
Fuori, Città del Messico splende delle luci della notte e il rumore della città si leva alto. Lupita non vuole sentire. Ha chiuso tutte le finestre, ha abbassato tutte le tende. Vuole stare sola e cercare di non pensare. E l'unico modo in cui riesce a farlo è stirare. Il gorgogliare dell'acqua che si scalda, il vapore denso che offusca la vista, il profumo dei panni puliti che si intensifica nell'aria hanno il potere di calmarla. Perché le ricordano sua madre e la felicità di quando era bambina. Ma quei tempi sono ormai lontani, Lupita è diventata una poliziotta e oggi ha fallito nel compito che le era stato affidato, proteggere un politico durante un trasferimento. Le sue mani tremano ancora e questo la riporta a una notte di tanti anni prima, quando la sua vita si è interrotta. Perché Lupita è una donna spezzata e il suo cuore è chiuso in un nodo di dolore che nasconde un segreto del suo passato che non può dimenticare. Ma adesso la sua vita è in pericolo, perché durante la missione Lupita ha visto qualcosa che non doveva vedere. Per salvarsi deve indagare e trovare i reali colpevoli, anche se questo rischia di riaprire le ferite del suo cuore. Ma solo così, forse, potrà riaffacciarsi alla vita e all'amore...
I fregi del Partenone uniscono i destini di due donne straordinarie, vissute a due millenni di distanza l'una dall'altra. Mary Hamilton Nisbet è una giovane nobile scozzese, da poco sposa di Lord Elgin. Da Londra deve trasferirsi a Costantinopoli per seguire il marito appena nominato ambasciatore. Aspasia è coetanea di Mary, ma vive nell'Atene del V secolo a.C. Dapprima schiava di Pericle, finirà per conquistarlo diventandone amante e confidente. Mary e Aspazia utilizzano il loro fascino e la loro astuzia per raggiungere due obiettivi paralleli: portare a Londra i marmi del Partenone la prima, fare in modo che la nuova agorà progettata da Fidia su incarico di Pericle sia terminata, la seconda. Sullo sfondo delle due storie d'amore intense e coinvolgenti, l'affresco storico trascina il lettore nel cuore dell'età napoleonica e del mondo greco antico.
Un'autobiografia suddivisa in settantasette storie. Il nome del protagonista è Esti. E così che i compagni di università chiamavano Esterházy. Esti come il personaggio inventato dal grande scrittore ungherese Dezsö Kosztolányi. Ed Esti è molte persone. È il rampollo di una stirpe di antico lignaggio, dunque vissuto in tante epoche, morto e risuscitato tante volte. Esti è il personaggio qui e ora, ma è anche tutti gli altri che l'hanno preceduto, e che seguiranno. Esti è l'insieme di frammenti di una famiglia che lui conosce già diseredata, stretta nella morsa del socialismo, consapevole che il concetto di libertà è sempre relativo. È uno sguattero che grazie a un gusto sopraffino diventa una celebrità. È il figlio ribelle che non ne vuole sapere di seguire una professione sicura. Esti è un ragazzo, e poi una ragazza, un'affascinante adolescente. Una cameriera eletta La Bella del Kentucky che per contratto deve mangiare quantità impressionanti di hamburger. Esti forse è stato scambiato in culla, perché troppo diverso dal resto della sua famiglia. Esti un'estate su una spiaggia italiana: i quattro figli che vogliono giocare a palla con il padre paralizzato. Esti che si sente come una gallina, una gallina che alza la zampa con la stessa grazia di una Pina Bausch...
Una donna. O novantasette differenti creature? Il libro si direbbe un inno all'eterno femminino nella sua inarrestabile e travolgente ricchezza di caratterizzazioni, in un continuo ondeggiare fra il sublime, il divino, il comico, il grottesco, l'ovvio e il volgare del quotidiano. Ognuna di queste donne è un'anti-Barbie: ora dea arrogante e inavvicinabile, ora amante capricciosa e passionale, ora moglie e madre detestabile, sa di Chanel n. 5 o di cipolle, ma è sempre irresistibile in tutte le sue metamorfosi. Travolto dalla vitalità di lei, il maschio narratore e personaggio di queste storie si tormenta nel desiderio, languendo nella propria inabilità e soggezione di eterno bambino-adolescente. Un balletto irregolare, in questa galleria di figure femminili con le quali i lettori non possono non entrare in un ambiguo rapporto di fascinazione, avvinti da opposte emozioni di repulsione e attrazione.
Esterházy resuscita la madre perché racconti la sua amicizia o sarebbe meglio dire flirt con il "dio del pallone" Puskás, sfruttando così l'occasione per fare un ritratto di due eventi fondamentali della storia ungherese: la rivolta anti-sovietica del '56 e la leggendaria nazionale magiara del '54. Due miti, due sconfitte, due rivoluzioni perse. Esterházy ci riporta a un'epoca romantica del calcio, quand'era infarcito di leggenda e morale, quand'era l'unico modo per sognare un avvenire diverso, o semplicemente l'unico sfogo per dimenticare povertà e sofferenza. Unire in un'autobiografia romanzata la figura aristocratica di Lili Esterházy con il mito Ferenc Puskás è un modo per fare un'apologia del calcio, nella sua dimensione estetica e in quella politica. Il calcio come evasione totale dall'asfissia della dittatura, il calcio come vita parallela per fuggire dalla paura. Piccoli aneddoti che raccontano la sopravvivenza, la resistenza del popolo ungherese. "Non c'è arte" è un romanzo dove si passa con semplicità disarmante dal dolore al sorriso, dalla paura della dittatura alla gioia di una partita di pallone.
"Tuo è il regno" ci immerge in uno spazio di cui tutto ignoriamo all'inizio e che presto diventa parte incancellabile della memoria: uno spazio dagli oscuri confini qui chiamato l'Isola, una tenuta alla periferia dell'Avana composta dal'Aldiqua, un insieme di edifici fatiscenti, porticati e cortili, e dall'Aldilà, un giardino lussureggiante in cui molti si sono addentrati senza far più ritorno. Siamo nelle ultime settimane che precedono la rivoluzione cubana. L'atmosfera è carica, tesa, ma solo per allusioni si viene a sapere qualcosa di ciò che accade altrove, perché l'Isola è anzitutto un mondo autosufficiente, dove appaiono in successione, come attraversando un palcoscenico, i protagonisti del romanzo.
Era stato il suo amico aviatore, quello che chiamavano il Moro, a dirgli che l'importante è trovare il palazzo. E quando il bambino Victorio gli aveva chiesto: "Moro, quale palazzo?", gli aveva rivelato che a ciascuno di noi, fin dalla nascita, è stato destinato un palazzo, e che il nostro compito è cercarlo. Adesso Victorio ha quarantotto anni, e il tugurio in cui vive sta per essere demolito. Prima che ciò accada egli dà fuoco ai suoi pochi beni e, portandosi dietro solo un volume dei "Mémoires" di Saint-Simon, la fotografia del Moro che fa "ciao" dal suo aeroplano e un telo da spiaggia molto colorato, incomincia a vagabondare per le strade dell'Avana.
Madrid: tre sorelle, tre donne assai diverse. Rosa, elegante e coriacea donna in carriera, le sue insicurezze le sopisce a suon di turni estenuanti di lavoro e distaccati atteggiamenti da top manager. Ana, vulnerabile e docile casalinga, le seppellisce mettendosi ai fornelli, lustrando pavimenti già splendenti, crogiolandosi nell'atmosfera familiare. Cristina, invece, guarda dritte negli occhi le sue paure, le affronta, mantenendosi sempre dolorosamente lucida; ben più lucida delle sue sorelle, nonostante il frequente ricorso all'alcol e alle droghe.
Maria è stata abbandonata da poco. Raquel si è vista costretta a lasciare il suo amante, un uomo sposato. Elsa non riesce a superare il trauma di uno stupro e Susi quello della morte del fratello. Le quattro vivono sole, senza legami sentimentali, si mantengono, hanno una carriera a cui pensare, e condividono la stessa città, che è solo un alveare caotico e anonimo in cui nessuno si conosce e mostra il minimo interesse per i problemi degli altri.
Calliope, detta Callie, poi Cal, una rara specie di ermafrodito, ha vissuto i primi quattordici anni della sua vita come bambina, senza che nessuno si accorgesse della sua anomalia, fino a quando l'arrivo della pubertà l'ha sottoposta (sottoposto) a inevitabili trasformazioni. E adesso, uomo adulto, vuole scoprire le origini della mutazione genetica responsabile di questa sua "eccentricità biologica", e per farlo ripercorre l'intensa, drammatica e a sua volta alquanto "eccentrica" storia della famiglia Stephanides.
La scoperta della propria sessualità, il tumulto dell’adolescenza, l’amore dentro e fuori la famiglia: sono i temi che hanno fatto la fortuna dei romanzi di Jeffrey Eugenides e che ora tornano in questa prima, straordinaria raccolta di racconti. Una cosa sull’amore ha per protagonisti uomini e donne nel mezzo di una crisi personale o del mondo che li circonda, del loro paese. Un poeta fallito e roso dall’invidia che si trasforma in abile truffatore negli anni della bolla immobiliare. Un suonatore di clavicordo costretto ad accantonare la sua passione per l’arte in nome della moglie e dei figli; il docente universitario piuttosto confuso sulla sua identità sessuale e la studentessa indiana che, per sfuggire alle imposizioni della sua famiglia, arriva a compromettere la vita privata e la carriera di un professore di mezza età.
Con una forza narrativa dirompente e una straordinaria bravura nel creare personaggi memorabili, questi racconti mostrano il percorso e l’enorme talento di uno dei più grandi scrittori americani.
Le tragedie qui raccolte sviluppano due momenti della saga di Ifigenia, la giovane figlia di Agamennone sacrificata ad Artemide per il successo della spedizione contro Troia. Centro tematico di entrambi i drammi è appunto il sacrificio umano: nell'Ifigenia in Aulide quello della stessa Ifigenia, nell'Ifigenia in Tauride quello di suo fratello Oreste che Ifigenia, divenuta sacerdotessa nel barbaro paese dei Tauri, salverà dopo un drammatico processo di riconoscimento. Ma nonostante il lieto fine, ciò che emana da queste due tragedie dell'estrema maturità di Euripide è un angoscioso senso di debolezza e di precarietà della condizione umana, sottratta sia a un disegno provvidenziale divino sia al dominio della ragione. Franco Ferrari illustra e approfondisce nell'introduzione l'articolazione delle sequenze drammatiche delle due opere.