
Fino a poco tempo fa tutte le società hanno considerato il matrimonio come una partnership coniugale, l'unione tra un uomo e una donna. "Che cos'è il matrimonio?" identifica e difende le ragioni di questo consenso storico e mostra come ridefinire il matrimonio civile non solo non sia necessario, ma anche irragionevole e contrario al bene comune. Pubblicato originariamente sull'"Harvard Journal of Law and Public Policy" (2010), è divenuto rapidamente uno dei saggi più citati nel mondo delle scienze sociali. Da allora è stato oggetto di dibattito di studiosi e attivisti in tutto il mondo come la più formidabile difesa della tradizione. Gli autori propongono una critica penetrante all'idea che l'uguaglianza richieda di ridefinire il matrimonio. Essi difendono il principio che il matrimonio, come unione di corpo e spirito ordinato alla vita famigliare, lega l'uomo e la donna come marito e moglie, e mostrano come esso sia non un bene privato e individuale, ma un bene pubblico capace di garantire spazi di libertà ai cittadini. Senza il concorso di questi fattori costitutivi del matrimonio, si finisce per riconoscere le più svariate forme di unione sessuale, erodendo l'istituto matrimoniale e danneggiando seriamente il bene comune sociale.
Viviamo in perenne mancanza di tempo. Quasi in apnea, ci affrettiamo per poter fare esperienza di tutto quello che il nostro mondo iperproduttivo ci mette davanti. Accelerare per avere più tempo è diventato l'imperativo della nostra vita. Ma questa 'epoca dell'affanno', in definitiva, ci rende ansiosi, stressati, disorientati. L'accelerazione della tecnologia e delle trasformazioni sociali non solo ha annientato lo spazio e la geografia stessa (ogni luogo è a portata di un clic o di qualche ora di aereo), ma ha atomizzato il tempo, lo ha frammentato in tanti 'attimi presenti' che si sostituiscono l'uno all'altro, che non conoscono più pause e intervalli, soglie e passaggi, e soprattutto non costruiscono più un'unica storia: la nostra. Perché questa disgregazione riguarda anche la nostra identità, che si impoverisce e si riduce, soffocata dalle proprie attività senza durata. Sono queste le riflessioni che Byung-Chul Han, il filosofo coreano che ama riflettere sull'uomo svelandone la situazione critica di fronte agli stimoli della società contemporanea, mette a fuoco in questo libro dal titolo seducente. Percorrendo in modo originale il pensiero filosofico sul tempo, da Aristotele e Tommaso a Heidegger e Arendt, passando per Hegel, Marx e Nietzsche (ma soffermandosi anche a lungo sull'opera di Proust), egli ci mette di fronte a quella che riassume come un'assolutizzazione della vita activa: la necessità di produrre (e consumare) come forma di realizzazione umana, che finisce per sottrarre all'uomo respiro e spirito. Bisogna allora riguadagnare un posto alla vita contemplativa, nella sua forma più quotidiana e vicina. Vale a dire reimparare a fermarsi, a 'indugiare': bellissimo verbo che parla di pause, di ozio meditativo, di sguardo lungo e cordiale sulle cose. In una parola, lo sguardo contemplativo restituisce al tempo il suo 'profumo', che è lento e permanente, che sa di ricordo e di memoria. Acquista allora un senso nuovo e smette di essere solo una stravagante curiosità l'orologio 'a profumo' dell'antica Cina, cui l'autore dedica pagine piene di poesia, che misura il tempo col bruciare di un profumato sigillo d'incenso: alla fine, resta un'eccedenza speciale, un aroma che riempie lo spazio, che indugia nell'aria in un momento sospeso e denso che apre alla felicità.
Una delle affermazioni più note di Kant è che ciò che contraddistingue gli uomini è la «capacità di rappresentarsi il proprio io». Da qui parte il filosofo inglese Roger Scruton nella sua appassionata difesa dell'unicità umana. Confrontandosi con la psicologia evoluzionista e l'utilitarismo e con filosofi materialisti quali Richard Dawkins e Daniel Dennett, Scruton ribatte che non si può ridurre gli esseri umani a semplici realtà biologiche che progrediscono attraverso l'adattamento e la lotteria dei geni: siamo qualcosa di più che animali umani proprio in virtù di quella nostra capacità di vederci come esseri riflessivi consapevoli di sé e profondamente immersi nella relazione con altri soggetti. Questo dato di fatto, che tutti avvertiamo, si manifesta attraverso le nostre emozioni, i nostri interessi, nel dialogo interpersonale. E fonda le nostre esperienze estetiche, il nostro senso morale, le nostre credenze religiose, grazie a cui diamo forma al mondo conferendogli un significato. Scruton sviluppa questa sua concezione della natura umana con un ricco percorso nella storia della cultura, da Platone e Averroè fino a Darwin e Wittgenstein, soffermandosi anche, come suo solito, su opere letterarie, pittoriche, musicali che hanno il dono di attivare e rendere riconoscibile la particolare autoconsapevolezza dell'io. Contro la visione distorta della scienza come 'nuova religione' e le antropologie oggi dominanti che tendono a comprimere l'originalità e l'ampiezza della nostra stessa esperienza, Scruton propone una visione della natura umana definita nella sua essenza più vera dal termine 'persona', storicamente nato per indicare una maschera che nasconde il volto, ma poi divenuto l'appellativo di un'identità che si riconosce nel tempo, un'entità morale responsabile di azioni e promesse, in un mondo condiviso dove interagiscono individui liberi che si ispirano a valori e rispondono l'uno dell'altro.
L'identità di ciascuno è attraversata dalle relazioni: alcune istituite dalle nostre scelte e azioni, altre che ci precedono, altre che semplicemente intessono la nostra storia senza che ce lo proponiamo. Il nostro essere esseri in relazione fa sì che anche l'atto libero, che esprime chi siamo, appartenga immediatamente alla pluralità umana, se ne nutra e al tempo stesso vi sia esposta. In queste dinamiche acquista una particolare importanza la questione del perdono che, nel contesto contemporaneo, è stata rimessa teoreticamente in gioco anche a partire dai grandi avvenimenti storici del ventesimo secolo. Il perdono è attraversato da una serie di paradossi: la sua necessità per liberare l'altro e la gratuità della sua realizzazione, la libertà ma anche l'irreversibilità dell'azione umana, l'inescusabilità del misfatto come condizione di possibilità del perdono stesso. Il testo indaga questa figura dell'ethos scandagliando i rapporti tra la colpa e la debolezza, tra il pentimento incapace di assolvere e il perdono in assenza di pentimento, ma anche il ruolo della sensibilità, del risentimento e della malafede, della distinzione tra malfattori e vittime insieme alla comune fragilità dell'umano. Il perdono richiede poi di indagare la struttura temporale dell'esistenza, intrecciando memoria, oblio e apertura al futuro, mantenendo traccia della storia e insieme percorrendo il sentiero di una reciproca liberazione. Proprio in quest'ottica occorre affrontare anche il nesso che intercorre tra perdono e punizione e tra perdono e giustizia, interrogandosi sulla sensatezza etica di un eventuale e paradossale dovere di perdonare. L'itinerario che qui si proponepassa attraverso il confronto con alcuni dei più acuti pensatori della contemporaneità quali Jankélévitch, Derrida, Arendt, Ricoeur, Guardini, ma anche con testimoni della storia che hanno riflettuto, con prospettive a volte diametralmente diverse, sul proprio vissuto e su alcuni degli accadimenti tragici del Novecento.
La dolcezza è un enigma difficile da identificare. È il nome di un'emozione che non sappiamo più descrivere, venuta da un tempo in cui l'umano non era separato dal resto della vita, dagli animali, dagli elementi, dalla luce, dagli spiriti. È selvatica e raffinata, come ben sa la cultura orientale, è spirituale e carnale, è una festa dei sensi alla quale il tatto, il gusto, i profumi, i suoni aprono l'accesso. Soprattutto, è una potenza, una forza simbolica di resistenza capace di trasformare la vita. In questo saggio particolarissimo, scritto all'incrocio tra filosofia e psicanalisi, Anne Dufourmantelle insegue e ripercorre le tracce della dolcezza nell'esperienza delle donne e degli uomini, dialogando con Tolstoj e Dostoevskij, passando per Flaubert e Hugo, senza dimenticare Lévinas. E arriva a toccare l'origine stessa della dolcezza, che è il nome segreto dell'infanzia, un ricordo a se stessi che inventa il futuro e che si fa potenza di relazione con l'altro, in grado di trasformare anche il dolore in creazione di una nuova promessa di sollievo e ripartenza.
DESCRIZIONE: Bernhard Welte (1906-1983) è stato il pensatore che, forse, ha preso più sul serio la sfida di Heidegger alla filosofia della religione: riproporre la domanda sul senso dell’essere oltrepassando l’orizzonte della metafisica.
Primo titolare, in Germania, della cattedra di "filosofia della religione cristiana", e per molti decenni docente all’università di Friburgo, Welte in opere come Religionsphilosophie (1978), La luce del nulla (1980), Che cosa è credere (1982) ha ripensato la tradizione cristiana svelandone nuovi possibili significati, in un’epoca dove questa tradizione a causa della secolarizzazione pare eclissarsi. Significati che – come mostra questa monografia – ruotano attorno alla categoria di "Nulla". Una parola dove – secondo un mistico come Meister Eckhart, molto amato e studiato da Welte – si celerebbe il mistero di Dio. Un mistero che può ancora offrire, all’uomo nato all’ombra del nichilismo e dell’ateismo, la luce di una speranza? In fondo, è stato questo l’impegno teoretico di Welte: scoprire i frammenti di questa luce in una filosofia della religione per non-credenti.
L'Autore ha trascorso lunghi periodi di ricerca all'estero, presso la Ludwig Universität di Friburgo, occupandosi di filosofia della religione e pubblicando su riviste specializzate. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Antropologia filosofica e attualmente collabora con le Università G. D'Annunzio di Chieti e Roma Tor Vergata.
DESCRIZIONE: Che cosa avviene quando esprimiamo un giudizio di valore, quando diciamo: «questo è bene e questo è male»? È evidente che il giudizio implica una relazione, in quanto ogni singolo, ogni ente, è di per sé moralmente indifferente; è pertanto necessario interrogarsi su questa stessa connessione, sempre particolare: con un disvalore e con un valore, con una volontà. Il tema del male, che costituisce l’argomento centrale dei due dialoghi (del 1817), funge anche da pretesto per offrire un esempio di metodologia. Da qui il confronto con la presunta cogenza argomentativa di Spinoza, con la tesi del male radicale di Kant e con il modello idealistico di Fichte nel trovare una fonte prima e ultima del male. Al vuoto formalismo kantiano di una libertà trascendentale e di un imperativo categorico astratto, Herbart oppone il proposito di individuare principi morali che, pur validi universalmente, insieme salvaguardino il particolare.
A tal fine, con tono leggero, stile limpido e sprezzante, Herbart definisce per via di separazione e distinzione cinque «idee pratiche», tutte necessarie, che starebbero a fondamento della morale per far fronte all’incognita del male: libertà interiore, perfezione, benevolenza, diritto, equità.
COMMENTO: La riflessione sul male in forma di dialoghi, scritti da uno dei maggiori filosofi e pedagogisti dell'800 tedesco.
JOHANN FRIEDRICH HERBART (1776-1841), filosofo e pedagogista tedesco allievo di Fichte a Jena, rivendicò la necessità di un ritorno a Kant per confutare l’idealismo tedesco. Tra le sue opere tradotte: La rappresentazione estetica del mondo considerata come compito fondamentale dell’educazione (Armando 1996); Pedagogia generale derivata dal fine dell’educazione (La Nuova Italia 1997); Metafisica generale con elementi di una teoria filosofica della natura. Parte sistematica (Utet 2003); Il fondamento del sistema platonico (Le Lettere 2007).
L'Ethica, l'opera di Spinoza che così profondamente ha segnato il pensiero contemporaneo, fu pubblicata postuma dai "suoi amici" proprio così come era stata lasciata per la stampa dallo stesso autore. Non è lecito chiedersi, una volta constatata la presenza di alcuni passaggi "anomali" nell'opera spinoziana, se gli stessi amici, dopo la scomparsa di Spinoza, siano intervenuti sul testo che il filosofo aveva apprestato. In altre parole, l'Ethica di Spinoza è a tutti gli effetti l'Ethica di Spinosa. Questi gli interrogativi sui quali si concentra il volume di Di Vona, scrutando l'uso delle categorie di Spinoza e sciogliendo le ambiguità mediante un'acuta analisi concettuale dei testi e un'indagine storico-filologica del pensiero spinoziano.
Traduttore dei classici dell'ermeneutica contemporanea - Schleiermacher, Heidegger, Gadamer -, Giovanni Moretto ha saputo coniugare l'arte ermeneutica in quanto dialogo tra lingue e culture altre con una perspicua definizione della disciplina, divenuta un modello di riflessione per la filosofia e per la teologia. L'interpretazione dei testi, proprio nel chiarificare i sensi reconditi delle pagine interrogate, fa rivivere l'ispirazione che ha animato quell'autore, in quanto classico del pensiero. Ispirazione che fa tutt'uno, per Moretto, con la libertà dell'atto ermeneutico: fa rivivere le tracce di universalità che solcano i testi della filosofia e della teologia in quanto mattoni della "chiesa invisibile", di cui fa parte ogni uomo che rifletta sulla propria destinazione etico-religiosa. La stessa interpretazione filosofica della Bibbia - il libro dei libri - indica dunque alla teologia e alla filosofia l'intima vocazione a non fermarsi al particolare dell'interpretazione filologica, ma a saper guardare alla totalità. Un'ermeneutica che, tenendo gli "occhi sempre e solo rivolti al tutto", con un'espressione cara a Moretto, insegna a "ben vedere".
Politica e morale paiono intrinsecamente antagoniste: un'antinomia di cui si fa carico la filosofia moderna, problematizzando la cesura fra reale e ideale. Max Schler prende le distanze sia da un approccio "monistico" ("ogni agire politico è subordinato alla legge morale individuale") sia da uno "dualistico" come quello teorizzato da Niccolò Machiavelli ("le norme morali sono indipendenti dalla politica").
L'inedito Politik und Moral (1926-1928), qui presentato e tradotto, vorrebbe essere la "quadratura del cerchio".
Quale eredità ci ha lasciato Kant? A partire dai suoi primi scritti sino alle sue opere fondamentali, si delineano qui - e vengono discussi - i concetti chiave della sua 'filosofia pratica', e i loro effetti sino a oggi: pena, (doveri verso la) natura, dignità. Categorie che, se in Kant hanno una fondazione morale, si declinano anche in senso giuridico. È il caso emblematico della pena - oggetto del primo capitolo - con riferimento alla quale Kant, al di là degli scopi che con essa si possono perseguire, è alla ricerca di un principio di giustificazione. Centrale anche il rapporto fra l'uomo e la natura, indagato nel secondo capitolo. Di fronte alle sfide dello sviluppo e dell'ambiente, alle urgenze dell'ecosistema, paiono trasformarsi gli stessi termini in gioco: le teorie etiche che coinvolgevano il soggetto-uomo si estendono ora ad altri soggetti, agli animali e al pianeta. E che ne è della dignità umana? Il terzo capitolo evidenzia che l'attuale dibattito intorno a questo principio è certamente diverso da quello verificatosi nell'immediato dopoguerra. E tuttavia, ora come allora, se non basta il semplice ritorno a Kant per risolvere i problemi, il richiamo al 'nocciolo duro' della dignità, che consiste nel considerare l'uomo come 'fine in sé', può continuare a offrire un punto cardinale per orientarsi.
Come si è differenziata la riflessione di Heidegger sul male morale rispetto alla tradizione moderna? Sul filo di questa indagine filosofica, sinora poco esplorata e qui corredata di una scelta antologica, il volume mostra l'originalità con cui Heidegger - nei suoi scritti giovanili, in Essere e tempo, fino ai Quaderni neri - elabora il problema del male nella sua dimensione ontologica, superando la classica distinzione fra male metafisico, fisico, morale. Un'analisi fenomenologica che porta a riconsiderare, e mettere in discussione, anche la grande questione di una giustificazione heideggeriana dell'antisemitismo, dai diversi punti di vista: storico, filosofico, metafisico. Confondere i piani, come giornalisticamente è accaduto, e ricondurre il tutto a un "a priori" razionalistico con cui spiegare insieme il pensiero e la vita del filosofo, non aiuta a comprendere il rapporto, osservato in queste pagine, fra teoria ed esperienza umana, capace di illuminare le sue scelte biografiche e politiche.