
"Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi - o, almeno, pensieri simili -. Esso non è, dunque, un manuale. Conseguirebbe il suo fine se piacesse ad almeno uno che lo legga comprendendolo. Il libro tratta i problemi filosofici e mostra - credo che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere". Cosi inizia la prefazione di Wittgenstein al "Tractatus" che, edito nel 1921, costituisce, come è noto, l'unico libro filosofico che egli abbia pubblicato in vita. Il libro è un punto di partenza obbligato per chi intende percorrere il pensiero logico del secolo e inoltrarsi alla scoperta del filosofo che più seduce chi cerchi risposte a domande insoddisfatte, sul piano etico e su quello gnoseologico. Il volume è integrato da tutti gli altri scritti filosofici non postumi, dai "Quaderni" del periodo corrispondente all'elaborazione del "Tractatus", e da un'amplissima bibliografia di e su Wittgenstein.
Secondo Giacomo Marramao, che affronta in questo libro lo straordinario "mutamento di scala" che accompagna i fenomeni politici della nostra epoca, il ricorso alle categorie di "mondializzazione" o "globalizzazione" non ha solo un significato tecno-economico. Siamo di fronte a un passaggio destinato a trasformare tutte le culture, che chiama in causa una riconversione di concetti fondamentali come identità e differenza, contingenza e necessità, nonché, per cominciare, locale e globale. Rispetto a diagnosi apparentemente antitetiche come quelle di Fukuyama (omologazione universale) e Huntington (conflitto delle civiltà), per Marramao è necessario demistificare due false opposizioni: Stato-mercato e Oriente-Occidente. A tale scopo, il libro, tenendo costantemente sullo sfondo la grande discussione sull'"èra globale" avviata fra le due guerre da autori come Spengler, Jünger, Schmitt e Heidegger, sviluppa la sua proposta muovendo dal disincanto della categoria di mercato operato da Polanyi e da una profonda revisione della comparatistica i delle civiltà operata da Weber. L'esigenza - avanzata in conclusione attraverso un serrato confronto con le posizioni di Habermas e di Derrida - di una "politica universalista della differenza" viene formulata in base a un radicale riesame critico delle pretese di universalità delle stesse categorie, tipicamente occidentali, di democrazia e filosofia.
Ogni volume di questa collana costituisce un capitolo di storia della filosofia, in questo caso dedicato alla figura di Spinoza. L'"Introduzione" offre gli strumenti critici essenziali per intendere l'opera del filosofo alla luce delle più recenti prospettive storiografiche.
Dagli utensili preistorici in pietra, osso o legno alle prime produzioni ceramiche, dalle macchine ai computer, le cose hanno percorso una lunga strada assieme a noi. Cambiando con i tempi, i luoghi e le modalità di lavorazione, discendendo da storie e tradizioni diverse, ricoprendosi di molteplici strati di senso, hanno incorporato idee, affetti, simboli di cui spesso non siamo consapevoli. Il significato di "cosa" (contrazione dal latino "causa", quanto ci sta a cuore e per cui ci si batte) è, infatti, più ampio sia di quello di "oggetto", ciò che si manipola con indifferenza o secondo impersonali procedure tecniche, sia di quello di "merce" quale semplice valore d'uso e di scambio o espressione di status symbol. Le cose rappresentano nodi di relazioni con la vita degli altri, anelli di continuità tra le generazioni, ponti che collegano storie individuali e collettive, raccordi tra civiltà umane e natura. Il loro rapporto con noi somiglia, in tono minore, a quello dell'amore tra persone, dove il legame convive con la reciproca autonomia e nessuno è proprietà esclusiva dell'altro.
In questi ultimi anni si è avuta una generale rinascita di interesse per Schelling. In particolare, gli studiosi hanno riscoperto la filosofia del cosiddetto "ultimo" Schelling, caratterizzata da una nuova e suggestiva sensibilità verso il mito greco e la religione. In questa linea si inserisce il saggio qui presentato, tradotto in Italia integralmente, nel quale il filosofo tedesco interpreta la mitologia come il linguaggio che descrive la condizione esistenziale dell'uomo e come il preludio alla rivelazione di Dio come persona. In questo senso la filosofia deve essere disposta a confrontarsi con la dimensione del divino e a riconoscere l'insufficienza dei mezzi puramente logici della ragione umana.
Nell'opera di Hannah Arendt, "Sulla rivoluzione" occupa una posizione centrale, insieme riflessione teorica ed esperienza morale della sua piena maturità. In questo libro, confluiscono i motivi fondamentali della sua ricerca e appare in tutto il suo significato l'idea alla quale è rimasta fedele tutta la vita, secondo cui la sola ragion d'essere della politica è la libertà, e suo compito è produrre situazioni che ne allarghino gli spazi, cioè produrre istituzioni e corpi politici "che garantiscano lo spazio entro cui la libertà può manifestarsi"; la politica fallisce invece allorquando per scelta o costrizione sia portata a deviare da questa strada. Di qui il giudizio sul sostanziale fallimento delle due rivoluzioni francese e russa e sulla sostanziale riuscita della rivoluzione americana, la prima delle rivoluzioni moderne. Il senso profondo del libro sta nella coraggiosa rivendicazione dell'autonomia della politica (e, in polemica con Marx, del primato del pensiero), nel suo martellante richiamo alla responsabilizzazione individuale e alla socializzazione, ma istituzionalizzata, del potere, spinta fin quasi a toccare i confini di un antistatalismo libertario, nella perseveranza a individuare e combattere il mito ricorrente della violenza, la cui inevitabile conclusione è stata ogni volta il terrore, la deviazione e la fine della rivoluzione, la disfatta in primo luogo degli ideali in nome dei quali era stata iniziata.
Proseguendo le ricerche di filosofia morale, iniziate con il volume Quale impostazione per la filosofia morale? (Roma 1996), l’Autore intende ora investigare quale sia l’oggetto e quali i compiti ed i procedimenti della filosofia morale, in modo coerente con l’impostazione già proposta. A tale scopo studia approfonditamente il rapporto tra la filosofia morale e l’esperienza morale prefilosofica.
Discute dapprima varie difficoltà che si frappongono all’intento di costruire la filosofia morale a partire dall’esperienza morale. Poi apre una via nuova per reperire un’esperienza morale universale. Procedendo ad un confronto dialettico fra alcune esperienze morali particolari (quella pagana greco-romana, quella cristiana cattolica e quella moderna), difende la convenienza di partire dall’esperienza morale cristiana cattolica; più precisamente cerca di stabilire quale sia l’esperienza morale naturale, universale, integra, che la Rivelazione cristiana suppone ed opera nei suoi destinatari. L’Autore spiega a questo punto come vada articolata la filosofia morale affinché risulti adeguata all’esperienza morale integra e risulti anche coerente con l’impostazione che aveva già proposto.
Poiché la determinazione dell’oggetto, dei compiti e dei procedimenti della filosofia morale dipende dalla risposta alla questione se si dia o no la conoscenza morale, che cosa essa conosca ed a quali condizioni essa sia vera o falsa, l’Autore procede ad un confronto dialettico con le posizioni di epistemologia morale dell’ultimo secolo, per rivendicare la conoscenza morale, il suo oggetto e la sua verità quali appaiono nell’esperienza morale integra.
L’Autore può allora spiegare la costituzione epistemica della filosofia morale. Le assegna come oggetto l’atto virtuoso da praticare, atto reso virtuoso dal fatto di essere ordinato secondo l’ordo rationis stabilito dalla ragione pratica. Della conoscenza morale esercitata nell’atto virtuoso dall’attore umano la filosofia morale, in quanto è filosofia pratica, ha il compito di reperire i princìpi noetici ed operativi e di sviluppare la loro applicazione all’operabile umano particolare. Inoltre l’Autore dà ragione delle connessioni che la filosofia morale ha con la Rivelazione cristiana e con la teologia (spiegando in qual modo la filosofia morale possa essere cristiana), con le altre discipline filosofiche e con le scienze umane.
Nello spiegare la costituzione epistemica della filosofia morale l’Autore s’avvale del pensiero di san Tommaso d’Aquino, argomentando a favore della pertinenza di recepirlo e di svilupparlo nel confronto con le filosofie morali moderne. Ne risulta una nuova giustificazione della principalità delle virtù nella filosofia morale.
In questo piccolo libro, Étienne Gilson (1884-1978), filosofo cattolico neotomista si occupa di due autori apparentemente lontanissimi dal suo campo di indagine: François Villon, il poeta francese del Quattrocento autore della celeberrima Ballata degli impiccati, ladro, malfattore, bandito, per lo più ritenuto ateo; e François Rabelais, l'autore del Gargantua e Pantagruele, letto generalmente come pre-libertino, carnale, pagano e mondano, fastidito dalla teologia proprio a causa del suo passato di frate francescano. «Bisognerebbe mettersi nelle condizioni di comprendere i testi, prima di commentarli». Sulla base di questo principio, Gilson smonta queste immagini semplificate dimostrando la familiarità di Villon e Rabelais con la Bibbia, la patristica e il lessico filosofico medievale, il che dà ancora più forza alla posizione di eccentricità scelta dai due scrittori. Basta leggere il Gargantua, dice Gilson, grattare appena la superficie delle parole e delle locuzioni, per trovarvi la ripresa di luoghi biblici e teologici, così familiari all'orecchio dell'uomo medievale, da non poter sfuggire nemmeno al più distratto dei commentatori. È una lettura che fa giustizia di tanti facili alibi storiografici, come la "frammentazione postmoderna". Non ci sono frammenti se non dove non si ha voglia di raccoglierli: questa è la sostanza del monito di Gilson, a suo modo progressivo e, nel nostro tempo, anche costruttivamente eretico.
Cos'è la morte - la morte di tutti e di ciascuno, la morte di sempre e quella marcata dai segni inquietanti del nostro tempo? Come penetrare in un evento tanto decisivo da incidere in profondo la nostra esistenza eppure tanto opaco da mettere in scacco ogni sapere volto a rappresentarlo? Sono queste le domande, brucianti ed estreme, che alla fine degli anni Cinquanta, a pochi anni dalla più grande apocalisse dell'epoca moderna, si poneva Vladimir Jankélévitch in un libro che giustamente Lévinas ebbe a definire "sconvolgente". Sconvolgente per la radicalità con cui egli decostruisce tutti i dispositivi immunitari elaborati dal sapere occidentale nei confronti dell'Irriducibile; ma anche per l'acutezza di uno sguardo, affilato e obliquo, che taglia in maniera trasversale le grandi interrogazioni sulla morte, all'epoca affrontate da Heidegger e da Freud, da Blanchot e da Foucault, ma già prima da scrittori come Tolstoj e Rilke. All'interno di un grande scenario teorico, che spazia dall'antichità ai nostri giorni, la riflessione jankélévitchiana rivela una sorprendente attualità.