
Sulle basi di numerose fonti teologiche, giuridiche e mediche, Foucault affronta il problema di quegli individui "pericolosi" che, nel corso del XIX secolo, sono stati definiti "anormali". Definisce le tre figure principali dell'anormalità: il mostro umano, antica nozione cui quadro di riferimento erano le leggi della natura e le norme della società; l'individuo da correggere, di cui si fanno carico i nuovi dispositivi di disciplinamento del corpo; l'onanista, che è oggetto, già dal XVIII secolo, di una campagna indirizzata al controllo della famiglia moderna. Per Foucault l'individuo anormale deriva dell'eccezione giuridico-naturale del mostro, dalla moltitudine degli incorreggibili e dal segreto delle sessualità infantili.
Perché fare storia della filosofia, se la filosofia è morta? La ricerca filosofica si trova in una singolare impasse. Rinsecchisce la sua vena speculativa, cresce a dismisura la cura storiografica. Ma cresce anche la domanda di filosofia, che priva di respiro teoretico e di rigore filologico rimane però allo stato di mera suggestione. Questo libro tenta di coniugare di nuovo storia e teoresi. Da un lato si ritaglia oggetti storiografici precisi: i margini del razionalismo seicentesco e i dilemmi della ragione e della fede (Pascal, Fénelon, Spinoza), ma anche gli esercizi della dialettica (Hegel, Merleau-Ponty). Dall'altro investe con vigorosi sondaggi teoretici un'area più ampia che lambisce anche il '900 e territori solitamente meno esplorati (la fotografìa, il cinema).
Nato a Malaga, Avicebron (Shelomon Ibn Gabirol, ca. 1021-1058) è una delle figure più originali e controverse della filosofia ebraica medievale. L'ambivalenza del suo sapere - oscillante fra la tradizione religiosa ebraica e la cultura filosofica greca (tra Gerusalemme e Atene, per riprendere la fortunata espressione di Leo Strauss) - giustifica il fascino che Avicebron esercitò alternativamente nel mondo ebraico come poeta e in quello latino-cristiano come pensatore. Il suo capolavoro filosofico, la "Fonte della vita", composto originariamente in arabo, si è conservato integralmente solo nella traduzione latina realizzata nella prima metà del XII secolo da Domenico Gundisalvi e Giovanni Ispano. In quest'opera, presentata con il testo latino a fronte, si ritrovano le radici di molti dei successivi dibattiti scolastici sul ruolo della Volontà di Dio, sulla pluralità delle forme sostanziali e soprattutto sulla composizione degli enti finiti (la celebre dottrina dell'ilemorfismo universale).
Che cosa ha a che vedere Derrida con l'Egitto? In questo scritto breve e denso, Sloterdijk, uno dei più importanti innovatori del pensiero contemporaneo, attraversa l'opera del filosofo francese mediante una serie di confronti con altri autori che ne moltiplicano i piani di lettura e di interpretazione. Ne esce un'immagine di Derrida inconsueta, poco compiacente ma problematica e aperta, delineata in uno stile filosofico talmente dissonante da quello derridiano da rivelarsi paradossalmente in sintonia con esso.
Si è soliti squalificare come "utopica" ogni forma di progettualità non sufficientemente asservita alla forza di un principio di realtà tanto perentorio quanto sospetto. E se "utopia" fosse invece il nome di uno spazio di pensiero e di un margine di gioco che di volta in volta è stato necessario creare tra le maglie dei testi e dei sistemi di pensiero per consentirsi di progettare la realtà di nuovi principi? Dall'utopia filosofico-politica di Thomas More o Charles Fourier, a quella scientifico-tecnologica di Skinner o Stanislaw Lem, alle infinite creazioni fantastiche e fantascientifìche dell'Ottocento e del Novecento, il libro circoscrive i confini di un universo di scrittura che offre, allo stesso tempo, un modello di riflessione filosofica, un paradossale osservatorio antropologico, un laboratorio spesso inavvertito di elaborazione politica. Lo spazio "altro" dell'utopia obbedisce di volta in volta a differenti principi architettonici e ad altrettante strategie di senso.
La percezione è uno dei campi di studio più affascinanti e difficili: per un verso, dietro l'impressionante immediatezza dell'esperienza percettiva si celano spinosi problemi che hanno fatto la storia della filosofia; per l'altro, una padronanza anche superficiale dei fatti empirici che ne sono alla base richiede impegno e competenza in diversi settori. Questo libro è un'introduzione sistematica, la prima in lingua italiana, alla filosofia (analitica) della percezione.
"Se l'ermeneutica filosofica è una nota a piè di pagina di Platone, felicemente indovinata, diventa allora chiaro una volta per tutte che non si tratta di una disciplina specifica dedicata ad un ambito di oggetti limitato. L'ermeneutica filosofica è in realtà filosofia ermeneutica. Contrariamente alle diverse varietà di 'pensiero postmetafisico', l'ermeneutica non incontra alcuna difficoltà con la tradizione risalente a Platone ed anzi, ne è debitrice e vorrebbe proseguirla. Il che non può avvenire attraverso una conservazione museale e neppure attraverso una restaurazione annunciata con "pathos" fondativo, bensì soltanto nel voler-comprendere, nel dire nuovamente e, in modo diverso, qualcosa che solo in questo modo appare identico. La filosofia ermeneutica vuole trattare il senso del comprendere e corrispondervi ".
I temi della fede e della religione, e del loro conflitto con la cultura laica, sono da qualche tempo al centro di un interesse mediatico crescente, alimentato anche dalle polemiche politiche suscitate dal moltiplicarsi degli interventi e delle "scomuniche" del papa e della Conferenza Episcopale Italiana contro la modernità. Mancava fin qui, tuttavia, un testo di discussione, da punti di vista diversi e reciprocamente problematici, sulle ragioni dell'ateismo e della fede. Un confronto tra gli esponenti di tre posizioni ideologiche molto lontane tra loro, accomunate però dal rifiuto di ogni appartenenza accademica: il cristianesimo nietzschiano del "pensiero debole" di Gianni Vattimo, la saggezza atea di una tradizione antica rilanciata da Michel Onfray e l'empirismo naturalistico-esistenziale della "filosofia del finito" di Paolo Flores d'Arcais. In questo insolito dialogo a tre voci emergono tutti gli interrogativi essenziali legati al problema, a partire da quello più generale: quali devono essere i rapporti tra filosofia e ateismo? L'"ipotesi Dio" deve ormai essere considerata superflua anche dalla riflessione filosofica, visto che le scienze ne fanno metodologicamente a meno? Quali sono le conseguenze etiche e politiche dell'essere atei o, all'opposto, credenti?
Democrito e Diogene, Aristippo ed Epicuro non sono di solito considerati i "campioni" della filosofia greca. Eppure, nelle "Saggezze antiche", Onfray ha dimostrato che non hanno niente da invidiare a Platone e Aristotele. Ora, in questo secondo volume della "Controstoria della filosofia", Onfray, teorico per eccellenza dell'ateismo, non ha paura di andare a scoprire proprio il lato più nascosto della tradizione medievale: il cristianesimo edonista. In questa rassegna filosofica, pertanto, non si troveranno sant'Agostino né san Tommaso, ma personaggi dei quali non v'è quasi traccia nei manuali ufficiali, come gli gnostici Basilide e Carpocrate, accanto ai più famosi Lorenzo Valla, Marsilio Ficino, Erasmo da Rotterdam. Pensatori molto diversi fra loro, accomunati però dalla lontananza dall'ideale ascetico, da un progetto che rimanda la felicità alla sfera oltremondana; e tenaci propugnatori di un modello di vita che realizzi qui, su questa terra, quella "saggezza felice" che è la vera vocazione di un sapere capace di porsi come arte del "buon vivere". Il cristianesimo edonista si chiude con l'analisi della figura di Michel de Montaigne, al quale sono riservate le ultime cento pagine.
Le passioni, a lungo condannate come fattori di turbamento, oggi si puntano a controllare dal punto di vista dell'individuo, mentre si mirano a forgiare come strumenti di dominio politico, dal punto di vista sociale. L'opposizione tra ragione e passione fa parte di una costellazione di senso culturalmente condizionata.
Se fosse possibile azzardare un paragone musicale quando si parla dei tanti contributi critici che - nel corso del tempo - sono stati generati dall'opera di Jacques Derrida, si dovrebbe ricorrere necessariamente al contrappunto, vale a dire al rapporto tra voci che sono indipendenti rispetto al ritmo e interdipendenti rispetto all'armonia. Il 12 e il 13 dicembre 2006, presso l'Università degli Studi di Bergamo, si è svolto un convegno che ha messo alla prova la verità di tale polifonia e ha sviluppato linee di fuga e passaggi tonali a partire da quattro parole - scrittura, decostruzione, ospitalità, responsabilità - che, come note su un pentagramma, scandiscono il percorso filosofico di uno dei maestri più importanti del Novecento. Consapevoli del fatto che Derrida non amava celebrazioni o monumentalizzazioni, gli studiosi che sono intervenuti (i quali, tra l'altro, appartengono a generazioni diverse), non si sono chiesti soltanto che cosa Derrida può ancora dare, ma hanno cercato di comprendere in che senso tutto ciò che lo concerne si gioca ora, avviene ora, vale a dire nella piena corresponsabilità del suo gesto di lettura.