
A intervalli regolari di qualche mese, Tridib compare alla porta di casa dei suoi zii e cugini. Le gambe incrociate strette, la fronte coperta di sudore, dopo i necessari convenevoli imposti dall'etichetta, si precipita direttamente nella stanza da bagno, spinto dai capricci del suo apparato digerente, rovinato dai fiumi di tè nero ingollati nei chioschi ai margini delle strade di Calcutta. Quando ne riemerge, mostra il consueto piglio disinvolto del figlio di un funzionario del Foreign Office abituato agli agi di una spaziosa casa avita. Sprofondato nel divano buono, inizia a dissertare sui più svariati argomenti: le stele mesopotamiche, il jazz dell'Est europeo, i costumi delle scimmie arboricole, il teatro di Garcia Lorca e, soprattutto, l'Inghilterra, abitata da compite fanciulle come la signorina Price. Incantato, il cugino più piccolo di nove anni non perde una parola delle sue storie fantastiche, delle sue mirabolanti descrizioni di un'Inghilterra leggendaria e lontana. Assorbe a tal punto l'arte di narrare di quel parente bizzarro dal volto magro e stizzoso, dai capelli arruffati e dagli occhi neri che scintillano dietro le lenti cerchiate d'oro, da essere capace lui stesso, crescendo, di dare voce ai ricordi della sua infanzia, alle vicende della sua famiglia e a quelle più grandi dell'India moderna.
A New York, in un futuro non molto lontano, Antar, un egiziano addetto alle ricerche telematiche per conto di un'organizzazione internazionale che si occupa dell'esaurimento delle risorse idriche del pianeta, si imbatte in una vecchia tessera di riconoscimento, un ID di una compagnia presso cui era impiegato nei primi anni Novanta del Ventesimo secolo. Antar è curioso di sapere a chi possa essere appartenuto quell'ID consunto e immediatamente interroga Ava, il suo computer di ultima generazione. La tessera era di proprietà di un indiano, L. Murugan, un "soggetto disperso dal 21 agosto 1995" e "visto l'ultima volta a Calcutta", dove si era recato per vedere il monumento al maggiore medico Ronald Ross dell'Indian Medical Service. Quel Ronald Ross che "nel 1898 scoprì in che modo la malaria viene trasmessa dalle zanzare". Così comincia questo romanzo. Tutto ha inizio nel lontano 1898, con la scoperta, appunto, del cromosoma Calcutta, una conquista scientifica apparentemente inspiegabile in base agli strumenti e alle conoscenze del tempo. In realtà, la scoperta contiene una "verità" che viene da lontano e si è tramandata attraverso le generazioni in maniera nascosta. Ma cosa nasconde il cromosoma Calcutta? È davvero la chiave di volta dell'intero DNA umano? La soluzione che libererebbe di colpo gli uomini dalle più terribili malattie? E che potrebbe renderli immortali come gli dèi?
I protagonisti di "Dio giocava a pallone" sono ragazzi nati, come l'autore, all'inizio degli anni novanta e ognuno di loro esplora inquieto quel passaggio all'età adulta che li renderà sconosciuti a se stessi. I compiti in classe, con il loro schema quasi calcistico di chi passa la soluzione e di chi se ne appropria, i giorni di scuola dove un buon voto è la possibilità di andare al mare e di innamorarsi al sole, le feste con la luna in cielo e i baci infuocati sulle panchine con partner inattesi, un'isola inventata, metafora dell'adolescenza da cui si esce ritrovandosi perduti, l'ascolto attento e proibito dei desideri del proprio corpo, le intermittenze del cuore e quelle dei sensi, le corse pazze e forsennate con i motorini truccati che trasformano i viali e i lungomari in un nostalgico far west pomeridiano. Con una prosa consapevole e immacolata, Giorgio Ghiotti svela un'adolescenza che è il presente indicativo dello stare al mondo e ci racconta perché nessuno la abbandona mai veramente.
Una spedizione scientifica si è trasformata in un affascinante diario di viaggio. Di questo ci racconta un Libro inconsueto, da scoprire pagina dopo pagina. Sergio Ghione (Venezia, 1949) è medico e ricercatore presso l'Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa. Ha una passione per la geografia e in particolare per le isole. Insieme a tre etologi e biologi marini un giorno di aprile del 1997 è partito per Ascensione, l'isola delle tartarughe.
New Jersey, 2007: qualcosa di molto pericoloso viene rubato da una base militare del governo americano. Quattro agenti segreti si mettono sulle tracce dell'oggetto misterioso, lo inseguono attraverso tre continenti sfidando la morte per portare a termine la missione. Aisha, l'esotico fiore all'occhiello della CIA, Mordechai Dekhnavitsh, il numero uno del Mossad e Viscardi, lo spietato assassino del Vaticano. Tutti i Servizi del mondo sono a caccia della Spia, l'uomo senza nome che ha rubato ciò che potrebbe cambiare le sorti dell'intero pianeta. Un oggetto narrativo senza precedenti, un'esperienza d'intrattenimento unica nel suo genere: J.A.S.T. è un romanzo, ma non è solo un romanzo.
I tre volumi contenuti nel prezioso cofanetto raccolgono i dieci episodi della serie che rivoluzionerà la narrativa d'azione. Ogni episodio di J.A.S.T. ha la durata, il ritmo e lo stile narrativo delle puntate delle fiction televisive americane.
Massimo non è uno sfigato: ce lo hanno fatto diventare. La colpa al novanta percento è di Vito. È lui ad avergli affibbiato il nomignolo di Minimo, e se ti danno quel soprannome negli spogliatoi della piscina, è difficile che gli altri pensino che il tuo è un problema di altezza o di torace stretto. Vito però ha un segreto, un segreto fatto di lividi e serate trascorse trincerato in camera sua, e Massimo, suo malgrado, sta per scoprirlo. Poi c’è Celeste, divisa tra l’essere se stessa o trasformarsi in come mamma e papà la vorrebbero; Stefania, che desidera soltanto dimagrire; Margò, alle prese con un’estate da gigante prima di tornare hobbit a settembre. Intorno a loro, un’intera galassia di amici, parenti e adulti alle prese con una tempesta di incontri e scontri che nel corso di una manciata di giorni li cambierà per sempre.
Sanremo. A poche ore dalla serata finale del Festival della Canzone, un clamoroso omicidio scuote il mondo dello spettacolo e l'Italia intera: uno dei cantanti più amati dal pubblico è stato ucciso nella sua lussuosa suite con un colpo di pistola al volto. Delle indagini è incaricato il commissario Oscar Borrani - qualche chilo di troppo, un matrimonio fallito che brucia ancora e una gran voglia di chiudere il caso nel minor tempo possibile: in vent'anni di carriera, di morti ne ha già visti abbastanza, e sa che portano sempre rogne. Ma i morti non sono tutti uguali, ed Enrico Bertini in arte Chico non è mai stato un uomo come gli altri. Sregolato, geniale, eccessivo in tutto nell'amore per le donne, il rischio, il successo - ha vissuto bruciando ogni tappa, spingendo sempre al massimo, lasciandosi alle spalle un esercito di nemici. E di segreti che soltanto il sangue della vendetta potrà lavare via. "La confessione" di Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, è un thriller che ci trascina nel mondo sfavillante dello spettacolo, mostrandoci dall'interno la sua anima nera.
La donna sorride all'obiettivo, timida, e si stringe alla vita del marito. In grembo a lui, un bimbo di otto anni, protetto in un abbraccio affettuoso. Sullo sfondo, un fiume placido, le dolci colline del Monferrato e l'aria tersa delle domeniche di primavera. La vecchia foto sul comò rimanda a un tempo perduto, vent'anni prima, quando la madre era viva e loro erano ancora una famiglia. Oggi Luca non ricorda l'ultima volta che ha sorriso: quello che gli resta sono sogni falliti di attore e un vuoto che lo divora. Finché riceve una chiamata dall'ospedale: Eduardo, il padre, ha il mesotelioma, il "tumore dell'amianto". Quello che a Casale tutti conoscono bene, perché colpisce e uccide chi ha respirato le polveri della fabbrica Eternit: gli operai, le donne che lavavano le loro tute, i figli che correvano a salutarli la sera, a semplicemente chi è nato in quell'aria maledetta. Luca, che nulla sapeva di quell'orrore, sente che deve fare qualcosa: per aiutare il padre e superare finalmente il muro di rancore che li separa, ma anche per gli altri come lui amici, colleghi e vittime - colpevoli solo di aver voluto "un posto sicuro". Questo romanzo, portato al cinema dai due autori, è un'intensa storia d'amore e di riscatto, di dolore e di denuncia, che prende spunto da vicende tristemente vere.
Hayat, diciotto anni, araba. Daniel, venticinque anni, americano. Ruth, diciannove anni, ebrea. lshi, trent'anni, indiano. Quattro ragazzi, quattro mondi. Sconosciuti in treno, da Milano a Roma: poche ore che possono durare un'eternità. Il tempo di un viaggio, l'occasione per conoscersi, piacersi, litigare, odiarsi, scoprirsi. Una storia di confronti e possibilità.
Aisha Farouk è una donna libanese che vive in Italia. Il suo compagno, libanese anch'esso, si è trasformato da normale musulmano in un estremista islamico. Oltre ad averla costretta al burqa e alla morte civile, è riuscito a rapire il loro unico figlio, Marco, e ad affidarlo a una zia di Beirut. Aisha non vede suo figlio da cinque anni perché la famiglia del compagno, forte anche di una sentenza del tribunale islamico, l'ha dichiarata una persona indegna di essere madre. Oggi Aisha si è liberata del burqa e del compagno. Ma non è ancora riuscita a rivedere il figlio. La battaglia legale per riallacciare quel cordone ombelicale spezzato è ancora sospesa e resa complicata dal coinvolgimento di ambasciate, diritto internazionale e fondamentalismi vari. “Lettera al mio bambino rapito” è il racconto, giorno dopo giorno, di questa vicenda tanto incredibile quanto coinvolgente. Comincia con la felice infanzia di Aisha in una Beirut appena ricostruita dopo la guerra, col viaggio in Italia per studiare medicina, lo sbocciare di un amore che si trasforma in prigione, sevizie e negazione dei diritti umani, fino al peggiore degli incubi: il rapimento e la privazione del diritto di essere madre. Una storia terribile e straordinaria, il cui finale è ancora tutto da scrivere.
Yasmine Ghata narra, con una lingua fluida, sinuosa ed elegante, la storia della vita di Rikkat Kunt, calligrafa all'Accademia di Belle Arti di Istanbul, intrecciandola con quella della Turchia e delle sue più profonde radici culturali. L'elogio dell'arte della calligrafia, centrale nella cultura islamica (che vieta la riproduzione delle figure umane), suggerisce un accesso al divino attraverso la bellezza e la gioia anziché la jihad e il martirio: il piacere della mano che impugna il calamo e gli odori inebrianti di inchiostri antichissimi scongiurano la lama del folle di dio o il fumo del tritolo dei kamikaze.