
La poesia di Federico Italiano tenta le vie di una possibile epica per il nuovo millennio. Senza ridursi alle scarne e spesso vanitose registrazioni dell'esistente, e senza restare arrampicata ai modelli poetici centrali del Novecento anche italiano, la voce di questo poeta alterna, con misteriosa grazia e libertà, fraseggi narrativi a fendenti lirici. Il che costruisce, in virtù di un buonissimo orecchio interiore e mosaico, allenato sul battere di lingue diversissime e pur a molti livelli intrecciate, come la nostra e la tedesca, un corpo di poesia capace di sostenere racconti dal respiro minimo o di ere. Reagiscono, dunque, e fan scintille (dolorose scintille, a volte) il tempo grande e il tempo spicciolo. Ci viene incontro il racconto di qualcosa, dell'evento segreto o manifesto che riguarda tutti e che il poeta per tutti prova a fissare; o che riguarda solo lui, e però nello sguardo del poeta, nel suo fissarlo, si manifesta "per tutti". Nessuna divisione possibile, nessuna cucitura entro schemi tranquilli. La poesia di Italiano si muove seguendo un richiamo, incomprensibile a orecchi che non siano come i suoi allenati all'ultrasuono, è la fuga dalla rovina, la possibile letizia. (Davide Rondoni)
La bellissima perdita: un tale titolo è quanto di più impopolare e di meno "mercato editoriale", ma è autentico. L'autore lo sa bene, sa che questo titolo è nato, per la sua pluridecennale amicizia con la poesia, da molto tempo e irrevocabilmente. Sa che la poesia non vuole riempirsi le mani, ma le vuota affinché accolgano il dono, povero e non posseduto, di tutte le cose. La poesia avanza retrocedendo, vince perdendo, parla tacendo, dice le sue proprie parole dissimulandole in quelle che appaiono pronunciate. La società «stolta che l'util chiede / e inutile la vita / quindi più divenir non vede» (G. Leopardi, Il pensiero dominante), è convinta che la poesia non serve a nulla. Non serve, infatti, regna.
Le poesie qui raccolte, datate a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, sono l'opera di una contemplativa, una beghina fiamminga anonima. Gli studiosi l'hanno voluta chiamare Pseudo-Hadewijch o Hadewijch II a motivo della parentela con i testi della grande beghina, poetessa e mistica Hadewijch.
Di un alto valore poetico e di una grande bellezza e purezza, queste poesie presentano i temi della mistica dell'Essenza nei modi in cui si diffusero nel movimento medievale femminile delle beghine.
Testo brabantino a fronte
Tradotte da Alessia Vallarsa
con la collaborazione di Joris Reynaert
Presentazione di Luisa Muraro
Maria, la samaritana, Maria di Madgala, la vedova di Nain… le donne che hanno incontrato Gesù nel Vangelo raccontano in prima persona il loro rapporto con cristo.
L’Autrice indaga, con il linguaggio poetico, il rapporto tra Gesù e le figure femminili dei vangeli.
Ognuna di loro racconta, in prima persona, l’esperienza del proprio incontro con Cristo. Incontri nati da una situazione di bisogno (l’emorroissa, la vedova di Nain, la donna cananea...), di vuoto esistenziale (la Samaritana...), di smarrimento della propria identità (la peccatrice...). O ancora incontri frutto di un cuore disposto all’attesa (Giovanna, Maria di Betania...) o innamorato (Maria di Magdala). Di particolare interesse le poesie intitolate alla Madre di Dio che costituiscono un piccolo “corpus” all’interno della raccolta.
Destinatari
Comunità cristiane, lettrici attente al tema della donna nella Scrittura.
Autrice
Marina Marcolini è nata a Mestre (VE) nel 1961. Insegna letteratura italiana nella facoltà di lettere e filosofia dell’università di Udine come professore aggregato. Ha pubblicato saggi critici e commenti sulla letteratura dal ’700 al ’900, apparsi in volume e su riviste specializzate, con attenzione particolare all’opera di Giovanni Pascoli; di recente ha rivolto i suoi interessi alla poesia religiosa, indagando il rapporto tra spiritualità e linguaggio poetico (saggio critico introduttivo all’opera completa di Davide Maria Montagna, Stupore, Servitium, 2010). Dal 2009 collabora con padre Ermes Ronchi come autrice della trasmissione televisiva di Rai Uno «Le ragioni della speranza», commento al Vangelo della domenica, e alla rivista «I luoghi dell’infinito».
Il volume raccoglie i versi di Stefania Falasca. Questa raccolta di poesie abbraccia tre decenni: dal 1990 al 2021. Nel suo momento creativo e nel suo processo espressivo, l'Autrice fa storia e fa geografia umana; descrive i luoghi e li ordina nella successione temporale e, come recita il titolo del suo libro poetico, stabilisce le tappe del suo cammino di osservatrice del mondo e degli esseri umani e, dalle innumerevoli testimonianze, presceglie le situazioni estreme, le più apparentemente irredimibili, come le più lievi, le più lontane, come le più vicine, le più orizzontali, come le più verticali, nel cammino dell'animo, del suo animo. Con la Prefazione di Edith Bruck e l'Introduzione di Rino Caputo.
La prima edizione di Libro del frío (1992), secondo la particolare concezione artistica del suo autore, Antonio Gamoneda, che vede nella poesia qualcosa di biologicamente integrato alla vita, è giunta oggi ad una seconda edizione ampliata, che raccoglie, rispetto alla prima, venti nuove brevi poesie in un'ulteriore sezione. L'opera si presenta come un viaggio poetico attraverso i paesaggi della coscienza avviata all'incontro con la vecchiaia. Memoria, narrazione e costruzioni simboliche si fanno di una stessa e condivisa sostanza poetica, che non rifugge simboli anche indecifrabili, pur mantenendo il tutto una nitidezza a volte sconcertante. Ciò che colpisce è il vigore delle immagini che Gamoneda riporta in questo libro, riflesso filtrato del mondo esteriore senza togliere alla realtà anche la sua luce e valenza negativa. Una lettura d'impatto per il lettore italiano, che verrà trasportato in una tradizione poetica, quella più propriamente ispanica, i cui tratti essenziali sono l'asciuttezza del dettato poetico, la mozione etica dell'individuo, il profondo senso delle immagini a rappresentare l'impulso vitale "tra vertigine e oblio".
I "Cento sonetti d'amore" rappresentano lo sviluppo, in forme di accentuata originalità e autonomia, di un motivo che viene di lontano. Il filone da cui scaturisce quest'opera affonda non solo in Stravagario, ma anche e soprattutto nei Versi del Capitano, documento di un'epoca turbolenta in cui l'amore si manifesta in raffiche improvvise, appare dominato da accese note di passione, insidiato da furori e gelosie, agitato da rinunce e ritorni, da condanne e proteste disperate, fino alla definitiva affermazione. Matilde equivale, per Neruda, alla terra; il bacio dato alla donna rappresenta l'unione con il mondo. Per il poeta l'amore è elemento che ravviva il mondo, miracolo che si verifica attraverso la presenza della donna.
Sotto il titolo "Derniers poèmes d'amour" sono stati raccolti in Francia, nel 1962, quattro volumetti di poesie scritti e pubblicati da Eluard tra il 1946 e il 1951. Non si tratta esclusivamente di poesie d'amore, ma l'intitolazione può essere di buon grado accettata poiché rispecchia fedelmente una delle costanti eluardiane più sicure: la costante sentimentale. Anche se molte di queste poesie non sono state scritte per una donna, ma in occasione della morte di una donna e nel ricordo di lei, il fatto sentimentale rimane sempre sotteso, indispensabile.
"'I versi del Capitano' apparvero, anonimi, a Napoli nel 1952. La storia della raccolta l'abbiamo appresa dalla bocca di Neruda: queste poesie sono il documento agitato del suo amore per Matilde Urrutia, sbocciato a Capri durante la residenza del poeta nell'isola; l'anonimo sotto cui l'opera apparve si dovette al fatto che l'autore non volle ferire pubblicamente la donna alla quale allora era ancora legato... 'I versi del Capitano' rappresentano un momento decisivo nell'evoluzione spirituale del poeta. In essi sta il migliore Neruda, il più delicato e il più irruente, il più dolce e il più appassionato, il sommo artista, sempre nuovo e sorprendente in ogni momento della sua vastissima opera." (dalla prefazione di Giuseppe Bellini)
DESCRIZIONE: Fu a partire dal 1937, cioè dall’anno in cui i Carmina Burana vennero musicati da Carl Orff, cultore di musica antica, che quelle produzioni poetiche e musicali divennero note al grande pubblico. La loro fortuna si impose nella cultura generale e nella coscienza collettiva sempre con le caratteristiche della gaudente e disinvolta spensieratezza, spesso allargata alla licenza e alla trasgressione.
Ma a ridimensionare la communis opinio circa il significato e le caratteristiche dei Carmina Burana esce ora questa sorprendente pubblicazione di Ugo Trombi, che ci colpisce sin dal titolo di per sé significativo: I Carmina Burana che non t’aspetti. Diciamo subito che si tratta di una raccolta poetica che proviene dal medesimo codice bavarese che contiene i più noti carmi gaudenti o licenziosi: ce ne parla il curatore stesso nel capitolo dell’Introduzione dedicato al Codice buranense. Tuttavia, la raccolta che qui viene presentata è composta da canti spirituali, corone e drammi sacri: ci mostra dunque un volto completamente diverso (e in questo senso sorprendente) da quanto universalmente conosciuto circa i Carmina Burana. Come il lettore potrà verificare, affiora da questa selezione una produzione di notevole valore spirituale, di tensione al sublime e alla purezza, alla semplicità e alla verità, non priva di qualche accento critico verso l’esercizio del potere all’interno della Chiesa.
(dalla Prefazione)
COMMENTO: La traduzione dei celebri canti di Carl Orff, che ne rivela il carattere spirituale e profondamente cristiano
UGO TROMBI, già docente di lettere latine e greche, ha pubblicato presso la Morcelliana: Inni preghiere cantici. Antologia di poesia latina cristiana dal iv al xiii secolo (2003); presso Graphital Edizioni: Poesia dall’Eremo. Antologia dei Carmina di Pier Damiani (2002); L’innario Paraclitense e i Compianti di Pietro Abelardo (2003); presso Città Nuova: Romano il Melode, Kontakia/1 (2007).
Poesie nonsense, cantilene, strofe dedicate ai tanto amati gatti delineano il volto sconosciuto ai più di Paolo De Benedetti. Una raccolta di componimenti che svela l'ironia sottile del Rabbi di Asti, la passione per i giochi linguistici, sensati e non, nati nelle redazioni dell'editore Bompiani dall'intesa con Celestino Capasso, Mario Spagnol, Umberto Eco e Giampaolo Dossena, e proseguiti poi come attività parallela ai libri di esegesi biblica e teologia. Completano la produzione nonsensica una lettera a Eco, Micceide e le melanconiche lamentazioni per la perdita degli amici felini, "angeli" del Creatore, per i quali l'autore litiga con Dio.

