
Vigilia della Grande Guerra: Leon Courteney, nipote dell’alto ufficiale britannico Penrod Ballantyne, è un giovane e valoroso sottotenente dei King’s African Rifles. Ma la sua vera passione è la caccia grossa, cui si dedica col fedele e coraggioso sergente Manyoro, guerriero masai, cui è legato da un forte sentimento d’amicizia. Leon diventa così una guida esperta di personaggi importanti e facoltosi, tra i quali spicca un ospite d’eccezione: il presidente americano Theodore Roosevelt. Ma l’appartenenza di Leon all’esercito di Sua Maestà lo porterà a essere protagonista di un gioco molto rischioso, di portata internazionale. In un entusiasmante crescendo si riveleranno i diabolici intrighi con cui, dal cuore profondo dell’Africa, magnati, avventurieri e nobildonne sembrano decidere le sorti del Vecchio Continente. Sarà però l’incontro con una donna bellissima ed enigmatica a cambiare per sempre il destino di Leon, ormai conosciuto come il più grande cacciatore del continente.
Tre amici milanesi, Scheggia, Accio e Ragno, si ritrovano al funerale di un loro caro amico, Fedro, morto in uno strano incidente mentre si trovava in Africa, da solo, in moto. Già, la moto, e nello specifico la Harley Davidson, era ciò che aveva cementato l’amicizia del quartetto, in tanti anni di viaggi, prima che ognuno prendesse strade diverse – e meno spensierate. E lì, davanti a quella bara, scatta un’idea pazza: partire di nuovo, insieme e senza esitazioni, lasciandosi tutto per un po’ alle spalle, per portare le ceneri dell’amico nel luogo che amava di più, «in fondo» al Sahara algerino. Ne nasce un viaggio eccezionale, fitto di ricordi, di storie, di incontri e scontri, di amori, di avventure e disavventure. Un viaggio che cambierà i tre amici e in fondo al quale la moto, l’Harley, così inadatta ad attraversare il deserto, diventa simbolo di una libertà riconquistata e del desiderio di sognar e ancora, anche quando sembra irragionevole.
È una mattina d’inverno del 1777 a Vienna quando Franz Anton Mesmer, il medico forse più noto della città, scende le scale che dagli alloggi notturni conducono alle stanze in cui esercita la professione. Fuori è buio pesto e fa freddo. Cinque minuti alla tastiera della glassarmonica, giusto qualche accenno di Mozart, Haydn o Gluck, sarebbero forse il modo migliore di cominciare la giornata. Ma Mesmer ha fretta di raggiungere il suo studio. Lo attende una visita importante, forse la più importante della sua carriera: deve esaminare la figlia cieca del funzionario imperialregio Paradis.
Della nuova paziente ha sentito dire tutto e il contrario di tutto. Che è brutta. Che è bella. Compresa nel suo dolore. Che si veste in modo poco adatto. Che suona il pianoforte meglio di quanto canti. Che ha una cataratta completa. Che finge soltanto di essere cieca. Solo su un punto sono tutti concordi: all’Imperatrice la ragazza sta enormemente a cuore dal giorno in cui, nella chiesa di corte degli Agostiniani Scalzi, ha cantato e suonato al suo cospetto commuovendola oltre ogni misura.
Per Mesmer, è chiaro, la giovane Paradis rappresenta un’occasione unica. Una volta accolta a corte, infatti, la sua figura di medico cesserebbe d’incanto di essere così controversa, e il suo metodo, la trasmissione del fluidum, la materia più fine che ha l’universo, attraverso l’uso di magneti e l’imposizione delle mani, sarebbe accettato da ministri e segretari, cameriere e valletti, padri e figli, e da tutte le fanciulle del Paese.
Il tempo di preparare lo studio, di sentire una carrozza arrivare e Mesmer si trova al cospetto del Segretario di corte e di Maria Theresia Paradis: una bambola pallida, imbellettata di cera, con una parrucca che sovrasta tutti, una drammatica cascata di pieghe nell’abito celestiale, gli occhi chiusi, la voce attutita come se fosse avvolta nella lana, il volto che assomiglia a un nido abbandonato da tempo.
Riuscirà Franz Anton Mesmer, medico tedesco in Vienna, genio per alcuni e ciarlatano per altri, a guarirla?
Romanzo intriso di magia letteraria e storia, La musica della notte indaga, con l’ammaliante melodia della sua prosa, la vicenda vera dell’incontro tra la più raffinata pianista della Vienna di fine Settecento e Franz Anton Mesmer, lo scopritore del magnetismo animale ammirato da Mozart, Kleist e Olov Enquist e considerato da molti il precursore della psicanalisi.
Nel 1892, a Manhattan, un’elaborata insegna in bronzo fa bella mostra di sé. Tiffany Glass & Decorating Company declama la scritta che campeggia sopra una solida porta di vetro molato. Oltre quella porta, si schiude un grande salone con enormi vetrate appese al soffitto e imponenti mosaici poggiati alle pareti. E poi vasi dalle linee morbide, pendole, candelabri Art Nouveau, lampade con paralumi di vetro soffiato in mille splendidi colori.
È il regno di Louis Comfort Tiffany, pittore di quadri orientalisti raffiguranti minareti, moschee e beduini, secondo il gusto del tempo. Gardenia all’occhiello, baffi fluenti, Louis Comfort Tiffany ha creato il suo atelier coltivando un progetto ambizioso: estendere la sua idea dell’arte come «bellezza che non ha bisogno di spiegazioni perché basta a se stessa» alla decorazione del vetro.
La Tiffany Glass & Decorating Company è, tuttavia, anche il regno delle Tiffany girls, le ragazze di Tiffany, come sono chiamate a Manhattan le donne che l’artista ha riunito attorno a sé. Ogni giorno Louis le esorta ad abituarsi a riconoscere la bellezza in ogni momento, a «cogliere la grazia di una forma, l’eccitazione di un colore». Radunate nel laboratorio al quinto piano, le ragazze, però, non hanno bisogno di soverchie esortazioni per tagliare il vetro con estro, e disegnare e dipingere alacremente.
Vi è Wilhelmina, impertinente diciassettenne dall’alta statura, Mary diciottenne dai capelli rossi, Cornelia, riservata e taciturna, Agnes, l’altera, la prima donna cui Tiffany ha accordato l’onore di dipingere i soggetti delle sue vetrate. E, infine, Clara Wolcott Driscoll.
Giovane vedova in un laboratorio dove vige la regola, imposta dal padre di Louis, di impiegare solo fanciulle non maritate, Clara è l’artefice autentica delle creazioni Tiffany. È lei, infatti, a ideare quegli oggetti meravigliosi, i paralumi di vetro soffiato, decorati con uno stile che sembra celebrare la gioia e il mistero di un secolo che deve ancora iniziare.
Una ragazza da Tiffany è, soprattutto, la sua storia. Una storia in cui Susan Vreeland non celebra soltanto un talento misconosciuto, ma illumina anche gli slanci, i desideri e le ambizioni di una giovane donna nella metropoli americana pronta a tuffarsi nella grande avventura del Novecento.
Germain è un po' lo “scemo del villaggio”. Centodieci chili di muscoli per sorreggere una testa selvatica, un passato di mancata educazione sentimentale e un presente di conta dei piccioni e pomeriggi spesi al bar. Nel più ordinario dei luoghi, un parco pubblico, Germain fa un incontro straordinario. E nasce la più improbabile delle complicità, quella tra un gigante semianalfabeta e una vecchina con i capelli viola e la passione per i libri. Perché l'intelligenza è altra cosa dalla cultura.
Sam è una donna realizzata. Ha quarantaquattro anni, una galleria d’arte, una vita sociale ricca e piena. Le manca solo l’amore, ma è certa che prima o poi qualcuno la prenderà per mano. Per il momento, gli uomini sono solo un breve lampo nel cielo sereno dell’amicizia.
Una sera, dalla radio accesa, una voce sembra rivolgersi proprio a lei. Le parla di musica e di bellezza, le apre le porte di un mondo fino a quel momento quasi sconosciuto. Sam ascolta, sempre più attratta da quelle sfumature sonore così calde e avvolgenti. Ma ci si può innamorare di una voce? Sam è decisa a scoprirlo. Esce allo scoperto, dalla quieta riservatezza in cui vive. Contatta la Voce, che da quel momento in poi parla davvero solo con lei. Il dialogo cresce, la confidenza aumenta fino a trasformarsi in passione: un rapporto vissuto senza mai vedere l’altro, scoprendolo attraverso le parole, i profumi, il gusto e le carezze, in un universo di sensazioni che va dritto all’anima, oltre la superficie, oltre la pelle. Un amore cieco, assoluto, che minaccia di inghiottire ogni certezza, e che rischia di svanire al primo sorgere del sole...
In fondo a una valle, la cava di gesso domina il paesaggio. Una ferita larga, bianchissima nella montagna. Un cratere a cielo aperto e le bocche spalancate delle gallerie che scendono nel cuore della terra. L’andirivieni dei camion che impolverano le strade. Un camionista riconosce tra i nuovi assunti il figlio di un vecchio collega. Il ragazzo ha visto il padre rimanere invalido, schiacciato da un blocco di gesso. Non è convinto della strada che ha scelto, ma in tempi di vacche magre gli sarebbe sembrato quasi un insulto non accettare il posto che gli è stato offerto. E timidamente, non avendo cuore di parlarne al padre, che tanto ha fatto per fargli avere quel posto, troverà il coraggio di parlarne al camionista. Che non avrà nessuna risposta da dargli al momento giusto. Segnando così, involontariamente, il destino del giovane. E tutto intorno continua a posarsi su di loro la polvere degli scavi, quella dei cristalli di gesso, difficile da mandare via. Una polvere che ti intasa dentro e ti porta via la voce e il respiro. Spesso non solo quello.
Pelham Grenville Wodehouse (Guildford, Surrey, 1881 - Southampton, New York, 1975) è il più importante scrittore umoristico del '900 e ancora oggi uno dei più popolari. Le sue opere - circa 90 romanzi e svariate raccolte di racconti, oltre a commedie e soggetti per film - sono pubblicate regolarmente in non meno di 25 lingue. Il suo personaggio più famoso, una figura ormai proverbiale, è Jeeves, l'impeccabile e onnisciente maggiordomo al servizio di Bertie Wooster, giovane signore che si caccia sempre nei guai. I due sono protagonisti di 12 romanzi e numerosi racconti.
Stavolta non mi appello alla rabbia, all’orgoglio, alla passione. Mi appello alla Ragione.” La pubblicazione de La Rabbia e l’Orgoglio, dopo il crollo delle due Torri l’Undici Settembre 2001 a New York, genera un dibattito senza precedenti nel mondo intero. In risposta agli attacchi e alle minacce ricevuti per aver espresso il proprio punto di vista in assoluta libertà e senza condizionamenti, Oriana Fallaci decide di lavorare a un post-scriptum intitolato “Due anni dopo”. Pagine ricche di fatti, notizie, riferimenti, da cui nasce questo nuovo saggio, La Forza della Ragione, un’analisi rigorosa e serrata della storia dell’Europa in chiave filosofica, morale e politica, un approfondimento del rapporto tra Occidente e Islam. “Scriverlo era mio dovere.” Identificandosi in un tal Mastro Cecco che nel 1328 viene bruciato vivo dall’Inquisizione a causa di un libro, la Fallaci si presenta come una Mastra Cecca eretica, irriducibile e recidiva che sette secoli dopo fa la stessa fine. Ma non senza battersi per difendere i valori in cui crede e in cui è cresciuta. “Se un’ortica m’invade, se un’edera mi soffoca, se un insetto mi avvelena, se un leone mi morde, se un essere umano mi attacca, io combatto. Accetto la guerra, faccio la guerra. La faccio con l’arma che m’appartiene, che porto sempre con me, che uso senza riserve e senza timidezze, è vero. Ossia l’arma incruenta dei pensieri espressi attraverso la parola scritta, attraverso le idee e i principi che ci distinguono dagli animali e dai vegetali.” Nell’Appendice di questa nuova edizione BUR de La Forza della Ragione sono riprodotti documenti autografi inediti relativi alla versione americana del testo.
Nell’Ottocento l’esperienza dell’amore ha trovato con la parola scritta il riflesso della sua potenza misteriosa e insopprimibile. Nessun altro secolo, infatti, è riuscito a rivendicare con altrettanta forza l’alterità della passione rispetto alle convenzioni sociali e all’ottusità del moralismo. E il microcosmo del racconto, in virtù della sua concentrazione emotiva, si rivela l’esito ideale di questo percorso. I testi presentati qui offrono un saggio della varietà stilistica con la quale, nel corso del secolo, il narrar breve ha ritratto la passione che “tutto vince”: dall’esaltazione della sensualità, rappresentata con raffinato esotismo da Flaubert o con ardore lussureggiante da D’Annunzio, all’analisi dei turbamenti interiori, che siano oggetto dell’introspezione psicologica di Dostoevskij o della rappresentazione documentaria di Verga. Ad affascinare, poi, è il multiforme connubio di amore e morte, riscatto dell’anima dalla meschinità e dalle costrizioni terrene, come nella rivisitazione kelleriana di Romeo e Giulietta, estremo atto vendicativo imposto dalla tirannia dei sensi, come nella storia di “terribile passione” firmata da Camillo Boito, o inevitabile approdo di una fantasia morbosa, come l’estro visionario di Edgar Allan Poe ci lascia intendere.
Quando arrivavano quelli di città al Boscaccio c’era gente che stava in forse se uscire di casa con la doppietta carica a pallettoni oppure a palla.
Guareschi
In quella Bassa padana, un tempo popolata dal prete e dal sindaco più amati d’Italia, ritroviamo una generazione tutta nuova: Chico, Gigino, Giacomino, Cesarino, la Gisa e Paolino… I grandi rivali dell’epica di Guareschi, don Camillo e Peppone, si fanno da parte per lasciare spazio ai loro figli, nipoti e piccoli amici che scorrazzano per il Boscaccio: una masnada di ragazzini alle prese con gli aspetti più duri della vita, raccontati con sentimento e tocco poetico. Trentatré storie, scritte tra il 1942 e il 1966 e scelte dai figli dello scrittore, e il fumetto Ciccio Pasticcio e i due compari, ideato e disegnato dallo stesso Guareschi, diventano un grande libro di favole in grado di affascinare i lettori di ogni età.
Quali sono i principi su cui si fonda la nostra civiltà attuale? È in agonia, destinata forse a morire? Un romanzo che indaga le ragioni della crisi morale, spirituale, culturale ed economica che stiamo attraversando.
La ricerca costante del passato dell’archeologo. La rabbia dell’adolescente. L’insopprimibile istinto morale del filosofo. La forza salvifica della poesia. La perdita di senso della trascendenza.
Come in un moderno Decamerone, sette persone si radunano a discutere in una villa isolata sulla condizione della civiltà. Il padrone di casa ha scelto con cura gli invitati: un archeologo, un’adolescente, un filosofo, un generale, una psicoanalista, un poeta, un prete. Ognuno di loro avrà un giorno a disposizione per esaminare, alla luce delle proprie esperienze o della propria disciplina, le ragioni del declino che sta sgretolando la politica, la morale, la memoria: in poche parole, i fondamenti della civiltà. La giustizia è in mano all’interesse, il concetto di democrazia è ridotto a una parola priva di significato, si è cancellata la differenza tra bene e male. Mentre affiorano ricordi, nostalgie, speranze, si leva il grido disperato della ragazza, che urla la sua rabbia per tutto quello che avrebbe potuto essere e non sarà, il suo dolore per una vita bruciata dall’abisso in cui stiamo precipitando. Vittorino Andreoli, uno dei più acuti interpreti del mondo d’oggi, ci offre un romanzo complesso e appassionato, che attraverso una finzione narrativa raffi natissima e densa di echi letterari scuote le coscienze, costringendoci ad aprire gli occhi sulla sorte di una civiltà ormai alla fine.
Vittorino Andreoli, è uno dei più autorevoli psichiatri italiani. Oltre ai numerosi libri di saggistica, le sue ultime opere narrative uscite da Rizzoli sono Il reverendo (2008), Il corruttore (2009) e, per la Bur, nel 2010, Un pellegrino, Nuovo Genesi e Vecchio mondo.