
Quali sono i principi su cui si fonda la nostra civiltà attuale? È in agonia, destinata forse a morire? Un romanzo che indaga le ragioni della crisi morale, spirituale, culturale ed economica che stiamo attraversando.
La ricerca costante del passato dell’archeologo. La rabbia dell’adolescente. L’insopprimibile istinto morale del filosofo. La forza salvifica della poesia. La perdita di senso della trascendenza.
Come in un moderno Decamerone, sette persone si radunano a discutere in una villa isolata sulla condizione della civiltà. Il padrone di casa ha scelto con cura gli invitati: un archeologo, un’adolescente, un filosofo, un generale, una psicoanalista, un poeta, un prete. Ognuno di loro avrà un giorno a disposizione per esaminare, alla luce delle proprie esperienze o della propria disciplina, le ragioni del declino che sta sgretolando la politica, la morale, la memoria: in poche parole, i fondamenti della civiltà. La giustizia è in mano all’interesse, il concetto di democrazia è ridotto a una parola priva di significato, si è cancellata la differenza tra bene e male. Mentre affiorano ricordi, nostalgie, speranze, si leva il grido disperato della ragazza, che urla la sua rabbia per tutto quello che avrebbe potuto essere e non sarà, il suo dolore per una vita bruciata dall’abisso in cui stiamo precipitando. Vittorino Andreoli, uno dei più acuti interpreti del mondo d’oggi, ci offre un romanzo complesso e appassionato, che attraverso una finzione narrativa raffi natissima e densa di echi letterari scuote le coscienze, costringendoci ad aprire gli occhi sulla sorte di una civiltà ormai alla fine.
Vittorino Andreoli, è uno dei più autorevoli psichiatri italiani. Oltre ai numerosi libri di saggistica, le sue ultime opere narrative uscite da Rizzoli sono Il reverendo (2008), Il corruttore (2009) e, per la Bur, nel 2010, Un pellegrino, Nuovo Genesi e Vecchio mondo.
“Perché io vi parlo sempre di me e della gente di casa mia? Per parlarvi di voi e della gente di casa vostra. Per consolare me e voi della nostra vita banale di onesta gente comune. Per sorridere assieme dei nostri piccoli guai quotidiani. Per cercar di togliere a questi piccoli guai (piccoli anche se sono grossi) quel cupo color di tragedia che spesso essi assumono quando vengano tenuti celati nel chiuso del nostro animo. Ecco: se io ho un cruccio, me ne libero confidandolo al «Corrierino». E quelli, fra i ventiquattro lettori del «Corrierino», che hanno un cruccio del genere nascosto nel cuore, trovandolo raccontato per filo e per segno nelle colonne del «Corrierino», si sentono come liberati da quel cruccio. Infatti quel cruccio da problema strettamente personale diventa un problema di categoria, e allora è tutt’altra cosa.”
A metà degli anni Cinquanta, Ernest Hemingway è ormai prostrato da un’esistenza trascorsa sull’orlo del baratro. Quando però Fernanda Pivano lo informa che in Lucania si aggira una strana bestia bianca, a metà tra un elefante e un mammut, la sua indole di cacciatore ha un brusco sussulto: non può mancare al safari più eccitante della propria vita. La Lucania è “una terra meravigliosa e sconosciuta in cui ci si può imbattere in tante diavolerie che hanno dell’incredibile”. Così Hemingway sbarca in Italia e intraprende un viaggio al Sud che è ricerca di una belva enorme ma sfuggente. E che, per il vecchio scrittore, sarà anche l’occasione per la più inattesa e intensa delle storie d’amore. Nel suo nuovo romanzo, Raffaele Nigro racconta un episodio forse accaduto davvero forse no, appreso dalla Pivano nello spazio di una notte in auto da Milano a Roma. E ci rivela che viviamo in una terra di confine tra aspirazione alla felicità e ansia di morte e che il presente non può essere mai disgiunto dal passato. Un sentimento che appartiene a Hemingway, ma anche all’umanità intera, incarnato e descritto dalla grande letteratura del Novecento.
Max Moscatelli è un ladro di tombe che si spaccia per archeologo: l'anziano Peter, professore americano in pensione, molto idealista, l'ha conosciuto in Italia e l'ha coinvolto in un progetto in Argentina: accanto a una caserma dell'esercito è stato rinvenuto un cadavere; si sospetta che vi sia una fossa comune di desaparecidos e Peter è stato incaricato di effettuare gli scavi necessari per chiarire la vicenda. Siamo negli anni '80, l'esercito conserva lo strapotere anche dopo la fine della dittatura e non vede di buon occhio le ricerche sul recente passato. Peter muore in un incidente sospetto e Max è tentato di abbandonare tutto, ma il resto del team lo convince a continuare. Il gruppo dovrebbe proseguire gli scavi nella zona militare e decide di scavare un tunnel: l'operazione ha successo, si trovano i corpi e si riesce a estrarne quattro, ma i militari si sono accorti di qualcosa e fanno crollare la galleria. I corpi estratti vengono identificati con l'aiuto della popolazione locale, la vittoria sui militari è raggiunta perché l'opinione pubblica scopre l'eccidio, ma Max deve scappare in tutta fretta dall'Argentina, dove nel frattempo ha trovato l'amore.
Pellegrinaggio in Inghilterra recita il sottotitolo. E di un viaggio solitario si tratta, d'estate e per lo più a piedi, nel Suffolk, dove Sebald visse sino all'ultimo: in uno spazio delimitato da mare, colline e qualche città costiera, attraverso grandi proprietà terriere in decadenza, ai margini dei campi di volo dai quali si alzavano i caccia britannici per bombardare la Germania. Viandante saturnino («Nato sotto il segno del freddo pianeta Saturno» dice di sé nel poemetto Secondo natura), Sebald ci racconta - lungo dieci stazioni di un itinerario che è anche una via di fuga - gli incontri con interlocutori bizzarri, amici, oggetti che evocano le fasi di quella « storia naturale della distruzione » che scandisce il cammino umano e il susseguirsi degli eventi naturali. E ci racconta storie di altri vagabondaggi ed emigrazioni, di cui la sua vicenda personale è estrema eco: quelli di Michael Hamburger, poeta e traduttore di Hölderlin, profugo anche lui dalla Germania; di Joseph Conrad, che nel Congo conosce la malinconia dell'emigrato e l'orrore per le tragedie del paese di tenebra; di Chateaubriand, esule in Inghilterra; di Edward Fitz-Gerald, eccentrico interprete della lirica persiana, che a bordo della sua piccola imbarcazione trascorre ore in coperta, con indosso marsina e cilindro e un lungo, svolazzante boa di piume bianche intorno al collo. Pellegrinaggio e insieme labirinto, nella miglior tradizione sebaldiana: ma anche qui, a guidare scrittore e lettore, e a impedirne la cieca erranza, vi è un filo.
Con la «particolare nitidezza» di qualcosa che si vede dall'altro capo di un telescopio, minuscolo ma provvisto dello smalto allucinatorio di una decalcomania, Nabokov ha lasciato affiorare dalle pagine di questo libro la sua fanciullezza nella «Russia leggendaria» precedente alla Rivoluzione, troppo perfetta e troppo felice per non essere condannata a un dileguamento istantaneo e totale, sospingendo poi il ricordo fino all'apparizione dello «splendido fumaiolo» della nave che lo avrebbe condotto in America nel 1940. «Il dettaglio è sempre benvenuto»: questa regola aurea dell'arte di Nabokov forse mai fu applicata da lui stesso con altrettanta determinazione come in Parla, ricordo. Qui l'ebbrezza dei dettagli che scintillano in una prosa furiosamente cesellata diventa il mezzo più sicuro, se non l'unico, per salvare una moltitudine di istanti e di profili altrimenti destinati a essere inghiottiti nel silenzio, fissandoli in parole che si offrono come «miniature traslucide, tascabili paesi delle meraviglie, piccoli mondi perfetti di smorzate sfumature luminescenti». Compiuta l'operazione da stagionato prestigiatore itinerante, Nabokov riarrotola il suo «tappeto magico, dopo l'uso, così da sovrapporre l'una all'altra parti diverse del disegno». E aggiunge: «E che i visitatori inciampino pure». Cosa che ogni lettore farà, con «un brivido di gratitudine rivolta a chi di dovere - al genio contrappuntistico del destino umano o ai teneri spettri che assecondano un fortunato mortale».
«Tutto il libro è, se non scritto, guardato da Baudelaire, perché Calasso cerca sempre di condividere l'occhio con cui Baudelaire osserva i personaggi e le figure mentali del proprio tempo e addirittura del futuro ... Il risultato segreto di questa ricerca è quello che Calasso chiama la storia segreta della letteratura: storia molto difficile, perché gli scrittori sono abilissimi nel celarsi, e nascondono sia le affinità sia le differenze più profonde. Bisogna violare la cortina di menzogne con cui un artista si difende, possedere una cultura che permetta di trovare le somiglianze più lontane, essere preciso e minuzioso come una formica nell'aggirarsi tra i particolari dei testi: conoscere l'arte sovrana del tatto, che consente di cogliere i rapporti esatti fra due brani e due scrittori ... Ci vuole una dote ancora più audace: quella di portare, nel proprio sistema nervoso, l'istinto metafisico» (Pietro Citati).
«... scintillante di nessi e citazioni, suggestioni e maliosi accordi, rimandi, congetture, nodi strettissimi presto sciolti in spirali di fumo vagamente oppiaceo. Un vero sollievo, dati i tempi. E un costante, mai espresso, mai sbandierato, atto di fede implicito: la cultura ("alta", se è ancora lecito) è l'unica cosa che conta» (Carlo Fruttero).
Tobino, ne "La brace dei Biassoli" (1956), il suo libro più personale e doloroso, rende omaggio alla figura della madre, Maria Biassoli, da poco scomparsa. Come nella "Vita nova" dantesca, lo scrittore muove dal dolore per la perdita di una donna amata assurta ad archetipo di femminilità, snodando poi il racconto, quasi un succedersi di quadri di una sacra rappresentazione, o di stanze di una canzone, tra prosa e poesia, in una continua alternanza tra opposte tensioni emotive e stilistiche. Al centro, la figura di Maria che, tornando a Vezzano, il paese di famiglia incastonato tra monti e fiume, in un entroterra ligure aspro e dolcissimo, sente rinascere le antiche emozioni, la brace rifarsi fiamma; e attorno a lei, i membri della famiglia Biassoli, un formicolare di volti e vicende che spingono l'autore - in un romanzo che a detta di Italo Calvino si presenta come "il più sciolto e limpido nella sua prosa" - a rimeditare "sugli affetti e i legami fra chi vive e chi muore, sul valore e il segno del nostro stare al mondo".
Pochi altri autori riescono come McEwan a far appassionare il lettore ai destini di personaggi quantomeno discutibili, «eroi» che attraggono in misura proporzionale al disgusto che suscitano. È il caso di Michael Beard: basso, grasso, inverosimile seduttore, fedifrago patentato e marito seriale al quinto matrimonio, a poco più di cinquant'anni è ormai uno svogliato e dispotico burocrate della scienza da quando la genialità, che pure in gioventù gli valse il Nobel per la Fisica, lo ha abbandonato. Da successore di Einstein ad almanacco vivente dei sette peccati capitali (con una certa predilezione per gola e lussuria): la parabola esistenziale di Beard sembra condurlo inesorabilmente verso la malinconica contemplazione della propria decadenza. Almeno fino al giorno in cui gli viene affidato il Centro nazionale per le energie rinnovabili: tra i suoi sottoposti non tarda a mettersi in luce un giovane, Tom Aldous, tanto brillante quanto ingenuo (almeno agli occhi del cinico Beard) nella sua aspirazione a «salvare il mondo». Eppure il progetto di Tom non è così campato per aria se, come dice, la sua scoperta è in grado di risolvere una volta per tutte i problemi energetici del pianeta. L'incontro tra il giovane ricercatore e il maturo scienziato avrà sviluppi inaspettati come solo un abile (e malizioso) architetto del romanzesco quale è McEwan riesce a concepire: un intreccio che, lungi dall'essere fine a se stesso, è l'occasione per un confronto spietato con una morale collettiva indifferente, al di là degli slogan, ai rischi del riscaldamento globale.
Con Solar è come se l'autore inglese rivedesse il detto di Marx: tragedia e farsa non devono darsi necessariamente in successione, ma possono riverberarsi l'una nell'altra nello stesso momento. Ciò che condividono, e verso cui entrambe tendono, è la catastrofe: sia essa quella individuale di un uomo ridicolo, o quella planetaria di un'umanità che si autocondanna all'estinzione.
«Un'opera incredibilmente riuscita, forse la migliore di McEwan ad oggi».
Financial Times
«In Solar, McEwan fa sfoggio di una giocosità, di uno humour, di una varietà di stili che non avevamo mai visto prima».
Spectator
«La casa a volte mi sembrava troppo stretta per contenere tante vite, come se gli spazi mancassero e ogni incontro fosse un urto, come accade ai baristi dietro al bancone».
Una famiglia italiana uguale a tante altre e diversa da tutte. Trent'anni di illusioni e paure raccontati dalla cameriera Italia, arrivata a casa Marziali da un misterioso Istituto dov'è stata formata per compiere al meglio la sua missione: vegliare sulla famiglia accompagnandone nell'ombra l'esistenza.
È come sfogliare un album dove le foto sono incollate in fretta e a volte sono staccate, una collezione di immagini precise eppure leggermente sfocate, come se il tempo le consumasse dall'interno togliendo loro ogni possibilità di bloccare gli attimi. La famiglia Marziali cerca di restare in posa, immobile nella serenità, ma colpe antiche e smanie recenti la agitano di continuo. Il padre ingegnere è un reduce della Repubblica Sociale Italiana, vorrebbe dimenticare molte cose ma non può; la madre, bella e distante, teme la vita, se ne protegge, fino a scivolare nell'assenza. E i figli sono tre discese che fuggono via dalla morsa della realtà: Tancredi entra nei gruppi terroristici dell'estrema destra, nella Roma degli anni di piombo; Giovanni sceglie l'arte come soluzione al problema dell'esistenza, ma le parole non lo salvano; Marianna ama senza tregua, ama e sogna e ogni volta cade, fino a farsi male, e ogni volta si rialza.
E Italia guarda e protegge tutti, spolvera e ascolta, cuce e aggiusta. Ma chi è questa ragazza che sa tanto più degli altri, che sembra rispondere a un ritmo più lento e profondo, al battito che precede e contiene ogni vita?
Ha scritto Italo Calvino che se il denaro rappresenta per Balzac una forza motrice della storia e per Dickens una pietra di paragone dei sentimenti, "in Mark Twain il denaro è gioco di specchi, vertigine del vuoto"; e di tale gioco e vertigine la testimonianza più emblematica viene offerta da questo racconto, apparso per la prima volta nel 1899, vero e proprio apologo che ha per protagonista un'intera cittadinanza, famosa per la sua sbandierata onestà, che si vede messa alla prova da un lascito di quarantamila dollari che paiono piovuti dal cielo, o meglio da un donatore sconosciuto per un destinatario altrettanto sconosciuto e da scovare. Sarà una beffa maligna, ma che servirà a svelare il terreno fecondo di ipocrisia su cui è cresciuta la nomea puritana della città di Hadleyburg. Ad uno ad uno tutti i notabili del luogo infatti si lasciano tentare, e per di più accusandosi l'un l'altro o tacitando la propria coscienza in veri e propri esercizi di oblio volontario. La tanto decantata onestà non era che una tenue, precaria e fittizia rispettabilità sociale, quella sì difesa strenuamente; e come sempre nella grande arte umoristica di Mark Twain, il comico era già nelle cose, bastava soltanto iniziare a guardarle.
Anno Domini 1553. Il Ducato di Milano è dominato dagli Asburgo di Spagna. Ludovico di Valois, arrogante e feroce, comandante della guarnigione della città, è l’uomo dal pugno di ferro. Ed è anche l’avversario contro il quale Fulvio Alciati, coraggioso guerriero errante, è fatalmente destinato a scontrarsi: nella gerarchia, nell’etica e forse fi no all’acciaio. Tra loro, Mariangela Comencini, donna dallo spirito indomabile sulla quale pesa un’accusa di stregoneria, impegnata in una fuga senza fi ne dalla persecuzione ossessiva di padre Guaraldo Giussani, un inquisitore con fi n troppi lividi sull’anima. Narrato con l’effi cacia di un thriller ma sostenuto da una rigorosa ricostruzione storica, I bastioni del coraggio è l’affresco crudo ma anche epico, a tratti addirittura poetico, di un’epoca in cui il potere è assoluto, la crudeltà è norma e la compassione è sempre troppo lontana.