
Finito di correggere pochi giorni prima della sua scomparsa, questo scritto si pone come il culmine della ricerca speculativa di Arata. La cosa stessa del suo pensiero - Dio in quanto persona - è qui indagata a partire dal mistero che Dio è per chi lo interroghi senza remore. Arata è stato tra i pochi ad aver portato alle estreme conseguenze questo compito. Di qui la Reditio: un ritornare che è rimettere in questione l'intera sua riflessione. Se Dio, per essere se stesso, è mistero, che cosa si può dire dell'autore che riflette su di Lui? Se Dio è l'Arché, il principio di tutte le cose, come giustificare lo scandalo del male? Se nelle altre opere Arata concludeva all'aut-aut - Dio o la filosofia - qui pare giungere a una domanda ancor più radicale: Dio, pur imprescindibile, è davvero pensabile? E l'uomo può fare a meno di pensarlo? Infine si sporge alle soglie del pensiero stesso: l'esperienza religiosa e la morte. Arata amava definire il metafisico un "professionista dell'intero", e in queste pagine ne dà prova in massimo grado.
Le concezioni naturalistiche si caratterizzano per avere sempre assunto il fatto quale fondamento oggettivo, come se esso fosse autonomo e autosufficiente, cioè non in relazione al soggetto che lo rileva. Di contro, la prospettiva metafisica, intesa in senso non dogmatico, ha riconosciuto che solo l'assoluto può valere quale autentico fondamento, ancorché esso non sia determinabile proprio perché assoluto. Per approfondire le aporie della concezione naturalistica, alla luce della prospettiva metafisica qui delineata, questa ricerca tematizza il ruolo svolto dall'atto di coscienza. Infatti, l'atto di coscienza, che è illuminato dal fondamento, dispone l'esperienza su tre livelli. Il primo livello è quello percettivo-sensibile, nel quale il dato appare come indipendente e, per questo, originario. Il secondo è quello concettuale-formale, nel quale si rivela la struttura costitutiva del dato, cioè la relazione che lo vincola a ogni altro dato e al soggetto cui è dato. Il terzo livello è quello trascendentale, nel quale la relazione non viene più intesa come nesso tra dati, ma come il riferirsi intrinseco di ciascuno, che fa di ogni dato un segno di quell'unico significato che emerge oltre l'esperienza ordinaria.
«Non esiste uomo che, seppur per un attimo, non sia stato seguace di Platone. Chi può dire di non essersi sentito spuntare le ali dell'anima? Chi non l'ha sentita levarsi verso la contemplazione diretta, immediata di ciò che la grigia coltre di nuvole del quotidiano nasconde alla vista? Chi, grazie all'eros, non ha toccato profondità della conoscenza alle quali la ragione non ha accesso? Chi non ha visto svelarsi la realtà altra e luminosa dove colui che ha conosciuto l'ispirazione incontra de visu gli archetipi eterni delle cose? Chi non ha assistito al crollo, alla caduta del muro invalicabile tra soggetto e oggetto, chi non ha visto l'Io abbandonare i limiti della propria introversione egoistica per respirare a pieni polmoni l'aria rarefatta della conoscenza e fondersi con tutto il creato? E quei "sogni d'amore meravigliosi, puri, senza nulla di terreno, intessuti di profumo di fiori e luce lunare, con i quali oggi si ottenebrano i giorni della giovinezza e che sono sulle labbra di tutti i poeti di tutte le nazioni colte" non sono forse figli del platonismo?».
Il presente volume contiene un'ampia riflessione sulla condizione esistenziale dell'uomo contemporaneo: egli è davvero debole di fronte a tutte le forze che sembrano agire contro di lui? L'Autore, partendo da quelli che lui definisce i "tre massimi sistemi", Cattolicesimo, Marxismo e Psicoanalisi, analizza i rapporti di analogia e di divergenza tra i saperi e l'influsso da essi esercitato sull'uomo. Attraverso un excursus filosofico egli evidenzia la debolezza del pensiero laico moderno e il carattere consolatorio della cultura, la cui divulgazione costituisce la sfida di una nuova utopia. La visione Utopistica dell'Autore si manifesta nella ricerca, svolta su differenti piani di realtà, di tutti quegli elementi culturali che abbiano un significato unitario e valgano ad avvicinare le molteplici e differenti proposizioni del sapere umanistico e, in ultima analisi, a riavvicinare l'Io all'Altro.
«Il testo che qui presentiamo, che esce per la prima volta in traduzione italiana a più di settant’anni dalla sua edizione originale (É. Gilson, Réalisme thomiste et critique de la connaissance, Vrin, Paris 1939), va inquadrato nel dibattito che, sul finire degli anni Trenta, coinvolse Gilson e alcuni illustri esponenti dell’Università di Lovanio, fondata dal cardinal Mercier. Tra essi, oltre a Mercier, J. Maréchal, B. Picard, L. Nöel, M.-D. Roland-Gosselin, p. P. Descoqs. La questione controversa riguardava la legittimità del “realismo critico”, cioè dell’incontro tra Tommaso e Cartesio e/o Kant, proposto, in sede conoscitiva, dai tomisti sopra indicati. Una legittimità che Gilson non era disposto a riconoscere e che susciterà un dibattito molto acceso sulla natura della gnoseologia tomista, sulla sua differenza o sulla sua possibile convergenza con l’impostazione critica moderna».
Dall’introduzione di Massimo Borghesi
Étienne Gilson (Parigi 1884 - Cravant 1978), storico del pensiero medievale e studioso di fama mondiale, è stato professore alla Sorbona, al Collège de France, al Pontifical Institute of Medieval Studies di Toronto. È autore di opere fondamentali dedicate al pensiero di Sant’Agostino, San Tommaso, San Bonaventura, Duns Scoto.
A distanza di quattordici anni dalla prima pubblicazione in edizione originale, “Il realismo morale e i fondamenti dell’etica” è già divenuto un classico della metaetica e dell’etica normativa analitica. Il testo, che rappresenta la versione più organica e logicamente cogente della prospettiva sostenuta dal cosiddetto ‘realismo morale americano’, sviluppa una teoria esternalistica della motivazione morale, un’epistemologia morale coerentistica, un’ontologia morale di tipo realistico e naturalistico, un’etica normativa improntata a una forma oggettiva di utilitarismo.
Queste tesi vengono argomentate alla luce delle competenze che l’autore possiede nell’ambito di discipline quali l’epistemologia, la filosofia del linguaggio, l’ontologia, la filosofia della mente, la storia della filosofia. Tale poderoso insieme di conoscenze di sfondo rende la lettura del testo coinvolgente e attuale, per la capacità di cogliere in un unico sguardo temi e problemi che solo astrattamente appaiono suddivisi in ambiti disciplinari diversi. L’attualità del volume è testimoniata anche dal ruolo centrale che in esso gioca il tema del naturalismo. Le argomentazioni di Brink a favore di un naturalismo non riduzionistico offrono, per la loro chiarezza e il loro rigore, un contributo importante al dibattito sul naturalismo filosofico, rivolto tanto a coloro che simpatizzano con il naturalismo, quanto a coloro che vi resistono.
David O. Brink è docente alla facoltà di Filosofia dell’Università di San Diego, CA e ha conseguito il dottorato in Filosofia nel 1985 presso la Cornell University. I suoi interessi di ricerca si rivolgono all’etica, in particolare alla metaetica e ai fondamenti della morale, alla filosofia della politica e al diritto. Tra le pubblicazioni più recenti si segnalano: "Common Sense and First Principles in Sidgwick’s Methods", «Social Philosophy & Policy», 11 (1994); "Realism, Naturalism and Moral Semantics", «Social Philosophy & Policy», 18 (2001); "Some Forms and Limits of Consequentialism", in "The Oxford Handbook of Ethical Theory", a cura di D. Copp, Clarendon Press, Oxford 2003.
Alcuni filosofi cristiani del primo Novecento, a cominciare dai neotomisti belgi dellíUniversit‡ di Lovanio, avevano tentato un recupero della metafisica classica e della sua impostazione gnoseologica di fondo ñ che modernamente prende il nome di ìrealismoî ñ adottando proprio le medesime categorie metodologiche della filosofia che aveva criticato il realismo della metafisica classica, considerandolo ìingenuoî o ìdogmaticoî. Il risultato di questo tentativo di una giustificazione del realismo metafisico dallíinterno del sistema cartesiano, accettandone il metodo con tutte le sue conseguenze immanentistiche - compresa ìcriticaî kantiana della conoscenza - , Ë stata la proposta di un ´realismo criticoª. A questa proposta …tienne Gilson contrappose, in questo importante saggio del 1935, la tesi che il realismo non Ë la conclusione cui possa approdare il metodo immanenstistico, ma Ë semplicemente il metodo contrario, quello che ha in sÈ la propria giustificazione epistemica, in quanto risponde alle esigenze del pensiero di formalizzare con la riflessione metafisica le certezze originarie del ìsenso comuneî.
…tienne Gilson (1884-1978), uno dei pi˘ grandi filosofi del Novecento, Ë unanimemente apprezzato, oltre che come storico della filosofia, anche come metafisico, e molti filosofi in Europa e in America si riconoscono come suoi allievi. Il testo che ora viene pubblicato per la prima volta in traduzione italiana riguarda il problema centrale della gnoseologia, ossia il metodo della metafisica e la dialettica moderna di immanentismo e realismo, tematica poi ripresa da Gilson in altre due importanti opere non ancora tradotte in italiano: The Unity of Philosophical Experience, del 1937, e RÈalisme thomiste et critique de la connaissance, del 1939. Líopera Ë tradotta e commentata da Antonio Livi, scolaro di Gilson e continuatore della sua riflessione sui temi del ìsenso comuneî e del realismo. Maria Antonietta Mendosa, studiosa anchíessa del ìsenso comuneî, premette allíopera di Gilson uníutile esposizione delle vicende storiche che hanno determinato il dibattito novecentesco sul ´realismo criticoª.
"IL realismo naturale non è una teoria filosofica, appartiene al fenomeno della conoscenza ed è sempre indicibile in esso. Tale realismo s'identifica con la convinzione, da cui siamo dominati per tutta la vita, che il complesso delle cose, delle persone, degli avvenimenti e dei rapporti - in breve, del mondo in cui viviamo e che rendiamo nostro oggetto nel conoscere - non è prodotto solo dal nostro conoscere, ma sussiste indipendentemente da noi. Se questa convinzione ci abbandonasse anche un solo istante nella vita non la prenderemmo più sul serio. Ci sono teorie filosofiche che l'abbandonano; ma esse svalutano così la vita nel mondo e in realtà non la prendono più sul serio." Nicolai Hartmann
A dispetto di antichi pregiudizi, Pascal è un pensatore che scruta l'uomo e la società con la speranza cristiana di chi crede che i discendenti di Adamo possano realizzare nella città terrena una giustizia meno ingiusta, per mezzo di istituzioni miranti al bene comune, e non all'interesse particolaristico di individui o di gruppi. E che Pascal non sia nemico dell'uomo si comprende dai tre Discorsi sulla condizione dei grandi, ove si delineano il profilo e l'operato del "re di concupiscenza". A differenza del re tiranno, che domina con la forza, il re di concupiscenza mira al benessere degli altri. Il suo è un "umanesimo imperfetto", che rimane al di qua della linea di demarcazione fra paganesimo e cristianesimo, impantanato in un mondo senza speranza e senza Dio. Da qui il necessario passaggio dal re di concupiscenza al re di carità che, riunendo in sé i valori dell'umanesimo e del cristianesimo, diventa il portatore di un pascaliano "umanesimo perfetto".