
Cosa accadde a Lisbona il 1° novembre del 1755? Perché l'immane disastro del terremoto, che in quel giorno rase al suolo la capitale portoghese e fu avvertito in buona parte dell'Europa, è un evento che ancora ci riguarda? Lisbona inaugura un significato inedito della parola "catastrofe" e, insieme, segna l'inizio dell'epoca in cui stiamo vivendo. Se una data può essere indicata per il passaggio di consegne fra il passato e l'epoca secolare, questa data va fissata nell'evento-soglia costituito dal terremoto di Lisbona, dalle reazioni degli intellettuali illuministi e dalla partecipazione emotiva della nascente opinione pubblica europea. Il Poema di Voltaire, la lettera di risposta di Rousseau, i saggi in cui il giovane Kant rifl ette sulle cause fisiche del terremoto lusitano, intarsiati alle considerazioni sullo spettacolo e sull'amministrazione del disastro, sulle geometrie morali della compassione e sull'ottimismo gnoseologico e ontologico della scienza, sono le voci di un dibattito che, come la catastrofe, rimane, da allora, sempre drammaticamente attuale.
Apparso per la prima volta nel 1766, il 'filosofo ignorante' inscena il libero indagare di una ragione che, ben consapevole dei propri limiti e della propria inadeguatezza a comprendere i più alti segreti dell'universo, si rivolge alla filosofia per trovare le risposte che va cercando.
Con il Filottete, per la prima volta rappresentato ad Atene nel 409 a.c. la Fondazione Valla da inizio all'edizione completa delle tragedie e dei frammenti di Sofocle. I testi critici delle tragedie sono a cura di Guido Avezzù e di Andrea Tessier, le traduzioni di Giovanni Cerri e di Bruno Gentili, i commenti di otto studiosi: statunitensi, inglesi e italiani. Quando la scena si apre, Odissee e Neottolemo sono appena giunti a Lemno. Filottete vive in una grotta, dove intravediamo un giaciglio di foglie, una coppa di legno malamente sbozzata, tracce di un falò, e i suoi poveri stracci stesi al suolo, "sporchi di brutta cancrena". Dieci anni prima, i Greci l'hanno abbandonato lì, per la sua piaga purulenta al piede. Nessuno è più solo e sventurato di lui: nessuno così nobile, innocente e ingenuo, sebbene abbia conosciuto tutti i mali della vita. Egli ha commesso una colpa, violando il territorio sacro del santuario di Crise: la dea l'ha punito col morso di un serpente; ma non sapremo mai se la sua sia davvero una colpa. Il dolore di Filottete è intollerabile:
mai incontriamo, nella tragedia greca, il divino che agisce così tremendamente su un corpo umano.
Odissee sa che Troia non può cadere senza l'arco di Filottete, e vuole ingannare l'eroe col soccorso di Neottolemo. L'inganno viene deluso: Neottolemo ricorda il padre, Achille, e rifiuta l'insidia e la corruzione di Odisseo. Alla fine della tragedia, Eracle discende sulla scena: in apparenza, è un lieto fine; Filottete è salvo, sebbene Sofocle non ci spieghi i misteri della provvidenza divina e quelli del dolore umano.
Nel Filottete, Sofocle è un maestro di ironia tragica. Dovunque, egli rivela la traccia dell'invisibile e del divino, che penetra tutte le cose; e subito dopo ne mostra la natura inesplicabile. I segni divini - se pur sono tali - sono deboli, incerti, oscuri: gli avvenimenti si succedono per il gioco del caso o di una finalità che non appare mai evidente. Sebbene gli dei siano possenti, sono visibili solo nel loro mistero. I personaggi umani vivono chiusi nella sfera dell'apparenza: anche quando la verità splende loro sul volto, non la vedono o la scambiano per una illusione.
Come ha scritto Jacob Taubes, nelle pagine de "La fine di tutte le cose" l'opera forse più ingiustamente trascurata dell'ultima fase della vita del grande maestro di Konigsberg - Kant conduce l'ambizioso progetto filosofico di "tradurre le dichiarazioni metafisiche dell'escatologia cristiana in una sorta di escatologia trascendentale". L'escatologia trascendentale ruota attorno a un duplice interrogativo: perché, in generale, gli uomini si aspettano una fine del mondo? E se questa viene anche loro concessa, perché proprio una fine che, per la maggior parte del genere umano, fa paura? Per Kant l'antica profezia apocalittica di San Giovanni prefigura, in simboli e immagini, il limite estremo della stessa attività del pensare, delineando la struttura paradossale di un "concetto con cui, al tempo stesso, l'intelletto ci abbandona e, addirittura, ha fine ogni pensiero".
Pubblicato nel 1960, Finitudine e colpa è con Verità e metodo di Gadamer il testo che inaugura l'"âge herméneutique", un'età che ha fatto dello statuto dell'interpretazione una questione dirimente per la filosofia. L'ermeneutica in quest'opera si presenta come decifrazione dei simboli e dei miti attraverso i quali è stata fatta esperienza, nelle tradizioni greca e biblica, dell'enigma del male. Simboli primari (impurità, peccato, colpevolezza) declinati nei miti del "principio e della "fine" e caratterizzati da una duplicità di senso. Di qui la definizione della ermeneutica come dialettica tra senso letterale e senso profondo dei simboli. Un modello posto sotto il motto «il simbolo dà a pensare». Sta in ciò la classicità di Finitudine e colpa: Ricoeur ha fatto del male - delle sue condizioni simboliche di possibilità - la cosa stessa della filosofia. E ha giustificato - come fosse una «seconda rivoluzione copernicana» - la legittimità dell'ermeneutica: essa è il cammino della ragione, attraverso il conflitto delle interpretazioni, per render conto del male che è già lì, e resta opaco al rischiaramento. Un compito «mai finito di distruggere gli idoli, al fine di lasciare parlare i simboli».
La "Fisica" di Aristotele è un'opera cosiddetta "acroamatica" vale a dire è una raccolta di appunti preparatori alle lezioni dello "Stagirita" che originariamente non costituivano uno scritto unitario ma una serie di saggi su argomenti specitici. Questi furono raccolti in un unico trattato secondo l'ordine tematico da Andronico di Rodi nel I sec. a.C. nella forma in cui oggi l'abbiamo. Da ciò dipende lo stile e il lessico asciutti spesso molto sintetici ed ellittici. La "Fisica" vuol essere lo studio della natura vista nel suo aspetto peculiare che è il movimento: per la precisione Aristotele intende come enti naturali (e quindi fisici) quelli che hanno in sé la causa del loro mutamento, distinguendoli dai prodotti dell'arte che non hanno tale carattere. In ogni modo lo studio di questi aspetti è condotto a livello filosofico e cioè in un senso universale e ontologico. Per tale motivo Aristotele non può esimersi dall'affrontare molti temi correlati al movimento di grande importanza, come l'infinito, il luogo, il tempo, il continuo e, da ultimo il rapporto, motore-mosso. Sarà proprio questo aspetto a proiettare gli esiti della "Fisica" nella "Metafisica", attraverso la nozione di Motore immobile. La fortuna di quest'opera fu immensa perché determinò la percezione dell'universo per secoli (per tutto il Medioevo).
"Fisica" è il titolo di un trattato in otto libri di Aristotele. E uno dei trattati più significativi del filosofo. Come tutte le altre opere aristoteliche, anche "Fisica" è il risultato del lavoro di ricostruzione operato da Andronico di Rodi sui frammenti sparsi scritti dallo Stagirita in epoche diverse, su argomenti diversi, tutti tuttavia attinenti il mondo della "Physis" (natura). Il I libro tratta dei principi del Divenire. Il II libro è un trattato sulle Quattro cause. I libri III, IV, V, VI costituiscono uno studio organico sul concetto di mutamento (movimento) e le sue implicazioni: infinito, luogo, tempo, continuo. Il VII continua, in modo tuttavia autonomo, l'analisi del Movimento, introducendo il concetto di Movente. L'VIII postula inferenzialmente l'esistenza di un Primo movente immobile ed eterno.
Tra le opere minori giunte sotto il nome di Aristotele (e oggi di discussa autenticità), la "Fisiognomica" tratta della corrispondenza tra i caratteri degli uomini e gli attributi somatici esterni del viso e del corpo; per esempio, gli occhi grandi e sporgenti indicano un carattere intemperante, lo sguardo denota sempre una disposizione d'animo, o più in generale i temperamenti interni corrispondono al rossore, al pallore, alla scurezza o all'ittero del viso. Nella prima parte, lo scritto si concentra sulla fisiognomica umana, mentre nella seconda l'analisi è estesa anche agli animali. A partire da questo scritto e nel corso della sua lunga storia, la fisiognomica come disciplina è stata sempre connotata da un'ambivalenza teorica essenziale: quella di essere una "quasi scienza", a metà tra divinazione e razionalità, tra mantica e medicina, una disciplina che da un lato affonda le sue radici nel sapere di tutti e nella superstizione, e dall'altro si propone un rigore scientifico-metodologico e si fonda su postulati precisi, quali il rapporto di interdipendenza tra caratteristiche fisiche e psichiche e la corrispondenza biunivoca tra segno sensibile e relativa affezione interna. La traduzione, con introduzione, note e apparati è a cura di Maria Fernanda Ferrini, docente di Letteratura greca all'Università di Macerata. Il testo greco a fronte è quello di 1. Bekker (Berolini 1831), di cui viene conservata la numerazione delle pagine e delle linee.
È lo scritto capitale di Fiche (1762-1814), che sta alla base di tutte le sue successive (ben 11) rielaborazioni e anche delle altre opere fichtiane. Esso vuole dare una fondazione teoretica di tutto il sapere, dedotto da un unico principio assoluto: l'Io. Questo Io non è però una semplice astrazione, ma raccoglie in sé anche l'ideale del dovere e si pone, quindi, come la sintesi della teoria e della prassi, come punto d'orientamento del pensare e dell'agire. In questa edizione, curata da Guido Boffi, il saggio introduttivo ricostruisce il contesto problematico e storico-concettuale della genesi dell'opera e le sue premesse nelle precedenti indagini fichtiane.
Il principio di non contraddizione, che Aristotrele chiamò il "principio più saldo di tutti", è da sempre considerato il fondamento stesso del pensiero. Un passaggio obbligato che si presenta tuttavia come un'ardua strettoia, giacché se per Aristotele a quel primo principio è connessa "la necessità che sia sempre compiuto l'opposto dell'errore, cioè l'essere nella verità", anche l'essere nell'errore richiede un fondamento. Già Platone si sentiva infatti "turbato" di fronte all'interrogazione su come sia possibile l'esistenza, in quanto tale, dell' 'opinione falsa' - di quell'errore di cui la contraddizione è l'essenza stessa. Il volume presenta un saggio inedito composto tra il 2003 e il 2004, accanto a testi apparsi tra il 1955 e il 1963.