
Appena dopo la Seconda Guerra mondiale in un paesino del Veneto arriva uno strano personaggio, un ex soldato giapponese, capitato nel Nord Italia occupato dai nazifascisti. Catturato dagli americani negli ultimi giorni del conflitto e avendo saputo che la sua città, Hiroshima, è stata annientata dalla bomba atomica, decide di non tornare più in patria e di stabilirsi nel piccolo borgo ai piedi delle montagne. È il periodo frenetico che precede il boom economico. Tra i ragazzi del borgo e il giapponese si instaura un profondo rapporto di amicizia: l'ex soldato diventa per loro un maestro di vita e di arti marziali, latore di una cultura e di una mentalità tanto lontane e diverse quanto ricche di umanità e saggezza.
Un'armatura vuota animata da uno spirito invisibile che riesce a farsi accettare tra i Paladini di Carlo Magno, un visconte diviso a metà da una palla di cannone che si scinde in una parte buona e in una cattiva, un barone che, per sfuggire a un rimprovero, si rifugia sopra un albero e passa in mezzo agli alti rami tutta la sua esistenza.
Se dovessimo indicare una forma romanzesca capace di rivelare come si compone e come si manifesta quell'impasto vischioso del potere che la politica italiana ha avuto per lunghi anni il funesto privilegio di produrre, basterebbe rimandare alle asciutte pagine di "Todo modo", alla scansione crudele dei suoi episodi, che solcano come una traccia fosforescente una materia informe, torbida e sinistra. Non meraviglia dunque che questo libro, pubblicato nel 1974, possa essere letto come una guida alla storia italiana dei decenni successivi.
Un uomo si aggira nel buio della sua casa, di notte; i bambini dormono, sua moglie prima di uscire ha lasciato in bagno un rossetto aperto, una scia di profumo, le tracce di un desiderio di sedurre certamente non dedicato a lui. A volte le emozioni sgocciolano come rubinetti vecchi, a volte i legami si sfarinano come intonaci esposti al sole: la manutenzione degli affetti è compito arduo e complesso, è un esercizio infinito di duttilità. La scrittura di Pascale delinea in questi racconti un ceto medio distratto, vagamente meridionale, alle prese con i cambiamenti della società e i privatissimi scacchi individuali.
La cronaca, tra magia, leggenda, realtà e antropologia, del grande viaggio compiuto nella seconda metà del XIII secolo da Marco Polo nella Cina di Kubilay Khan, il nipote di Gengis Khan, il Signore dei Tartari. Città fantastiche, la setta degli "assassini", gli usi e le crudeltà di una civiltà raffinata, la scoperta della carta moneta, le avventure di viaggio, la nostalgia della patria, il timore di non essere creduto. Il volume, riccamente annotato, è corredato da cartine geografiche, indici, glossari.
"Questi sono racconti scritti nell'arco di vent'anni, poi riscritti a lungo per tenermi occupato e vedere che cosa succede... Sono racconti di studenti e di girovaghi, di qualcuno che vuole diventare santo nel deserto e qualcun altro che si perde correndo dietro alle voci, d'un ragazzo che corteggiava sua mamma e d'un mendicante che diceva di aver parlato con Dio. Poi c'è la storia della prima volta che sono sbarcato in America, la storia di una celebre modella, e infine il racconto di Cevenini e Ridolfi che si perdono in Africa." (G. C.)
Raffaele La Capria ha sempre pensato a se stesso come all'autore di una sola opera, un unico work in progress formato dai libri che via via è andato pubblicando. Per questa ragione non c'è libro che nel corso degli anni egli non abbia riscritto e commentato, mescolando in modo originale e libero la narrativa con la saggistica. Questo Meridiano, curato da Silvio Perrella, giovane critico da tempo amico ed esegeta di La Capria, si è dunque trasformato in una sfida letteraria: quella di realizzare il suo desiderio di un'opera racchiusa in solo libro.
Tutte le storie di fantascienza scritte da Italo Calvino, da quelle comprese nelle "Cosmicomiche" e in "Ti con zero" a quelle sparse, riordinate secondo il progetto originario concepito dall'autore stesso.
C'è un uomo da solo in una bella casa nuova: l'ideale per lavorare e riflettere. Dietro le spalle quest'uomo si è lasciato le macerie normali di una vita normale: un matrimonio finito, un'amante delusa, un figlio un po' estraneo. Ma ora finalmente il suo cumulo di rovine potrà chiuderlo dietro la porta. Peccato che, a porte chiuse, lo aspetti un roditore subdolo come un ricordo, tenace come un rimorso, feroce come la coscienza. Lui è il nemico. E' contro di lui che avverrà lo scontro finale. Per accorgersi poi che in fondo tutti abbiamo bisogno di «qualcosa che non faccia addormentare i nostri dubbi». Questo monologo è andato in scena dal 1988 al 1990.
Franz Caffa è la figura muta (o quasi muta) attorno a cui ruota il tutto. E il tutto è una ridda di voci incontrollate. Forse Caffa è semplicemente un angelo caduto in un mondo di eccentrici, oppure è un nevrotico assoluto. Fatto sta che di mestiere fa l'impiegato, a tempo perso scrive, è ossessionato dagli insetti, considera la musica "un nutrimento sconosciuto", ha varie fidanzate che non lo capiscono, amici che lo fraintendono. Per certi versi ricorda Kafka, ma per altri no. Insomma, è un enigma, ma piuttosto comico.
Organizzati secondo una logica tematica, questi saggi, apparsi su quotidiani e riviste tra il 1973 e il 1976, ripropongono Eco come semiologo del quotidiano, attento e curioso critico del costume e del linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa. Eco riferisce quanto avviene alla periferia dell'impero americano, cioè nei paesi dell'area mediterranea, analizzando in modo apparentemente divagante gli slogan pubblicitari, le conversazioni della gente in treno, il discorso di Paolo VI sulla pillola, le invettive di Fanfani contro la pornografia. Tanti brevi racconti di un'Italia in trasformazione, ma ancora un po' bigotta e provinciale.