
Karl Löwith (1897-1973) è stata una delle figure più significative del panorama intellettuale del XX secolo. Formatosi alla scuola di Husserl e Heidegger, nella Germania inquieta del primo dopoguerra, dedicò le sue prime indagini - oltre che alla rielaborazione delle tematiche fenomenologiche - al confronto con Hegel, Kierkegaard, Marx, Weber e soprattutto Nietzsche e Burckhardt, nel tentativo di aprire una strada di fronte alla radicale disumanizzazione portata dal nichilismo moderno e dallo stesso avvento del nazismo. A questa prima fase seguì la celebre polemica contro i surrogati secolari della fede cristiana e contro il "nichilismo cosmologico" cui saremmo condannati in un mondo reso assurdo e senza senso dalla "morte di Dio". Per Löwith se il Dio biblico diviene non più credibile, è alla nozione precristiana di natura che occorre, invece, di nuovo volgersi: anche l'uomo e la sua soggettività devono tornare ad appartenere all'ordine naturale del mondo. È precisamente tra Dio e nulla che Löwith, "al di là" di Nietzsche, ha cercato una strada praticabile. Franceschelli ripercorre l'intero arco di questa intensa avventura del pensiero: dagli esordi degli anni venti ai saggi sul buddismo, su Spinoza e Valéry. La lezione di Karl Löwith emerge qui in tutta la sua ricchezza e attualità: un salutare e sobrio affrancamento dall'orizzonte metafisico, che consente di fronteggiare le sfide teoriche - e pratiche - del disincanto moderno.
Costante è stato il confronto di Ricoeur con Kant, in particolare con la dottrina del male radicale contenuta in La religione nei limiti della semplice ragione. I saggi qui per la prima volta tradotti e raccolti possono essere visti come la ricapitolazione di questo confronto, una messa a punto sulla filosofia della religione kantiana, intesa come «ermeneutica filosofica della speranza». Un'ermeneutica che ha a suo fondamento un enigma storico-esistenziale - «il fatto che il libero arbitrio esiste solo sotto la forma del servo arbitrio» - e un paradosso antropologico: l'inerenza nell'uomo di una tendenza al male morale innestata su una disposizione al bene. Il male - quale inversione, nelle massime dell'azione, della priorità tra il dovere e il piacere - è sì radicale ma non originario: sta qui, nota Ricoeur, il pelagianesimo di Kant. Per lui la religione è, nella sua essenza, rigenerazione del principio buono nella volontà cattiva. Una rigenerazione che è una dialettica tra sforzo morale e dono della grazia.
Il presente volume, per la prima volta ed analiticamente, approfondisce la lettura fabriana dei tre più grandi Autori della Modernità filosofica.
Il pensiero filosofico di Kant e il rapporto dello stesso con la teologia.
I saggi raccolti nel volume esaminano il progetto cosmopolitico di Kant e affrontano il problema della praticabilità del suo modello giuridico, politico ed etico in riferimento sia alla situazione e alle prospettive del processo di unificazione europea sia alle attuali discussioni sui problemi della democrazia, della cooperazione e delle relazioni internazionali.
I due testi di Cohen qui per la prima volta tradotti risalgono all'ultimo decennio della sua vita e mostrano la valenza etica dell'ebraismo. Il primo (1908) mette in luce l'impegno socio-sanitario di Salomon Neumann, tra i fondatori dell'Istituto per la Scienza dell'Ebraismo; il secondo (1910) è un serrato confronto con la teoria della ragione pratica di Kant, la quale attesta la sua affinità verso la tradizione filosofica ebraica. Un pensiero che declina i concetti di "umanità", "messianismo", "dover essere", "male radicale", in profonda analogia con il giudaismo, dove essi appaiono inscindibili dall'agire morale dell'uomo.
Concepito come prima parte del secondo volume (mai comparso) di 'Essere e tempo', questo scritto introduce - attraverso il confronto con Kant - al cuore della riflessione heideggeriana. In appendice il testo del celebre dibattito svoltosi nel 1929 fra Heidegger e Cassirer.
Quale eredità ci ha lasciato Kant? A partire dai suoi primi scritti sino alle sue opere fondamentali, si delineano qui - e vengono discussi - i concetti chiave della sua 'filosofia pratica', e i loro effetti sino a oggi: pena, (doveri verso la) natura, dignità. Categorie che, se in Kant hanno una fondazione morale, si declinano anche in senso giuridico. È il caso emblematico della pena - oggetto del primo capitolo - con riferimento alla quale Kant, al di là degli scopi che con essa si possono perseguire, è alla ricerca di un principio di giustificazione. Centrale anche il rapporto fra l'uomo e la natura, indagato nel secondo capitolo. Di fronte alle sfide dello sviluppo e dell'ambiente, alle urgenze dell'ecosistema, paiono trasformarsi gli stessi termini in gioco: le teorie etiche che coinvolgevano il soggetto-uomo si estendono ora ad altri soggetti, agli animali e al pianeta. E che ne è della dignità umana? Il terzo capitolo evidenzia che l'attuale dibattito intorno a questo principio è certamente diverso da quello verificatosi nell'immediato dopoguerra. E tuttavia, ora come allora, se non basta il semplice ritorno a Kant per risolvere i problemi, il richiamo al 'nocciolo duro' della dignità, che consiste nel considerare l'uomo come 'fine in sé', può continuare a offrire un punto cardinale per orientarsi.
Ernst Jünger e Carl Schmitt, pur avendo fatto parte di quella grande corrente di pensiero anti-moderno che fu la Rivoluzione Conservatrice, hanno avuto come tratto comune quello di aver anticipato le trasformazioni e le pulsioni del nuovo secolo. Questi due grandi pensatori tedeschi si sono lasciati alle spalle, almeno dal punto di vista dell'elaborazione teorica, 'esperienza traumatica dei conflitti mondiali e dei totalitarismi e, sin dal primo dopoguerra, hanno intercettato le degenerazioni e le fughe in avanti della modernità. Lo hanno fatto con stili e vocazioni diversi, pur percorrendo per larghi tratti sentieri paralleli.
Carl Gustav Jung è un personaggio che sfugge alle definizioni. Conosciuto essenzialmente come primo importante seguace di Freud e poi fondatore di un'autonoma psicologia analitica, Jung è però autore che ha segnato profondamente anche la storia del pensiero filosofico, religioso, scientifico. In questo libro, l'opera dello psicologo svizzero viene analizzata con atteggiamento imparziale, enucleandone i significativi contributi senza trascurarne le oscure aporie. La scelta di seguire la psicologia junghiana nella sua evoluzione, inoltre, ne evidenzia alcuni aspetti, se non ignoti, certo sottovalutati.
Tradizione integrale, magia e politica. C'è un filo rosso, un interrogativo, che fa da sfondo all'intera opera di Julius Evola: nell'età moderna o, per dirla con le stesse parole del barone romano, nel Kali Yuga, l'età oscura, come può l'uomo accedere alla realizzazione spirituale? Tutte le sfaccettature del personaggio evoliano, dal pittore dada al teorico dell'individuo assoluto, dallo studioso della spiritualità originaria al filosofo della contestazione, sono il tentativo di rispondere a tale quesito. Il pensatore Evola ha sempre riposto nel soggetto, nell'"Io", il cardine della propria ricerca ideale. Dagli anni giovanili, segnati dalla personalissima ricezione dell'idealismo tedesco, che ha portato alla stesura della "Teoria e fenomenologia dell'individuo assoluto"; fino all'elaborazione del profilo "dell'individuo differenziato" di Cavalcare la Tigre. In questo percorso la speculazione evoliana è stata arricchita dallo studio di alcune delle grandi correnti dell'esoterismo tradizionale che ne hanno influenzato il pensiero. Un viaggio metafisico tra Oriente e Occidente.