
Lo spazio e il tempo sono oggi scossi dalla scienza e dalla tecnologia e l'incontro fra i popoli e le loro tradizioni si fa sempre più problematico creando scontri di civiltà e problemi di convivenza. Si è tanto sofferto per i fanatismi politici, religiosi e culturali, che siamo legittimamente assetati di una comprensione universale. Un tipico esempio di questa mentalità è la sindrome del villaggio globale. Per nobile che sia l'intenzione, rimane pur sempre il risultato della mentalità colonialista. Eppure c'è sete di vera comprensione: «Non possiamo vivere in un mondo a compartimenti. L'altro diviene un problema proprio perché invade la mia vita ed è irriducibile al mio modo di vedere. Se un estremo è pensare che noi siamo nel giusto e gli altri in errore, l'altro estremo è ritenere che siamo tutti adatti per un tipo di villaggio globale». Fra questi due estremi, emergono sempre più le parole pluralismo e interculturalità a rappresentare un terzo atteggiamento, fondamento di una comprensione universale. Interculturalità non significa relativismo culturale (una cultura vale l'altra), né frammentazione della natura umana. Il rispetto della dignità umana esige il rispetto culturale, inscindibile da una mutua conoscenza - senza la quale cadremmo nella tentazione di imporre la nostra cultura a modello della convivenza umana. La proliferazione degli studi sulla pace e delle associazioni per promuoverla apre alla speranza la nostra epoca e il dialogo tra culture, civiltà e religioni è un segno positivo del nostro tempo. Attraverso questo libro, l'autore insiste sulla necessità di superare le dicotomie imposte dal genio classificatore dell'Occidente per chiarire ogni tipo di problematica. Superare non significa annullare le differenze, ma trascendere il pensiero analitico, non con una mera sintesi, ma con un pensiero olistico, che tenga conto dell'indispensabile pluralità delle culture.
Questo primo tomo del vol. IX è articolato in tre sezioni, che trattano del mito, del simbolo e del culto (il secondo tomo sarà dedicato alla fede e alla sua interpretazione per mezzo delle parole). Col termine mito oggi spesso s'intende qualcosa di irreale o semplicemente una leggenda più o meno fantastica. Con la parola mythos, invece, io intendo quello che tradizionalmente significava, vale a dire un modo diverso che gli uomini hanno di esprimere una convinzione, o piuttosto una verità che non è necessariamente «chiara e distinta» alla ragione e che, ciò nonostante, si accetta come ovvia e quindi non ha bisogno di essere dimostrata. La prima sezione comincia con una descrizione della relazione tra mythos e tolleranza e del rapporto tra lo stesso mito e il problema della morale. Seguono tre studi di tipo generale sul senso del mythos e la sua relazione con la parola e quindi anche con la teologia, come sarà illustrato dai quattro mythoi indiani (i miti di Prajapati, Vunahsépa, Yama e il mito dell'incesto), che riguardano la creazione, la colpa, la redenzione, l'uomo e la condizione umana, il recupero dell'innocenza e la sessualità. Il messaggio di questi mythoi non può essere trasmesso con una riflessione esclusivamente razionale, ma con metafore e simboli, avvalendosi della parola come tramite del logos. L'uomo non è dunque riducibile all'individuo e nemmeno a un semplice concetto e il mezzo più potente che ha per avvicinarsi alla realtà e ai suoi simili è il simbolo. Nella seconda sezione, dopo alcune riflessioni generali su che cosa sia il simbolo, portiamo ad esempio una parola fondamentale in Oriente, spesso fraintesa: karman, parola che, ridotta a concetto, risulta vulnerabile alla ragione. Se il simbolo del karman è prevalente nella metà delle culture, la metafora della goccia d'acqua, come simbolo della condizione di ogni esistenza, inclusa quella umana, è pressoché universale. La terza sezione è costituita da un testo, la cui scrittura risale al 1973, incentrato sul culto non in quanto cerimonia, ma in quanto espressione dell'homo religiosus, non come funzione, ma come attività che l'uomo compie in comunione con il cosmo per il sostentamento dell'universo. La secolarità, cioè l'interesse per ciò che è secolare, è stata troppo spesso considerata in molte tradizioni ostacolo alla vita spirituale. Il pro-fano (davanti al fanum, luogo sacro) è in opposizione al sacro, ma non al secolare, che può essere vissuto nella sua sacralità.
Questo volume è dedicato alla secolarità definita «sacra» perché rappresenta lo stile di vita cui siamo chiamati, superando la dicotomia tra il sacro e il profano. Non si tratta di fuggire dal mondo, ma di trasfigurarlo - che è qualcosa di più che redimerlo: è risuscitarlo. Bisogna «trovare» il sacro e «creare» la via secolare. La scoperta della secolarità sacra ci sembra essere il catalizzatore affinché la trasformazione non sia solo un cambio d'abito, una nuova moda, ma una mutazione storica. Il compito non è facile, ma è urgente e anche affascinante. Il libro tratta vari aspetti della realtà secolare, formando un tutto armonico. La prima sezione è dedicata alla filosofia della secolarità; ne sviluppa la descrizione, analizza la sacralità del secolare e riporta alcune considerazioni sulla sfida che la secolarità rappresenta per le religioni tradizionali. La seconda è dedicata alla politica come aspetto non trascurabile della vita: l'Uomo è soma, psyche, polis e kosmos. In quanto polis, la sua appartenenza a una comunità (politica) è fondamentale. Questa sezione comprende vari articoli collegati alla sociologia che abbraccia anche la formazione universitaria. La terza sezione, dedicata alla pace, comprende due libri: Concordia e Armonia, raccolta di alcuni articoli che illustrano come la pace non possa che essere il risultato di una secolarità vissuta nella sua sacralità, e Pace e disarmo culturale. La sezione termina infine con alcuni scritti sull'ecosofia che, come dice la parola, è la saggezza della Terra che siamo invitati ad ascoltare e con la quale fare pace. L'invito alla pace, traguardo per la vita armoniosa dei diversi popoli sulla Terra, è un obiettivo che può essere raggiunto individualmente superando l'ego e collettivamente accettando la pluralità delle culture e tradizioni, senza che nessuna di esse pretenda di prevaricare imponendo una sola economia, una sola politica, una sola religione... Non è forse la varietà il dono più bello che possiamo riscontrare anche nella natura, e a maggior ragione tra i popoli?
Per Pannikar la mancanza di una vita simbolica è la più grande lacuna delle nostre società. L'uomo è menomato, non ha ponti con il senso del vivere quotidiano e con l'infinito. L'uomo riconosce il simbolo anzitutto nella natura. Il Kailash è la montagna sacra degli induisti e di altre religioni; è l'eccellenza, il simbolo che unisce l'uomo al cielo e al destino. Panikkar stesso, in tarda età e a rischio della sua stessa vita, ha compiuto un pellegrinaggio al Kailash, nell'attuale Tibet. L'uomo riconosce i simboli nella natura (montagne, alberi, fuoco, acqua), e ne costruisce con le proprie mani, ha l'arte del simbolo per creare i ponti con il significato. L'uomo simbolico diviene uomo artista, da lui nascono immagini, costruzioni, miniature, architetture, musiche. Viva, che danzando crea l'universo simboleggiato da un cerchio da cui brillano dei fuochi, è una delle immagini più coinvolgenti dell'umanità. Dai grandi templi dell'India scavati nella roccia alle guglie della Sagrada Familia del catalano Gaudí, conterraneo di Panikkar, l'arte è fonte e veicolo di simboli. Per la prima volta vengono raccolti gli scritti di Raimon Panikkar sul simbolo insieme con le immagini che permettono di contemplare quanto espresso dalla sua parola.
Con il titolo Pensiero filosofico e teologico, Raimon Panikkar non intende avallare la dicotomia moderna fra filosofia e teologia , ma trascenderla. La teologia contemporanea non può sottrarsi alle congetture della critica moderna e, nel momento in cui diventa critica, deve essa stessa necessariamente avvicinarsi alla riflessione teologica. Per quanto la "fede" sia sovrarazionale, è l'intelletto umano che la accoglie, la manipola e l'interpreta. In altre parole, la critica della ragione teologica è ineludibile e imperativa. E questa critica non può che essere filosofica. La filosofia odierna, dopo i traumi delle due guerre mondiali, non può accontentarsi di operare solo analisi linguistiche e si trova ad affrontare problemi esistenziali che appartengono interamente all'ambito degli interessi teologici. I problemi ultimi dell'umanità, sia nell'ambito individuale che in quello politico ed ecologico, esigono soluzioni urgenti e non è corretto escludere risposte o problematiche perché non appartengono alla nostra sfera di specializzazione. Come Panikkar stesso afferma nell'Introduzione, "La filosofia è tanto la saggezza dell'amore quanto l'amore della saggezza. E un vero amore è non solo spontaneo, ma anche estatico, vale a dire non-riflessivo. Si è filosofi come si è innamorati: semplicemente capita". Il volume testimonia la ricerca amorosa dell'intera vita dell'autore, come mostrano i numerosi scritti qui riportati che coprono più di mezzo secolo.
Octavio Paz fu ambasciatore del Messico in India dal 1962 al 1968. Qui conobbe e strinse amicizia con Panikkar, come testimoniano lettere, riflessioni e appunti qui riportati. Nel libro si trova anche la trascrizione integrale di un incontro svoltosi alla televisione messicana nel 1982 sul tema «Oriente e Occidente», da cui scaturisce la forma diversa delle intelligenze dei due interlocutori, più erudita e intellettuale quella di Paz, più spirituale e propriamente religiosa quella di Panikkar. Tale aspetto riemerge nell'appassionata confessione dello scrittore contenuta in una lettera a Panikkar datata 1976, in cui descrive il proprio rapporto conflittuale con le due forme di temporalità che descrivono l'esperienza umana, quella lineare della storicità occidentale e quella circolare della spiritualità orientale, esemplificata dalla figura del sadhu. Il libro include infine un testo di Panikkar a commento del poema Vrindaban, che il poeta messicano aveva avuto modo di recitare all'amico catalano.
Questo libro non è un trattato sul buddhismo storico né sulle sue scuole, ma è centrato sul suo messaggio principale. La prima parte inizia con una riflessione sul concetto di vuoto e di pienezza nella tradizione buddhista confrontato con lo stesso concetto nelle tradizioni hindu e cristiana, continua poi con un'antica leggenda buddhista come contrapposizione alla civiltà tecnologica attuale e chiude con un capitolo più specifico sull'interpretazione del silenzio del Buddha.
La seconda parte riporta uno studio articolato, Il silenzio del Buddha, che risponde a quel modo odierno di vedere la via definito ateismo religioso che non è la semplice contrapposizione a tutte le forme più o meno surrettizie del teismo, né l'affermazione della non esistenza di Dio.
Uno dei più grandi teologi contemporanei ripercorre in questo dialogo tutti i temi salienti della sua lunga riflessione: da quelli più vicini all'attualità come l'identità religiosa, il dialogo fra le religioni e il rapporto tra scienza moderna e visione religiosa della vita, a quelli più radicali e pregnanti come il valore del silenzio e della parola, il senso del tempo e soprattutto la visione 'trinitaria' della realtà. Un dialogo vigoroso e appassionato, disseminato di alcune delle folgoranti intuizioni che hanno fatto di Panikkar uno dei più grandi maestri spirituali contemporanei, sintesi armoniosa di due culture diverse.
Oggi viviamo in un miscuglio di razze, culture e religioni, a volte così caotico che la nostra identità deve forgiarsi non solo all’interno del nostro contesto etnico, politico o religioso, ma anche sullo sfondo di altre tradizioni dell’umanità. Cristianesimo e induismo si incontrano di nuovo dopo secoli di separazione e cercano di condividere le loro rispettive esperienze. I cristiani possono vedere la meta nel futuro, gli hindu nel presente, ma entrambi la vedono nei termini della persona umana completa e realizzata. Il volume consta di due sezioni, la prima comprende uno dei libri più noti di Panikkar, Il Cristo sconosciuto dell’induismo. Il punto focale, e spesso frainteso, è l’aspetto ancora sconosciuto del Cristo, presente tanto nel cristianesimo quanto nelle altre religioni, che può quindi contribuire a una sua visione più universale. La seconda sezione è dedicata all’ecclesiologia in India come esempio di inculturazione, e descrive varie sfaccettature dell’incontro tra induismo e cristianesimo.
"Non so se il termine «pluriversalismo» compaia nei testi pubblicati da Raimon Panikkar. Io non ve l'ho trovato né ritrovato. Per contro, l'idea vi è ben presente, nell'ambito dell'analisi dell'irriducibile diversità culturale e dell'impostura rappresentata dall'universalismo occidentale. E compare in modo ancor più esplicito in espressioni attestate quali «pluriprospettivismo». Ricordo perfettamente di aver ascoltato il nostro amico denunciare quello che oggi verrebbe definito «il pensiero unico» dell'universum (un unico verso, rivolto verso l'uno) e pronunciarsi a favore di un «pluriversum», un mondo plurale nonché pluralista. «Ci si domanderà», scrive, «se ciò che occorre sia l'universitas o non, piuttosto, una pluriversitas». Fatto sta che nella maggior parte dei casi egli si accontenta di utilizzare il termine più ambiguo «pluralismo». Non si tratta tuttavia, come precisa talvolta egli stesso, di quell'innegabile pluralità de facto che caratterizza le società contemporanee, bensì di un pluralismo de iure che tanto fatica a imporsi. Con il «pluriversalismo» si tratta proprio di promuovere una «democrazia delle culture», per riprendere un'altra delle sue espressioni." (Serge Latouche)