
Il nome completo di Rashi di Troyes era Rabbi Shelomoh ben Yishaq. Nacque a Troyes, capitale del ducato di Champagne, fiorente centro agricolo e commerciale, intorno al 1040. Studiò nelle prestigiose scuole renane di Worms e Magonza dove aveva insegnato il famoso dottore del Talmud Gershom ben Yehudah. Tornato a Troyes, vi fondò una scuola e iniziò le compilazioni dei suoi commenti alla Bibbia e al Talmud. Morì nel 1105.
Il nome completo di Rashi di Troyes era Rabbi Shelomoh ben Yishaq. Nacque a Troyes, capitale del ducato di Champagne, fiorente centro agricolo e commerciale, intorno al 1040. Studiò nelle prestigiose scuole renane di Worms e Magonza dove aveva insegnato il famoso dottore del Talmud Gershom ben Yehudah. Tornato a Troyes, vi fondò una scuola e iniziò le compilazioni dei suoi commenti alla Bibbia e al Talmud. Morì nel 1105.
Nel 1978, il giovane studente di filosofia e attivista politico Greg Roberts viene condannato a 19 anni di prigione per una serie di rapine a mano armata. È diventato eroinomane dopo la separazione dalla moglie e la morte della loro bambina. Ma gli anni che seguono vedranno Greg scappare da una prigione di massima sicurezza, vagare per anni per l'Australia come ricercato, vivere in nove paesi differenti, attraversarne quaranta, fare rapine, allestire a Bombay un ospedale per indigenti, recitare nei film di Bollywood, stringere relazioni con la mafia indiana, partire per due guerre, in Afghanistan e in Pakistan, tra le fila dei combattenti islamici, tornare in Australia a scontare la sua pena. E raccontare la sua vita in un romanzo epico di più di mille pagine.
Per la prima volta in italiano il Commento unanimemente considerato il più importante e autorevole di tutta la tradizione ebraica. Le interpretazioni tradizionali della Scrittura, in ambito sia ebraico che cristiano, pur nella diversità a volte radicale delle prospettive e soluzioni religiose, vedono tutte nella Bibbia il luogo in cui Dio rivela la sua volontà nell'hic et nunc dei singoli e dei popoli. La lettura della tradizione nasce perciò dall'ascolto, dall'obbedienza e dalla preghiera che la Scrittura stessa suscita all'interno di un'esperienza religiosa che si propone di plasmare e salvare l'esistenza storica. Proprio per questa dialettica fra ascolto-obbedienza nella fede e tensione a trasformare l'esistenza, il confronto con la Bibbia in alcuni momenti storici significativi ha dato luogo non solo a progetti religiosi, ma anche a mediazioni complesse e consapevoli con tutto il bagaglio culturale e scientifico di un'epoca. Almeno nei suoi frutti più maturi, l'esegesi tradizionale non è quindi solo metodo o meditazione spirituale o esercizio di erudizione, ma un'operazione culturale di ampio respiro umano che tende a riproporre il messaggio biblico nella sua essenzialità per l'oggi. «Ascolta, Israele!» vuole aiutare a riscoprire queste ricchezze presentando alcuni dei commenti più significativi ai libri biblici, dalla Genesi all'Apocalisse, espressione di molteplici esperienze, correnti e personalità religiose nei vari momenti storici dell'ebraismo e del cristianesimo. Accanto a testi dell'ebraismo antico, medievale e moderno si propongono qui commenti delle diverse chiese, orientale, greca, latina e dell'area della Riforma. Introduzione e traduzione di Luigi Cattani
GLI AUTORI
Il nome completo di Rashi di Troyes era Rabbi Shelomoh ben Yishaq. Nacque a Troyes, capitale del ducato di Champagne, fiorente centro agricolo e commerciale, intorno al 1040. Studiò nelle prestigiose scuole renane di Worms e Magonza dove aveva insegnato il famoso dottore del Talmud Gershom ben Yehudah. Tornato a Troyes, vi fondò una scuola e iniziò le compilazioni dei suoi commenti alla Bibbia e al Talmud. Morì nel 1105.
Per la prima volta in italiano il Commento al Pentateuco unanimemente considerato il più importante e autorevole di tutta la tradizione ebraica. L’affascinante e ricca personalità di Rashi, l’originalità della sua esegesi, fluttuante tra l’interpretazione letterale e quella midrashica, hanno esercitato un ampio influsso su tutto il mondo medievale: tracce della sua opera si ritrovano anche nei maggiori commentatori cristiani dell’epoca, come Ugo e Andrea di San Vittore e Nicola di Lira. Il Commento ai Numeri, caratterizzato da uno stile originalissimo e inconfondibile, può essere considerato un’espressione particolarmente riuscita dei diversi aspetti dell’approccio ermeneutico dell’autore e un autentico capolavoro della sua esegesi. Rashi infatti “prende per mano” il lettore e, come un autentico pedagogo, lo guida alla comprensione dei molteplici significati della parola divina: parola spiegata secondo il suo senso letterale e insieme magistralmente interpretata alla luce della ricchissima tradizione d’Israele. Nel clima di dialogo che, in virtù del Concilio Vaticano II, si è instaurato tra mondo ebraico e chiesa cattolica, la lettura del Commento al Pentateuco di Rashi costituisce per il cristiano uno strumento indispensabile per la conoscenza del giudaismo, così come esso è.
Il Commento al Levitico completa l'edizione, iniziata negli anni Ottanta, del Commento al Pentateuco di Rashi di Troyes, considerato il più importante esegeta ebreo di ogni tempo. Nella tradizione ebraica il Commento al Levitico è il primo libro della sacra Scrittura studiato dai bambini. Si tratta pertanto di un testo insostituibile per chiunque desideri conoscere il mondo ebraico e apprezzarne la lettura della Bibbia.
L'introduzione di Ida Soldini
Il dato di fatto storico che il dialogo ebraico-cristiano è germogliato su suolo ebraico – fra la fine dell’800 e l’inizio della seconda guerra mondiale – passa quasi inosservato, tanto è evidente. Per un cristiano è come assistere da una posizione privilegiata – proprio per grazia – ad una straordinaria lotta. Essa è combattuta in un medesimo tempo sia come quella di Giacobbe con la misteriosa Presenza, sia come quella del giovane Davide contro il gigante pagano Golia. E le ferite più profonde vengono inferte ad Israele dalla prima delle due!
I suoi frutti più alti mettono in discussione proprio il confine fra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, fra l’antagonista divino e l’antagonista pagano: possiamo prendere a testimoni Franz Rosenzweig, che sulla soglia del battesimo, a seguito di una profonda meditazione del vangelo di Giovanni, decise di restare ebreo; ed Edith Stein, che da una posizione totalmente atea riconobbe Cristo e contemporaneamente la propria inalienabile appartenenza al popolo ebraico. All’inizio del XX secolo, sullo sfondo dell’immane tragedia che fu in Europa la prima guerra mondiale, entrambi scoprirono per vie diverse ma con identica profondità quanto il cristianesimo interpellasse la loro identità ebraica.
Con la semplicità e l’acutezza che contraddistinguono il suo pensiero, il papa riconosce: “Solo dopo la seconda guerra mondiale [noi cristiani] abbiamo cominciato davvero a capire che anche l’interpretazione ebraica [della Scrittura] possiede una sua specifica missione teologica nel tempo ‘dopo Cristo’ ” .
E nel 1950 fu Hans Urs von Balthasar il primo a raccogliere questa sfida, prendendo come interlocutore di quello che genialmente chiamò un ‘solitario colloquio’ uno dei giganti del pensiero ebraico del ‘900, Martin Buber, grande amico di Franz Rosenzweig, il quale era prematuramente morto di SLA già nel 1929.
L’ipotesi di Balthasar parte dalla costatazione che
“in nessun altro luogo si estende un tale deserto di più interminato, incalcolabile silenzio [che non qui,] dove si può documentare che Hegel abbia rinvenuto la dialettica storica e la dialogica: nel luogo in cui l’unico, prescelto popolo di Dio, il centro della storia, si rapporta a se stesso nei termini di antico e nuovo Patto.”
E seguendo Buber per tutti i meandri del pensiero moderno e contemporaneo, come anche per quelli meno battuti della teologia ebraica della storia e della mistica chassidica e cabalistica, giunge fino a discutere questa sua conclusione:
“L’alternativa non sembra risolvibile: o Dio basta eternamente a se stesso, e allora della tragedia della creazione non può importargli nulla, ma perciò stesso essa perde tutta la sua serietà; o questa tragedia è invece di una serietà assoluta, e in essa Dio è impegnato a fianco del mondo, il suo dolore non gli è indifferente, perché qualcosa in Lui, la sua Schekinà, ne soffre. […]
Noi in realtà inclineremmo a dire che su questo punto Buber oltrepassa, nell’unica forma a lui possibile, i limiti dell’antico Patto, e contrae un debito con la croce di Cristo: il mistero più profondo dell’antico Patto, il dolore del Servo di Dio, ha certamente nozione del mistero della vicarietà, ma nulla lascia intendere che questo stesso dolore sia divino.
Per lasciare che rifulga il segreto dell’ultima solidarietà di Dio con la sua creazione, e senza poterlo interpretare nel senso di un’incarnazione, non resta altra possibilità che servirsi della terminologia del panteismo cabalistico, anche se si finisce apparentemente per contraddire il principio della ‘Urdistanz’, la distanza originaria.
Ma cos’è la Schekinà, cosa la testimoniata, e la fa degna di fede? È forse possibile, pur continuando a muoverci nell’obbedienza alla parola di Dio, infrangere in un punto diverso da quello stabilito da Dio stesso il limite fra Dio e la creatura, in quello cioè dell’unione ipostatica delle due nature in Cristo? Non dobbiamo forse intendere proprio da questo punto di vista quanto è detto sullo Spirito di Dio che si rattrista e geme, come indica anche tutto il contesto del capitolo 8 della lettera ai Romani?
Noi cristiani dobbiamo ammettere che con il fatto fondamentale di Cristo l’Urdistanz vetero-testamentaria è stata oltrepassata in modo decisivo. Che Dio abbia in Cristo voluto assumere il dolore del mondo, nella sua natura umana, dimostra che un tale dolore non Gli è indifferente, e che Egli ne è toccato e commosso nella sua stessa natura divina. Non possiamo affermare contemporaneamente che Dio sia intimamente coinvolto nella tragedia del mondo, e che questa gli sia totalmente indifferente. Se non intendendo la trascendenza di Dio come talmente alta, e di una tale grandezza, che gli sia possibile intraprendere una simile compagnia in modo totalmente libero.”
Il papa sposa ed amplia la prospettiva inaugurata da Balthasar, affermando con “Heinrich Schlier nel suo commento alla lettera ai Galati: «La Torà del Messia Gesù è in effetti una ‘interpretazione’ della legge mosaica […] una ‘interpetazione’ mediante la croce del Messia Gesù.»”
E nella valorizzazione dell’intepretazione che l’ebreo Gesù propone alla vicenda ebraica dal suo interno, interpretazione riconosciuta come autorevole dal rabbino Jacob Neusner e per questo da lui discussa, si situano anche le ricerche degli autori appartenenti alla Comunità Cattolica d’Integrazione che qui vengono proposte in versione italiana.
Desiderando dare seguito al dialogo fra il papa e il rabbino cominciato nel primo volume dell’opera che Joseph Ratzinger ha dedicato alla figura di Gesù di Nazaret, dove tutto il capitolo in cui viene discusso il discorso della montagna è una serratissima, dotta e pia disputa fra i due , ci propongono di considerare anche altri punti nei quali il dialogo diventa vivace, in particolare un’esegesi delle parole e della dottrina di Gesù in cui si rilevano una profusione di riferimenti e di citazioni testuali dei Profeti, del Deuteronomio, del Pentateuco, e un’attenzione a situarle nel loro contesto storico tale da permettere di riconoscervi presenti le tracce degli insegnamenti rabbinici contemporanei a Gesù, documentati in seguito nel Talmud.
Gli autori della Comunità d’Integrazione ci propongono anche di considerare i limiti della lettura che Jacob Neusner fa del Nuovo Testamento, perché ad esempio non considera che il vangelo di Matteo, ed esclude, propedeuticamente ma anche pregiudizialmente, il vangelo di Giovanni e gli altri scritti che pur testimoniano di Gesù.
Non è piccolo perciò il merito di quest’opera che si propone di facilitare e rendere più spedito un dialogo dal quale ci aspettiamo ancora molte sorprese, perché fin dalle sue origini, totalmente umane, attraverso i suoi sviluppi lungo l’ultimo secolo e infine in questa su ultima e autorevolissima ripresa si può intravedre il sigillo della mano divina che conduce la storia.
La Lettera di Yaaqov/Giacomo, compresa nel Nuovo Testamento fra le sette lettere definite "cattoliche" per la loro destinazione ad un pubblico più vasto di quello a cui si rivolgeva l'epistolario paolino, è stata sin dai tempi più antichi oggetto di dispute circa la sua datazione e la sua paternità. Più recenti studi e nuove scoperte rafforzano le tesi volte ad affermare l'antichità e l'attribuzione a colui che viene espressamente indicato come l?Autore.
La Lettera ai Romani, uno degli scritti paolini più importanti del cristianesimo nascente, è molto ampia e ricca di tematiche complesse, con passi di ardua interpretazione. Fin dalle origini è divenuta uno dei capisaldi di quella teologia della sostituzione per la quale l'ebraismo e tutti i suoi valori fondanti erano ritenuti il "vecchio" da cui liberarsi per fare posto al "nuovo", ossia la fede cristiana. Come hanno già fatto per la Didachè (2009), per la Lettera di Giacomo (2011) e per la Lettera agli Ebrei (2013), anche con la Lettera ai Romani i curatori si sono proposti di offrire un contributo per una sua reinterpretazione che ne metta in luce i profondi legami con l'ambiente ebraico d'origine. Secondo questa nuova lettura, Shaul/Paolo appare come colui che ha cercato di raggiungere fuori della Terra d'Israele coloro che sono fuori della Torah, poiché Ha-Shem, il Signore, non è solo il Dio d'Israele ma di tutta l'umanità. È significativo che, quando il Concilio Vaticano II con la Dichiarazione Nostra Aetate volle ridefinire in modo più positivo i rapporti con l'ebraismo, si sia ispirato proprio alla Lettera ai Romani per riconoscere che «gli Ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento» (Rm 11,28-29).