
Quando qualcuno ci chiede chi siamo, rispondiamo con un racconto: si chiama storytelling. Oggi questo è vero più che mai, in quanto la tecnologia – smartphone, pc, social network – ci espone – sia attivamente che passivamente – a una narrazione costante e una costante rielaborazione della nostra identità. La narrazione accompagna la nostra vita e se da un lato ci aiuta a preservare la memoria, dall’altro rischia di sostituire la realtà, di occultarla, di impedirci di vedere le cose così come sono o di frammentarla. L’efficacia del racconto era nota già al mondo antico, da Aristotele a Sant’Agostino ed è da lì – passando per Heidegger e Leopardi – che Piccolo parte in un viaggio che arriva fino a noi, uomini immersi nell’era della comunicazione globale, per raccontare l’enigma dell’identità.
«Mostra un panno rosso a un toro e questo si arrabbierà», scrive Goethe, «ma parla anche soltanto di colori a un filosofo e lo farai infuriare». I colori ci sono familiari da sempre, ma per la filosofia rappresentano da sempre una sfida, un enigma che la spinge a interrogarsi sulle sue stesse condizioni di possibilità. Che cos'è, infatti, il colore? È una proprietà degli oggetti? O la scienza moderna ci mostra invece - come sostengono molti filosofi contemporanei - che il mondo non è affatto colorato? Partendo da questa domanda, che attraversa tutta la filosofia anglo-americana degli ultimi quarant'anni, l'investigatore-filosofo seguirà le tracce del colore in fuga, cercandolo nel laboratorio del pittore (che cos'ha il colore dell'arte da insegnare al filosofo?) e nel linguaggio di tutti i giorni (la parola blu è blu?). Ne uscirà con la convinzione che, come canta in una famosa canzone Kermit la Rana (il pupazzo dei Muppets): «it's not easy being green», «non è facile essere verde» (e neppure giallo).
Affermare una teoria e vivere il contrario è una contraddizione, una menzogna, una libertà? E se un genio, maligno, animasse la produzione dei grandi pensieri? Rousseau scrive un trattato sull’educazione, non malgrado, ma grazie all’abbandono dei suoi cinque figli. Kierkegaard redige i suoi testi religiosi mentre vive da libertino. Simone de Beauvoir fonda la filosofi a del femminismo pur godendo di una relazione servile con il suo amante americano. Foucault celebra il coraggio della verità e organizza il segreto della sua malattia... Nessuna compensazione, ma scissione di un pensiero che nutre le sue idee con la forza del diniego. Chi siamo quando pensiamo? Molteplici, senza dubbio. Invece di denunciare le loro ipocrisie, François Noudelmann mostra come i grandi filosofi possano creare le loro personalità multiple grazie alle loro teorie. Analizza la menzogna più complessa, quella che si dice a se stessi, attraverso le angosce, le fughe e le metamorfosi di questi filosofi dal doppio io.
"L'originalità (cioè la produzione non imitata) della immaginazione, quando sbocca in concetti, si dice genio […] inventare qualcosa è del tutto diverso da scoprire. Infatti la cosa che si scopre, si ammette già preesistente, solo che non era conosciuta. Ora il talento di inventare si chiama genio". Immanuel Kant
Nella nozione di genio - come ingegno o talento - si intrecciano l'universale e il particolare dell'esperienza umana. Muovendo da una riflessione filologica, Giampiero Moretti delinea l'andamento dall'antichità al secolo scorso, rilevandone le oscillazioni: genio è una facoltà ce ogni uomo possiede in quanto uomo o rinvia oltre; è comune a tutti gli uomini o è unica nel singolo? Se sempre più le funzioni della mente con cui si percepisce il mondo si traducono da sensi in senso e creatività, allora il genio ha per oggetto la verità o se ne sgancia? Un motivo di fondo che attraversa la storia dell'estetica e raggiunge la sua massima tematizzazione nel '700 e '800 come categoria estetica - si pensi a Kant, ove esso destina l'arte alla sua piena autonomia.
Ma l'originalità di questo volume sta nell'attraversare i principali paradigmi estetici e al contempo trascenderli in una stabilità del concetto che ne mostra la portata teoretica. In quanto forma con cui l'uomo si accosta alla realtà, il concetto di genio investe la stessa teoria della conoscenza. Un concetto intrinseco ai nodi diffondo della storia del pensiero: il problema della soggettività e oggettività, la verità, la rappresentazione, l'immaginazione. Questioni perenni della filosofia, sulle quali l'estetica ha un suo particolare sguardo.
Il sistema economico in cui viviamo, a differenza dei regimi del passato, non pretende di essere perfetto: semplicemente nega l'esistenza di alternative. Per la prima volta il potere non manifesta le proprie qualità, ma fa vanto del proprio carattere inevitabile. Il nuovo saggio di Diego Fusaro è un colpo di frusta alla retorica della realtà come situazione immutabile, all'abitudine di prenderne atto anziché costruirne una migliore. Si impone così il principale comandamento del monoteismo del mercato: "non avrai altra società all'infuori di questa!". Il primo compito di una filosofia resistente è quindi ripensare il mondo come storia e come possibilità, creare le condizioni per cui gli uomini si riscoprano appassionati ribelli in cerca di un futuro diverso e migliore. A partire da questo pensiero in rivolta, si può combattere il fanatismo dell'economia: e, di qui, tornare a lottare in vista di una più giusta "città futura", un luogo comune di umanità in cui ciascuno sia ugualmente libero rispetto a tutti gli altri.
A un anno dalla sua scomparsa, proponiamo uno degli ultimi lavori di Emanuele Severino, dedicato allo sviluppo della scienza e della filosofia nel XX secolo. La scienza oggi intende essere la forma autentica del sapere umano e quindi la pietra di paragone cui debbono commisurarsi tutte le altre forme di conoscenza e innanzitutto la filosofia. Benché la scienza si presenti come la guida più affidabile nelle decisioni che l'uomo deve prendere e come lo strumento più efficace per risolvere i problemi sempre più complessi della vita, la sua concezione come sapere esatto, certo e dimostrabile è decaduta da tempo. Essa non è epistème ma dòxa: funziona ed è indispensabile, ma non ci dice nulla circa la verità e della nostra relazione col senso ultimo dell'essere che la filosofia può ancora avere un futuro.
Emanuele Severino (1929-2020) è annoverato tra i più importanti pensatori italiani del '900 e da molti considerato come uno dei più grandi filosofi della nostra epoca. Laureatosi a Pavia con una tesi su "Heidegger e la metafisica" nel 1948, soltanto due anni pi+ tardi ottenne la libera docenza. Nel 1954 fu chiamato a insegnare all'Università Cattolica di Milano, dove nel 1962 divenne ordinario della cattedra di Filosofia morale. Dal 1970 al 2001 è stato professore ordinario di Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Venezia, divenendone poi professore emerito, e a partire dal 2002 ha collaborato con la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, tenendo il corso di "ontologia fondamentale". E' scomparso il 17 gennaio del 2020 a Brescia, la stessa città in cui era nato.
Che cos'è in gioco nella letteratura, qual è il "fuoco" che il "racconto" ha perduto e cerca a ogni costo di ritrovare? E che cos'è la pietra filosofale che gli scrittori, con altrettanto accanimento che gli alchimisti, si sforzano di produrre nella loro fornace di parole? E che cosa, in ogni atto di creazione, ostinatamente resiste alla creazione e conferisce in questo modo all'opera la sua forza e la sua grazia? E perché la parabola è il modello segreto di ogni narrazione? Come in "Profanazioni" e "Nudità", Giorgio Agamben ha raccolto qui in dieci saggi i motivi più urgenti e attuali della sua ricerca. Come sempre nei suoi scritti, l'ostinata interrogazione del "mistero" della letteratura, perseguita anche nei suoi aspetti più materiali (la trasformazione della lettura nel passaggio dal libro allo schermo), s'intreccia con una meditazione sull'altro, più oscuro, "mistero" della modernità, etico e politico, questa volta.
Apparsa in versione integrale nel 1916, l'opera che offriamo al lettore in una nuova traduzione, accompagnata peraltro dal testo originale e da un esteso indice analitico che, in edizione italiana, restituisce la ricchezza del lessico fenomenologico (e le integrazioni editoriali apportate nel tempo al testo - fino all'ultima edizione tedesca, l'ottava), costituisce l'"opus magnum" di Max Scheler e, nell'ambito della ragione pratica, un modello di pensiero mai disgiunto dalla vita, capace di guidare, nel sentire e nei corrispondenti giudizi di valore, i nostri passi nel mondo: il nostro volere e il nostro agire. Muovendo da una concezione olistica della percezione assiologica, in linea con i più influenti orientamenti del pensiero filosofico e scientifico contemporaneo, quest'opera presenta una teoria dei valori che sfugge finalmente alla cieca alternativa del relativismo e dell'assolutismo etico e indica con precisione i criteri di correttezza dei giudizi di valore. Il volume tradisce, inoltre, l'intento più ambizioso di Scheler, quello di rifondare il classico personalismo declinandolo, appunto, nei termini di una personologia laica che, rivelando all'essere umano un possibile accesso alla propria identità personale e alla propria vocazione, tenta di strapparlo al destino. Presentazione di Roberta De Monticelli
"La sfida di una predica inculturata consiste nel trasmettere la sintesi del messaggio evangelico, non idee o valori slegati. Dove sta la tua sintesi lì sta il tuo cuore" (papa Francesco, Evangelii Gaudium, 143). Non c'è sintesi senza analisi e non c'è analisi senza sintesi, perché la sintesi è il compimento dell'analisi. Un'analisi senza sintesi è distruzione e una sintesi senza analisi è confusione. Alla scuola di Tommaso d'Aquino le due procedure si bilanciano armoniosamente. Ma se a livello dell'analisi il fondamento della speculazione tomista si trova nella dicotomia potenza-atto, a livello di sintesi il fondamento si trova nella idea di ordine. La proposta che qui si presenta è un approfondimento della visione sintetica, individuando nella nozione di causa esemplare, o meglio di exemplar, il fondamento. Con Tommaso e oltre Tommaso questa nozione viene esplorata come struttura originaria del reale.
Il fine della politica è quello di governare gli affari umani o è un compito a termine, da svolgere in un tempo intermedio, nell'attesa del mondo a venire, quando giustizia e pace regneranno per sempre? Questa domanda - la matrice stessa della «teologia politica» - è divenuta possibile quando, nella storia è apparsa la categoria giudaica di «éschaton»: l'attesa di un «mondo a venire», il pieno realizzarsi di quanto, fin dall'inizio, era stato promesso. A partire da qui, l'idea di éschaton ha segnato l'intera storia dell'Occidente e la sua filosofia politica: dal giudaismo, tramite il cristianesimo, è giunta al moderno e qui si è secolarizzata nella forma delle filosofie del progresso e delle apocalittiche rivoluzionare. Oggi l'éschaton pare giunto al tramonto: nell'odierno tempo senza fine, la storia non deve raggiungere più alcun culmine e non ci resta che governare la contingenza del mondo, portarsi all'altezza della sua improbabilità. Natoli, in questo breve e denso libro, insegue nei segni della storia i mutamenti che questo concetto centrale ha avuto nei secoli. In origine un termine spaziale, denotante i limiti remoti, i luoghi lontani che si trovano oltre il confine identitario di un territorio, l'éschaton ha assunto nel cristianesimo il suo marcato significato temporale, divenendo il punto cui tendere, il ritorno messianico, il momento nel quale il Giudizio riunirà in una sola cosa giustizia e governo. Intanto, però, nella loro attesa sulla terra, gli uomini vivono una dilatata «epoca del frattanto». È in questo limbo temporale che il governo delle cose umane deve destreggiarsi, darsi un ordinamento, prepararsi al compimento della storia. Fino a quando, nella contemporaneità, l'éschaton perde progressivamente di significato, il tempo si dilata, infinito, e il fine della politica resta la politica stessa.
Negli ultimi 2500 anni i filosofi hanno di volta in volta incarnato il ruolo del Saggio, del Curioso, dell'Asceta, del Polemico, del Mandarino e del Cortigiano. A cosa somiglierebbe dunque la storia della filosofia se fosse raccontata non come una storia di idee, bensí descrivendo tutte queste trasformazioni della figura del filosofo? Sarebbe certo qualcosa di molto diverso da quello che siamo abituati a pensare. In questo saggio arguto e stimolante, Justin Smith ridefinisce cos'è, e cosa non è, la filosofia, muovendosi liberamente tra Oriente e Occidente, dall'Europa di Aristotele, Leibniz e Nietzsche all'Arabia di al-Sidyaq, l'India di Siromani o l'America della tribú Mohawk.
Justin Smith individua sei personaggi tipo che hanno svolto il ruolo del filosofo in società molto diverse di tutto il mondo nel corso dei millenni: il Curioso, il Saggio, il Polemico, l'Asceta, il Mandarino, il Cortigiano. Il risultato è allo stesso tempo un'introduzione non convenzionale alla storia della filosofia e un'esplorazione originale di ciò che la filosofia è stata, e forse potrebbe diventare nuovamente. Attraverso casi di studi storici, inserti autobiografici e divagazioni paranarrative, l'autore individua e analizza aspetti del lavoro filosofico dimenticati o trascurati, per dimostrare quanto la filosofia sia un'attività universale, molto piú ampia e inclusiva, di quanto in genere oggi si pensi.
«Il filosofo di Justin Smith è un saggio sapiente, incisivo, scritto benissimo e spesso spassoso; una disamina indomita ed entusiasmante delle ambizioni dei filosofi di capire la vita, condotta da cosí tanti punti di vista che nemmeno Nietzsche avrebbe osato. Smith è sempre piacevole e intelligente, che prenda in esame sia il Leibniz studioso di teologia cinese, sia Laurence Sterne, T. S. Eliot o J. M. Coetzee. Se vi piace la filosofia, questo libro vi farà felici».
Clancy Martin
Non è affatto strano se due sacerdoti cattolici che vivono in un paese a dominanza protestante fanno amicizia, specie se a legarli sono anche interessi artistico-intellettuali e se uno di loro - che si picca di essere un musicista di vaglia - suona ben volentieri le sue composizioni per intrattenere l'amico nelle lunghe e freddissime serate invernali. Ed è altrettanto comprensibile che i due accolgano a braccia aperte nel loro minuscolo cenacolo culturale un correligionario straniero, uno schivo studioso francese che, a quanto pare, desidera soltanto essere lasciato in pace, a scrivere. Quando poi, dopo dieci anni di frequentazione, lo straniero parte per un paese lontano, farlo ritrarre per ricordarne l'aspetto è il gesto più spontaneo e affettuoso che ci si possa attendere da un rattristato amico. Semplice. Chiaro e distinto, anzi. Perché, se l'innocua vicenda si svolge in Olanda alla metà del Seicento, lo straniero può facilmente chiamarsi René Descartes e il pittore a disposizione rischia di essere Frans Hals... Con la consueta amabilità, Steven Nadler ci guida questa volta in un insolito viaggio filosofico-culturale attraverso un periodo cruciale per la storia del pensiero, quanto straordinario per la fioritura artistica. Quadri celebri e celebri trattati - le Meditazioni metafisiche, le Passioni dell'anima, i Principi della filosofia - vedono la luce e si mescolano sullo sfondo del Secolo d'oro olandese, tra polemiche teologiche, gare musicali e la vicenda di un piccolo, controverso, ritratto...