infine di essere visto attraverso le lenti di una forma popolare di misticismo ebraico del primo secolo. Il risultato di questo avvincente studio non è solo il recuperare il messaggio originale del quarto Vangelo, ma anche di aprire la strada a una nuova e attuale comprensione della fede cristiana.

