
Le barzellette sull’Aldilà
che spiegano l’Aldiqua
Un uomo cade in un burrone e si aggrappa per un pelo a
una radice sporgente. Disperato, grida con le forze che
gli restano: “C’è nessuno lassù che possa salvarmi?”.
Il cielo si apre e in un raggio di luce gli parla una voce
di tuono: “Sono il Signore Dio tuo. Lascia la radice e
ti salverò”. L’uomo ci pensa un attimo poi grida: “C’è
qualcun altro?”.
I cani vanno in Cielo? È possibile che il fantasma di mia zia infesti il mio frigorifero? Perché l’ippopotamo morto lo stesso giorno di Heidegger è stato fortunato? Dalla natura dell’Inferno all’immortalità dell’anima (e dei dolci natalizi) Cathcart e Klein si cimentano con i nostri millenari interrogativi sulla vita e sulla morte e dimostrano che la filosofia non è poi così incomprensibile. E l’Aldilà nemmeno.
Nel mondo del Ventunesimo secolo sono esplose tensioni forse tra le più laceranti della storia: il contrasto tra la globalizzazione, e la crisi economica che ne è conseguita, e le istanze locali delle forze del passato; le migrazioni delle masse di poveri che premono alle porte del ricco Occidente; lo scontro tra le forme della cultura e la tradizione occidentale, che sino a poco tempo fa poteva considerarsi dominante, e il terrorismo di matrice islamica. A questi problemi la politica non è in grado di offrire soluzioni efficaci: non sul piano internazionale, dove ogni forma di cooperazione tra Stati viene messa in seria discussione, né all'interno dei singoli Paesi, dove ha ceduto all'economia la gestione della società, limitandosi a garantire il funzionamento del mercato. In relazione a questo quadro Emanuele Severino riprende e sviluppa qui temi a lui cari come il rapporto tra politica, tecnica e filosofia e propone una chiave di lettura per smascherare il significato profondo della volontà di disfarsi di quella adesione alla verità assoluta che il tempo presente vuole abbandonare. In questo processo il capitalismo, per trionfare sui propri nemici, dopo aver emarginato la politica, deve sfruttare a fondo le potenzialità della tecnica, la quale è divenuta sempre più forte e ora da serva si sta trasformando in padrona, svuotando il capitalismo del suo scopo e conducendolo quindi alla morte. Quello che oggi ci pare uno scontro epocale tra valori è in realtà soltanto l'espressione di una battaglia di retroguardia, tra le diverse "verità" che intendono piegare il mondo alla loro visione ma che in realtà sono tutte destinate a essere sconfitte dall'avvento della tecnica, che potrà compiersi pienamente solo quando quest'ultima potrà godere del sostegno della filosofia e raggiungere il proprio scopo: realizzare tutto quanto è possibile.
Uno strumento d’accesso allo studio della Dissertazione di Kierkegaard per il Dottorato, Del concetto di ironia... (1841), certo la meno nota delle di lui opere pubbliche, sia per la molto tarda fortuna già in Danimarca (dopo il 1924), forse perché ritenuta mero prodotto accademico, e già così contravvenendo ai postulati di quei primi critici positivisti, sia, precisamente, quanto al suo contenuto, innanzi tutto per il «discredito» che sembrerebbe portare appunto sul ricco resto di quelle opere già l’uso in essa delle fonti antiche riguardo all’interpretazione di Socrate come «ironia», privilegiandovisi Aristofane piuttosto che Senofonte e Platone... Di necessità, allora, innanzi tutto ricostruire essenzialmente le tracce di «ironia» nel mondo greco, le ragioni della sua successiva dimenticanza, della sua riscoperta solo tra i Romantici tedeschi, nonché, e però insieme, quelle dello stesso rapporto di «ironia» con Socrate, ed arrivare in tal modo allo scritto kierkegaardiano il quale, presa questa «ironia» nel suo costituirsi in concetto, ha manifestamente l’intento di svolgere un’analisi di questo rapporto nella compiutezza teoretica. Ma anche di necessità, oggettivamente, come si dice, incontrare alcuni argomenti decisivi per le sorti stesse della «filosofia», almeno a quel tempo, al momento della sua celebre crisi dopo l’Idealismo, dunque il Teorema d’Immanenza, la struttura della dialettica, il problema di che cosa questa sia; e per contro, soggettivamente, assistere al prepararsi ad affrontarli da parte di quel giovane studiosissimo, mediante un programma innanzi tutto stilistico-espressivo volto alle condizioni primigenie della «filosofia» come «filosofia», e magari, al modo in cui si crederà nella pur sempre scarsa recente letteratura, per ciò in lotta con il suo Cristianesimo, nonché, al modo in cui si crederà in aggiunta, arrivando egli, alfine, con la maturità degli anni, ad un «fondamentalismo cristiano» escludente non solo della «filosofia» ma dell’uomo. È sicuro però che, già all’attuazione di quel programma stilistico con la Dissertazione, l’Università avrebbe subito richiuso le sue porte alle spalle di quel giovane appena proclamato Magister.
Lo strumento viene così, più in generale, a proporsi, e almeno nel fatto, siccome osa sperarlo il suo autore, per accesso istituzionale giusto a Kierkegaard.
GLI AUTORI
Alessandro Cortese (Milano 1940) insegna Istituzioni di Filosofia presso l'Università di Trieste. Si è dedicato in particolare allo studio del pensiero di Vincenzo Gioberti e di Søren Kierkegaard, di cui ha curato l'edizione italiana di Enten-Eller (Adelphi 1976-1989). Per Marietti sta curando una Collezione di Carte personali e Opere pubbliche di Søren Kierkegaard (1831-1843), della quale sono già a disposizione il n. 5, Due discorsi edificanti del maggio 1843 (2000), e il n. 1 f.s., “L’attrice” di Inter et Inter (2002).
Un giorno, correva l’anno 1960, il filosofo Augusto Del Noce ospitò nel suo studio di Torino un giovane; i due passeggiarono tra pile di fogli dattiloscritti, sparsi sul pavimento secondo un criterio concettuale: erano le bozze del libro di Del Noce Il problema dell’ateismo. In seguito a quell’incontro, il giovane, che faceva l’operaio tessile in periferia, ebbe conferma della sua vocazione alla filosofia, cioè alla “ricerca della verità attraverso la storia”. Stiamo parlando di Mario Marcolla il quale, pur continuando per tutta la vita a lavorare in fabbrica, verso la fine degli anni Sessanta arrivò a firmare articoli sulle pagine dell’«Osservatore Romano», meritandosi la gratitudine di papa Paolo VI. Poco dopo, fu tra gli animatori della famosa collana editoriale Rusconi, tramite la quale fece conoscere filosofi come Voegelin e Cochin. L’amicizia fu il segno distintivo del suo modo di fare: prima con pensatori del calibro di Samek Lodovici, Principe e Quadrelli; poi collaborando al settimanale «Il Sabato». Fu per merito suo che in Italia si legge la scrittrice statunitense Flannery O’Connor. Marcolla desiderava infatti sapere nella verità: ecco il perché degli appassionati studi di politica, teologia, sociologia. Il titolo di questa raccolta fu deciso da lui nel momento in cui si mise a guardare la propria vita, per offrire un radicamento “filosofico” (cioè pieno di ragione) nel tempo presente. Prefazione di Luigi Negri Postfazione e cura di Andrea Sciffo
Questi sono gli ultimi colloqui con Hans-Georg Gadamer annotati nell’agosto, nel settembre e nel dicembre 2001, quindi pochi mesi prima della sua morte. Il colloquio aperto con Silvio Vietta inizia con la domanda sulla valutazione del Moderno nella storia occidentale e del connesso problema se una possibile nuova costruzione biologica dell’uomo potrebbe mutare i fondamentali parametri ermeneutici della comprensione umana. Gadamer parla più volte e dettagliatamente del suo maestro Heidegger, e lo fa riconoscendone la lezione, ma anche non risparmiandogli critiche severe. I ricordi di Gadamer riportano alla luce nella nostra vita interiore i più importanti influssi storico-culturali della sua biografia filosofica, che ha abbracciato tutto il XX secolo. Passaggi centrali di questi colloqui affrontano il significato delle arti nel Moderno. L’arte moderna, con la sua problematica interpretazione, costituisce un caso particolare dell’ermeneutica moderna? Le ultime riflessioni di Gadamer girano intorno a Nietzsche e alla forma frammentaria del suo pensiero come orientamento per un futuro metodo ermeneutico. Ma questi colloqui offrono anche molti episodi illustrativi e frammenti di memoria di uno dei grandi saggi del Novecento.
GLI AUTORI
Hans Georg Gadamer (Marburgo 1900), allievo di Natorp prima e di Heidegger poi, docente di filosofia a Lipsia, a Francoforte e infine a Heidelberg, è autore di numerosissime pubblicazioni ora raccolte nei Gesammelte Werke presso l'editore Mohr di Tübingen.
L’incontro con la bellezza può lasciarci incolumi? La sua gioia novella può sbocciare senza frantumare all'istante dentro di noi ciò che era troppo vecchio per lei, attraverso quella ferita che solo l’invulnerabile sa infliggere? La sua sovrabbondanza su tutti i nostri possibili annuncia nella prossimità l’offerta della lontananza. Ciò che ci afferra resta inafferrabile e, come per altri, lo è tanto più quanto più si avvicina. Così Platone fa dello sgomento il primo regalo della bellezza, mentre per Dostoevskij e Rilke essa altro non è che l’inizio del terribile. Questa gioia dolorosa, smisurata come ogni amore, è la dimensione dimenticata dall’estetica, che la relega nel sublime, distinta dal bello. Il saggio, indaga lo choc provocato dall’incontro con la bellezza quando essa si manifesta all’uomo. L’uomo ne resta trafitto, sgomento, cambiato irrimediabilmente, ma tale ferita lo rivela a se stesso, aprendolo a ciò che lo eccede. Colpito da questa gioia dolorosa, l’uomo non può che celebrare la bellezza. Nel saggio vi è un’indagine quasi carnale e corporea dell’incontro, dell’abbraccio, della rivelazione dell’Essere, considerato l’evento nel quale l’uomo è attratto dalla bellezza e ne esce sublimato e sgomento.
Un libro costruito intorno alla parola "silenzio" e ai mille preziosi modi in cui questa dimensione incrocia l'esperienza di ciascuno. Un libro per riscoprire il silenzio e imparare a praticarlo, per ritrovare un ascolto profondo e una parola vera sul mondo e sulla nostra vita.
L’empatia è l’altro nome della relazione, un aprirsi all’altro che dischiude il senso pieno della nostra umanità, oltre la solitudine e l’indifferenza. E questo stesso libro diventa occasione, per il lettore, di empatia con l’autrice e la sua preziosa riflessione. «Se c'è una parola perfettamente a suo agio davanti allo specchio, questa è proprio empatia. Lo specchio restituisce un'immagine riflessa, la mia immagine, che tuttavia non sono io».
PATRIZIA MANGANARO, docente di storia della filosofia contemporanea presso la Pontificia Università Lateranense, dedica la sua attività di ricerca al legame tra filosofia e scienze cognitive da un lato, e al nesso tra fenomenologia, teologia e mistica dall’altro. Autrice di Filosofia della mistica (Lateran University Press 2008), con Angela Ales Bello ha curato Le religioni del Mediterraneo (Mimesis 2008) e …e la coscienza? Fenomenologia, psicopatologia, neuroscienze (Edizioni Giuseppe Laterza 2012).
La "grande domanda" sul senso della vita di ogni uomo e di ogni donna, della storia umana e dell'universo intero è ineludibile e interseca quella sull'esistenza di Dio di fronte allo scandalo del male innocente. Siamo "assediati" dall'esigenza di rispondervi, «il che spiega - scrive Norberto Bobbio - la forza della religione». Lo hanno fatto grandi autori classici e contemporanei - da Pascal a Kant, da Kierkegaard a Wittgenstein - e queste pagine sono una più estesa articolazione delle loro riflessioni. Sulle "cose più alte" la scienza tace e la filosofia pone solo domande, senza risposte ultime. Siamo quindi costretti a scegliere tra l'assurdo e la speranza. È in questo preciso senso che siamo tutti fideisti.
Questo saggio, pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nel 1970, può essere considerato il momento conclusivo del percorso di Roman Ingarden, il più noto esponente polacco della tradizione fenomenologica. Compaiono infatti, in modo più o meno esplicito, diverse nozioni fondamentali già elaborate dal filosofo, che costituiscono lo sfondo su cui si mentali innesta la trattazione di un argomento di inesauribile attualità e nevralgico per la caratterizzazione dell'essere-uomo. Che cosa significa decidere co e agire responsabilmente? Esistono alcuni presupposti imprescindibili affinché ciò sia possibile? L'esito della riflessione di Ingarden mette in stretta relazione il darsi della responsabilità umana con alcuni concetti chiave: i valori, la persona, l'identità, la libertà, il tempo.
In concomitanza con le numerose crisi degli ultimi anni, gli appelli alla "solidarietà" nella sfera pubblica si sono moltiplicati e il valore dell'aiuto reciproco e della condivisione di risorse e rischi è stato ampiamente riscoperto e riattualizzato, anche con relativo successo. Eppure, l'idea di solidarietà risulta ancora ostaggio di una cattiva retorica che rende il suo richiamo innocuo e generico. Sorta nel lessico giuridico latino, sostituto moderno degli antichi legami di fraternità ed erede della Rivoluzione francese e di quella industriale, essa è sin dall'inizio concepita come risposta concreta - fondata essenzialmente sul riconoscimento di un'interdipendenza - a contraddizioni e palesi ingiustizie, così come ai problemi di integrazione sociale. Il libro ripercorre le principali tappe storico-filosofiche di un concetto in parte sottostimato e dimenticato dalla più ampia riflessione sulla giustizia, contribuendo a riscoprirne i caratteri più distintivi (primi fra tutti: reciprocità e orizzontalità) e la sua importanza decisiva sul piano politico e morale. Il testo si misura anche con le sfide e i problemi che riguardano la solidarietà europea e le prospettive di mutuo supporto su scala globale.

