
Dalla più antica redazione conosciuta, la parabola della perla caduta nella notte, contenuta in un dialogo tra Timoteo I e al-Mahdī nella Baghdad del secolo VIII, alla terza novella della prima giornata del Decameron, fino al dramma teatrale illuminista Nathan il Saggio di Lessing, i racconti degli anelli, migrando tra Oriente e Occidente, trasformandosi, varcando confini identitari, ridisegnando mappe geopolitiche, schiudono nelle religioni del Libro - Ebraismo, Cristianesimo, Islam - un elemento di perturbante problematicità. Si tratta della 'lacuna' segnata dall'anello autentico confuso tra copie fatte forgiare da un buon padre - così nella versione di Boccaccio - per non mortificare nessuno dei tre figli, ugualmente amati, il cui esito è l'indistinguibilità del gioiello originale, il dubbio su chi lo possegga e sul luogo in cui rinvenirlo. È il 'vuoto' che, sospendendo la pretesa di un'origine esclusiva, ricorda alle religioni la vanità di ogni chiusura e intolleranza.
«Il difficile non è concepire l'immortalità, ma la morte»: così, in un quadernetto di appunti risalenti agli anni 1909-1910, mai consegnato alle stampe, Gentile annotava il suo turbamento circa quelle che possono essere annoverate tra le questioni più decisive dell'attualismo. Decisive non tanto perché particolarmente ricorrenti - la prima trattazione sistematica dedicata al tema della morte e dell'immortalità non vedrà la luce che nel 1916 -, bensì per il carattere profondamente controverso che le contraddistingue. Ed è proprio per la «difficoltà e astruseria di questo problema», come lo definisce nel 1920, che il filosofo vi si impegnò, privatamente, più di quanto non si potrebbe forse presagire considerando esclusivamente i suoi scritti editi. Alla serie di appunti volti a perlustrare i concetti di morte e immortalità si è ritenuto opportuno affiancarne, inoltre, degli altri che, concernenti il valore dell'"individuo", la natura del "carattere", o, ancora, il "concetto di filosofia definitiva", occorrono ad approfondire, secondo un altro rispetto, il senso della medesima inquietudine speculativa. La pubblicazione di questo tomo, pertanto, si propone di consegnare al lettore un ulteriore strumento ermeneutico, che, collaterale ma non secondario, consenta l'accesso ad uno dei temi più incisivi nello sviluppo dell'attualismo: la meditatio mortis.
L'atto di fede nella rivelazione cristiana si presenta con le caratteristiche comuni a ogni atto di fede, ossia all’assenso che un soggetto possa dare a un oggetto di conoscenza per lui inaccessibile, grazie alla testimonianza di un altro soggetto: si tratta dunque delle caratteristiche epistemiche proprie di una conoscenza certa di qualcosa, ottenuta non direttamente (con l'esperienza o con il ragionamento) ma indirettamente, sulla base di una trasmissione di conoscenze da parte di testimoni qualificati, la cui testimonianza sia stata previamente verificata nella sua attendibilità.
In questo senso, l'analisi filosofica della fede nella Rivelazione, svolta in questo trattato, farà parte di un discorso più ampio, che è il discorso propriamente epistemico circa le condizioni di possibilità della conoscenza per fede in generale (e li si dovrà parlare della conoscenza storica, della conoscenza dell'interiorità altrui, degli accertamenti giudiziari, dell’educazione e dell'informazione).
Si tratta della prima traduzione italiana di un testo fondamentale per la storia dei battisti: un'opera del 1612 scritta da Thomas Helwys che, con John Smyth e un gruppo di esiliati inglesi in Olanda, fondò la prima chiesa battista ad Amsterdam nel 1609. Helwys, tornato in Inghilterra, si stabilì a Spitalfields, a Nord di Londra, dove nel 1612 nacque la prima chiesa di battisti generali su suolo inglese. Questa opera è una sorta di appello a Re Giacomo I e al Parlamento inglese per chiedere la libertà di coscienza e il diritto di praticare la propria religione per tutti i sudditi del Re. Per la prima volta con questo scritto si invoca la libertà di religione e di coscienza per tutti gli esseri umani. Si tratta, dunque, di un documento fondamentale per una serie di tematiche che occuperanno il pensiero e la cultura occidentali.
Il testo è un saggio filosofico che riflette su un aspetto poco studiato di Martin Heidegger: i rapporti tra esperienza filosofica e fede religiosa. Coniugando sguardo biografico e punto di vista teologico, questo lavoro interpreta la possibilità di una filosofia cristiana e di una teologia che, dopo Heidegger, sia capace di andare oltre la crisi della postmodernità.
Il nostro tempo ha negato la tensione di ogni uomo verso qualcosa di più grande, e forse di irraggiungibile, sostituendola con una cultura degradata e ristretta dove i diritti universali sono privi di concretezza e la libertà è intesa come semplice cancellazione di qualsiasi dovere. Ancora più dei diritti, sono invece proprio i doveri, verso se stessi e verso gli altri, ad ancorare l’uomo alla realtà e alla società in cui vive, evitando il rischio di sentirsi sradicati e in balia degli eventi. Secondo Simone Weil, voce inascoltata e profetica del XX secolo, interessarsi davvero del destino dell’uomo significa, quindi, prima di tutto aggrapparsi saldamente e rimanere fedeli alle proprie radici. Potrebbe sembrare un banale richiamo alle tradizioni; invece non è così, perché le radici dell’uomo hanno origine oltre la sfera temporale, nell’eterno e umanissimo desiderio di verità e di bene.
Come è stato possibile l'Olocausto? Come "spiegare" razionalmente ciò che sembra eccedere ogni misura razionale? Si situa in questo contesto problematico l'incontro di Hannah Arendt con Franz Kafka. Storicamente documentato da una conferenza tenuta nel 1944 a Mount Holykoke, a pochi mesi dalla fine della seconda guerra mondiale, e dalla scoperta della tragedia del genocidio, il rapporto con lo scrittore praghese si rivela essere cruciale nel progetto teorico perseguito da Arendt. Secondo la filosofa, Kafka ha compreso fino in fondo - ed espresso mediante parabole - un assunto che ella aveva condiviso, attraverso un'adesione non solo intellettuale, ma anche psicologica ed emotiva. Aveva individuato nell'uomo, nell'enigma dell'uomo, nell'imperscrutabilità della sua essenza più profonda, negli abissi di quello che è destinato comunque a restare un mistero, l'origine del male, in tutte le sue manifestazioni individuali e sociali. Kafka è "pensatore politico" - come Arendt lo definisce - proprio perché è la guida più affidabile per esplorare gli intrecci che connettono etica e politica, e che ritrovano nell'individuo la radice delle forme politiche.
Il Logos di cui parla il prologo del vangelo di Giovanni è un unicum che si offre ancora oggi all'indagine e allo studio della ricerca teologica: esso si inserisce infatti nel contesto filosofico ellenistico del periodo neotestamentario ma allo stesso tempo si carica di interpretazioni e collegamenti nuovi per la sua relazione con la scrittura e la realtà religiosa del popolo ebraico (pur superandole). Per questo è utile ripercorrere la storia della filosofia e l'analisi delle varie scuole di pensiero per coglierne tratti comuni ma anche di rottura rispetto al passato. Un taglio totalmente differente lo imprime invece l'esegesi teoretico-speculativa di Antonio Rosmini, posta in chiusura di volume.
In questo saggio Michel Maffesoli si propone di decifrare quella che chiama "religiosità postmoderna". Un percorso le cui tappe scandiscono il ritorno del sacrale: la riabilitazione dei sensi e della ragione sensibile, l'importanza della condivisione, del mistero, dell'iniziazione - ma anche il necessario ancoraggio alla tradizione. E' così che le figure cattoliche della Trinità o della comunione dei santi rappresentano per il pensatore delle "tribù" le metafore più adatte all'immaginario contemporaneo del sacro. Un saggio profondo, che offre al lettore non un ritorno alla religione tradizionale come istituzione e dogmatismo, ma una vera e propria rinascita del cattolicesimo ed una comprensione emotiva della trascendenza.