
Uno dei testi principali della tradizione protestante, tratto dal commento di Lutero alla lettera ai Romani di san Paolo. Un'esortazione - ancora oggi di grande attualità - al popolo cristiano che deve seguire radicalmente il Vangelo. Sono pagine da cui il grande tema luterano della grazia di Dio che salva l'uomo si coniuga con l'invito all'uomo di ogni tempo affinché cambi vita e risponda alla grazia con il cambiamento della propria esistenza. Noi siamo donne e uomini nuovi, annuncia Lutero, grazie al Vangelo di Cristo che ci è stato dato: comportiamoci di conseguenza, mutando le nostre relazioni all'interno della Chiesa e come testimonianza per il mondo.
Quella che qui viene proposta è la prima omelia che testimonia l’ingresso della festa natalizia nell’Oriente cristiano, attorno al 377; in precedenza l’ortodossia poneva al centro delle festività dell’Incarnazione la festa dell’Epifania (e così è tutt’ora).
Si tratta, dunque, di un elemento storico e teologico importante, quello che sta alla base della pubblicazione di questo testo basiliano, in cui il grande monaco e teologo del IV secolo, prendendo spunto dalla celebrazione della nascita di Gesù, fa una profonda riflessione che tocca tutti i grandi temi del dibattito cristologico dell’epoca (Cristo generato come Dio e come uomo; unità in Cristo dell’umano e del divino; salvezza proposta all’uomo che viene “assunto” da Gesù). Un testo che è, dunque, occasione di una riscoperta che va ben oltre l’archeologia cristiana. Una lettura che può essere “frantumata e masticata” per avvicinarsi alla festa di Gesù Bambino con un piglio di riflessione profonda.
GIORGIO MAZZANTI, sacerdote della diocesi di Firenze, è docente di teologia sacramentaria presso la Pontificia Università Urbaniana in Roma.
Martin Lutero fu nemico della pace - lo dichiarano anche i suoi biografi più indulgenti - ma la pace che avversava era apparente e per questo veniva irrisa e smascherata. Non si trattava della pace politica: Lutero odiava la falsa unanimità religiosa. Era un credente che si interrogava sulle ragioni della fede e non accettava di limitare per quieto vivere le domande che turbavano la sua stessa psiche. Era un uomo ambizioso, disposto a metter in pericolo la propria sicurezza per proseguire la ricerca di verità fondata sullo studio della Parola. Era forte e debole, generoso e meschino, misericordioso e vendicativo, lucido e furibondo, santo e peccatore. Era un figlio di Dio, un lottatore a cui ci scopriremo uniti nell'essenziale, nonostante tutto.
Abelardo nasce nel 1079 nella Bretagna indipendente, destinato a divenire - grazie alla vivida intelligenza e alla vocazione per lo studio - una figura nodale del secolo successivo. È un'epoca di fermento intellettuale e letterario, in cui il "Maestro Palatino-, geniale ma altezzoso al limite dell'arroganza, non frena pensiero e ambizioni di fronte ad alcuna autorità. La vita di Abelardo è appassionante quanto la sua indomita riflessione. Egli transita dal successo parigino e dalla vita mondana alla rovina e alla scelta monastica; dall'essere ammirato come l'uomo dall'ingegno più sottile di quegli anni alla condanna per eresia, comminata anche in virtù dell'inimicizia di Bernardo di Chiaravalle. Il suo ricordo oggi si lega alla storia d'amore con Eloisa, ma molto più di questo insegna la figura di Abelardo, che questo libro intende osservare da ogni prospettiva.
Un missionario gesuita, raffinato studioso della civiltà cinese e divulgatore della cultura occidentale: questo fu Matteo Ricci, nato a Macerata e morto a Pechino nel 1610, costruttore di ponti tra mondi lontani, protagonista di una fortunata opera di apostolato e di evangelizzazione. Ma, per giungere a un tale obiettivo, per arrivare persino alla corte dell'imperatore cinese, Matteo Ricci dovette dimostrare sincero rispetto per la cultura locale, adattando il Vangelo alla sensibilità, al pensiero, al vocabolario e alla tradizione del popolo che, lentamente, iniziò a convertire. Ed ecco la domanda che vibra lungo tutta la sua eccezionale avventura: quel gesuita, pur di portare il Vangelo ai cinesi, lo arrangiò al punto da tradirlo? Matteo Ricci fu un eccezionale missionario o un grande traditore del messaggio cristiano?
Nella sua opera dedicata al Discorso della montagna Sant'Agostino scriveva: «Se qualcuno esaminerà con fede e serietà il discorso che nostro Signore Gesù Cristo ha proferito sulla montagna, come lo leggiamo nel Vangelo di Matteo, penso che vi riscontrerà la norma definitiva della vita cristiana». Questo libro nasce con lo scopo di dare un contributo in tal senso. I testi qui proposti sono di diversa natura. Dall'età antica e attraverso il Medioevo ci è arrivato un repertorio, seppure incompleto, di commentari e di omelie sistematici su tutto il vangelo di Matteo, che trattano quindi specificamente il discorso della montagna. Abbiamo poi i trattati sul Padre nostro, che è il "centro" letterario e concettuale del discorso. Troveremo anche testi di altra provenienza, dato che la predicazione patristica, in situazioni e contesti d'ogni genere, fa frequentissimi riferimenti alle affermazioni del discorso della montagna, considerato dai Padri come la descrizione dell'uomo nuovo, ossia di Cristo stesso, a cui il cristiano è chiamato a unirsi per realizzare l'ideale che sarebbe impossibile alle proprie forze.
In questo testo sono proposte alcune pagine di commento dei Padri sui vangeli che mostrano Gesù in preghiera o che riportano le sue parole rivolte al Padre. Non sono stati presi in considerazione gli insegnamenti di Gesù sulla preghiera, né il Padre nostro, né le parabole: riguardo ad essi, infatti, esistono già numerosi florilegi patristici ampi e di facile accesso. I vangeli sono stati raggruppati in sette sezioni; ogni sezione è accompagnata da brani patristici scelti liberamente e da una "omelia" tratta dalla liturgia monastica delle ore. Il commento vorrebbe aiutare a colmare la distanza temporale e culturale che spesso impedisce al lettore non specialista di apprezzare la ricchezza della spiritualità dei Padri.
Il Giubileo secondo i Padri ci conduce per mano in un viaggio attraverso i secoli, esplorando le profonde riflessioni teologiche dei Padri della Chiesa, da Clemente Romano a Beda il Venerabile, passando per iscrizioni funerarie e il viaggio di una giovane donna. Attraverso una lettura selezionata di alcuni passi, l'autore ci mostra come concetti fondamentali quali la speranza, la preghiera per i defunti o il viaggio a Roma siano stati elaborati nei primi secoli del cristianesimo, influenzando profondamente la celebrazione giubilare come la conosciamo oggi.
Sant’Alfonso ha coniugato il buonumore, la tenerezza, l’accoglienza verso tutti, soprattutto i più umili, con una grande intelligenza nel giudicare i comportamenti. Chi lo conosceva era colpito soprattutto dal fatto che sapesse voler bene, e infatti grazie a lui la confessione è cambiata, da tribunale severo, a luogo della misericordia.
Dalla Prefazione di Costanza Miriano
Tra i più nobili dei santi per il suo lignaggio, ma nello stesso tempo il più radicale nel dedicarsi ai più poveri dei poveri, sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) è figlio del comandante della flotta da guerra partenopea, avvocato apprezzato, teologo, vescovo, infine santo e Dottore della Chiesa. Pare che fosse di costante buon umore (altrimenti che napoletano sarebbe?), capace fino alla fine di sdrammatizzare i malanni più fastidiosi. È conosciuto ancora oggi per le sue opere e le sue canzoni, tra cui Tu scendi dalle stelle.
L'esperienza del male coinvolge l'essere umano nell'intimità della sua persona e quasi sempre si pone quale problema insoluto. La filosofia, da sempre intenta a cercare risposte soddisfacenti, trova nelle opere di Tommaso d'Aquino una stimolante proposta che, senza ricorrere alla fede e al pensiero teologico, offre, con la forza della ragione, una possibile lettura di questa esperienza umana. Riprendendo Sant'Agostino, l'Aquinate afferma che il male è, fondamentalmente, assenza di bene; specificandone le caratteristiche, egli lo coglie in tutta la sua negatività quando esso si manifesta nelle azioni umane. Un ideale dialogo con la scrittrice e filosofa ebrea Hannah Arendt, la quale definì 'banale' il male, mostra la possibilità e la grande risorsa che il pensiero di Tommaso offre alla filosofia contemporanea. I due autori, sebbene partano da presupposti e contesti culturali completamente differenti, possono essere accomunati dalla negazione di esistenza che a livello ontologico riscontrano nel male. Non mancano i punti di contrasto e di differenza, i quali però possono offrire notevoli spunti di riflessione.
Il capolavoro di Czepko, i "Sexcenta monodisticha sapientum", è la raccolta poetica che ha ispirato all'amico Angelus Silesius il "Pellegrino cherubico" e, al pari di questo, si può considerare una vera e propria summa della tradizione spirituale classica e cristiana. I distici di Czepko trattano, con concettosa brevità, il tema cruciale del destino dell'uomo e dell'unione dell'anima con Dio. Il materiale speculativo dei versi è fornito all'autore dalla filosofia greca, dal mondo cristiano antico, ma soprattutto dalla mistica tedesca, medievale (Eckhart, Taulero, la Theologia deutsch) e rinascimentale (Franck, Weigel, Böhme). Con sublime arditezza il poeta ci parla così di distacco da se stessi, di "morte dell'anima", di ritorno all'origine e ricongiungimento a quell'Uno da cui, in realtà, non siamo mai usciti.
Questa che presentiamo, a cura di Marco Vannini, è la prima traduzione italiana degli scritti di uno dei personaggi più significativi della storia religiosa tedesca dei primi del XVI secolo.
Nella sua breve vita (1500 ca.-1527), Hans Denck fu infatti testi­mone ed attore importante in quel periodo cruciale in cui stava nascendo la Riforma protestante. L'umanesimo di origine italiana, in­sieme alla lezione filologica di Erasmo, avevano messo in crisi non solo la credenza tradizionale, ma anche, e soprattutto, la fede nella Scrittura secondo la "lettera". L'umanista cristiano Denck combatte perciò l'i­pocrisia dei riformatori, che si appoggiano su questo o quel passo della Scrittura, mettendo da parte i passi di significato opposto, incapaci di cogliere il vero come l'intero perché privi di comprensione secondo lo spirito. Per lui, la salvezza si può avere "senza prediche e senza Scrit­tura", giacché dipende da una conversione interiore, apertura alla luce divina, nella rinuncia a ogni "appropriazione", owero a ogni forma di egoità, in conformità con la lezione della mistica medievale, e in parti­colare del Libretto della vita perfetta (alias Teologia tedesca), tante volte citato.
La precocissima morte impedì a Denck di diventare uno degli espo­nenti principali della storia religiosa di quegli anni, ma già questi suoi Scritti religiosi dimostrano come la moderna libertà di fede e di pensiero trovi la sua origine nell'apporto comune di filologia e mistica.