
Vincenzo Lauria torna in Italia in occasione della morte del padre. Da molti anni vive a New York dove fa il giornalista. Resterà ad Aquilana, piccolo paese dell'entroterra lucano che ha abbandonato da ragazzo, solo il tempo necessario a sbrigare le pratiche della successione. I giorni trascorsi nella casa della sua infanzia e quei luoghi così carichi di bellezza e di mistero riaprono antiche ferite e svelano inquietudini lontane. La drammatica scomparsa del fratello maggiore, il rapporto difficile con un padre assente, il ricordo struggente della madre. Mentre attende l'apertura del testamento, tutto intorno a Vincenzo sembra avvolto nell'aura misteriosa di una realtà parallela in cui si intrecciano i suoni e gli odori di un'altra vita. E così riaffiorano i ricordi di una terra arcana, matrigna, le pratiche magiche, le paure e i segreti inconfessabili. Quasi un'eco minacciosa, che risuona nel paesaggio desolato della valle. Finché, la notte prima della partenza, un evento sconcertante costringerà Vincenzo alla resa dei conti con il suo passato...
Un manoscritto creduto perduto e misteriosamente ritrovato, due storie legate tra loro. Salai, discepolo indisciplinato del maestro Leonardo, violento e ladro, si trova suo malgrado a investigare insieme a lui sul misterioso avvelenamento di Bianca Giovanna Sforza, presunta modella della famosa Gioconda. Circondati da situazioni oscure e magiche, la loro avventura si dipana in una Milano del 1496, descritta in modo accurato, con i suoi Sestieri e Contrade e in mezzo ai suoi meravigliosi Navigli. Leonardo e Salai scopriranno che dietro a tutto vi è lo zampino della Francia, con il preciso intento di spodestare il Moro e di entrare a Milano, cosa che avverrà nel 1499. A causa di ciò, Leonardo sarà costretto a fuggire e, dopo mille peripezie, dovrà rifugiarsi nella stessa Francia con il suo nuovo discepolo, Francesco Melzi. Qui la Gioconda, ovvero il dipinto di Bianca Giovanna Sforza, sarà la chiave di tutti i misteri, al centro dei quali vi sarà l’oscura presenza della della strega Arima, che continuerà a tormentare Leonardo fino alla mortale resa dei conti.
Lo scrittore Albert Camus non è morto nell'incidente del 4 gennaio 1960. Un suo grande amico, il genetista Jacques Monod, va a trovarlo in ospedale. Stanno scrivendo un libro insieme. Leggono le bozze, ricordano le avventure durante la Resistenza a Parigi. Nel segno del disincanto, prende forma una visione del mondo. La scienza ha svelato la finitudine di tutte le cose: dell'Universo, della Terra, delle specie, di ognuno di noi. Come trovare un senso all'esistenza accettando la nostra finitezza? Camus e Monod passano in rassegna le possibilità laiche di sfidare la morte. L'investigazione diventa un giallo filosofico. Forse la finitudine non implica nichilismo, ma al contrario solidarietà, rivolta, una vita piena. In un gioco raffinato di fatti e finzioni, "Finitudine" è la storia della vera amicizia tra due Premi Nobel, un dialogo avvincente, un libro dentro un libro.
Maddalena, la maggiore, è timida, sobria, riservata. Nina, di poco minore, è bella e capricciosa, magnetica, difficile, prigioniera del proprio egocentrismo. Le due sorelle hanno costruito la loro infanzia e adolescenza intorno a un grande vuoto, un'assenza difficile da accettare. Ancora adesso, trent'anni dopo, cercano di colmarla con corse, lunghe camminate, cascate di parole e messaggi whatsapp che, da Parigi a New York, le riportano sempre a Roma dove la loro strana vita ha preso forma. È proprio a Roma che Maddi, da sempre chiusa nel suo carapace, decide di tornare, fuggendo dai ruoli che la sorella, prima, e la famiglia poi, le hanno imposto. Finalmente sola con sé stessa e con i suoi ricordi, lascia cadere le difese e rivivendo i luoghi del passato, inverte le parti e si apre alle sorprese che riserva la vita. Un romanzo intimo, femminile e pieno di luce.
È la storia di una ragazza dalle lunghe gambe nervose quella che Paolo Cognetti ha raccontato in questo libro, che scorre sotto i nostri occhi come un docufilm. Milano, la montagna e la scrittura sono le cose che sente di avere in comune con lei. La ragazza ha attraversato una manciata di anni del Novecento: la sua famiglia borghese l'ha imprigionata nel conformismo ma le ha dato la possibilità di fare esperienze precluse ad altre donne, come studiare all'università, viaggiare in tutta Europa, andare in montagna e scalare. Ha esplorato il mondo con desiderio ardente, ha esplorato sé stessa attraverso la fotografia e la poesia. Ha amato con sovrabbondanza e inesperienza, come i suoi pochi anni le hanno consigliato. La montagna è sempre statala sua maestra e il suo rifugio. Si chiama Antonia Pozzi ed è morta suicida nel 1938, ma qui rivive per noi attraverso foto, diari, lettere e poesie, frammenti di un'esistenza che palpita ancora grazie al racconto di Cognetti che, mescolando le proprie parole alle sue, ce la restituisce in un ritratto nitido e delicato: un omaggio a un'artista che, senza saperlo e senza volerlo, ha scritto un capitolo della storia del secolo scorso.
Nella memoria di ognuno la Storia con la "s" maiuscola si intreccia a quella personale, e così gli eventi cardine della propria genealogia si accostano ai fatti salienti del mondo. Seguendo lo stesso principio l'autore narra le vicende della famiglia d'Asaro e di una terra meravigliosa e difficile come la Sicilia. Ecco quindi che un rapimento d'amore avvenuto agli inizi del Novecento nelle strade di Enna ha come cornice un mondo di tradizioni e valori ormai quasi del tutto scomparso; una rocambolesca visita a un paesino sperduto si rivela il pretesto per riflettere sulla Sicilia tra moti garibaldini, sbarchi degli Alleati e gerarchie mafiose; un viaggio in treno Catania-Palermo fa da eco all'importante riforma agraria di Antonio Segni, Amintore Fanfani e Paolo Bonomi, che negli Cinquanta e Sessanta significò la fine di una secolare sottomissione per migliaia di contadini e l'unica ridistribuzione di ricchezza mai avvenuta dall'Unità d'Italia. Ma questa è anche la storia di un trasferimento a Reggio Calabria, a seguito del terribile terremoto del Belìce, che porterà nella sfera della famiglia d'Asaro una figura straordinaria e indimenticabile come Vito de' Bianchi (Giove Ionico), riservato benefattore, filantropo e deus ex machina della Locride. Un racconto arricchito da approfondimenti culturali, storici e gastronomici, capace di trasmettere al lettore quell'amore particolare che lega i protagonisti ai luoghi della propria esistenza.
Caterina è al suo primo incarico importante: ingegnere responsabile dei lavori per la costruzione dell'argine di Spina, piccolo insediamento dell'alta pianura padana. Giovane, in un ambiente di soli uomini, si confronta con difficoltà di ogni sorta: ostacoli tecnici, proteste degli ambientalisti, responsabilità per la sicurezza degli operai. Giorno dopo giorno, tutto diventa cantiere: la sua vita sentimentale, il rapporto con la Sicilia terra d'origine, il suo ruolo all'interno dell'ufficio. A volte si sente svanire nella nebbia, come se anche il tempo diventasse scivoloso e non si potesse opporre nulla alla forza del fiume in piena. Alla ricerca di un posto dove stare, la prima ad avere bisogno di un argine è lei stessa. È tentata di abbandonare, dorme poco e male. Ma, piano piano, l'anonima umanità che la circonda - geometri, assessori, gruisti, vedove di operai - acquista un volto. Così l'argine viene realizzato, in un movimento continuo di stagioni e paesaggi, fino al giorno del collaudo, quando Caterina, dopo una notte in cui fa i conti con tutti i suoi fantasmi, si congeda da quel mondo. Con una lingua modellata sull'esperienza, Veronica Galletta ha scritto un apologo sulla vulnerabilità che si inserisce in un'ampia tradizione di letteratura sul lavoro, declinandola in maniera personale.
Che cosa è vero? Che cosa è falso? Domande che in questa nuova indagine il commissario Melis si ripete con insistenza. Dopo aver assistito casualmente alla conversazione di una coppia di mezza età, si è ritrovato di fronte all'uomo, cadavere, in obitorio. Omicidio? E, se sì, che c'era di falso nell'ordinata vita di Walter Cenzatti, restauratore, per causare una morte così violenta? E ancora: è vero che Leone Maggi era un falsario, ma è proprio vero che è stato ucciso per questo? E, passando dal pubblico al privato, è vero che la sua compagna, Fiorenza, sta attraversando un brutto momento sul lavoro, ma non sarà che anche il loro rapporto è un po' stanco? E non è affatto falso, invece, dire che quella giovane restauratrice conosciuta durante l'inchiesta...
Le valli dell'Alto Verbano, primavera 1986. Un paese come tanti, piccolo, grazioso, raccolto, pronto ad accogliere i turisti come ogni estate. Ma questa non si annuncia un'estate come le altre. Non capita tutti gli anni, infatti, di fare un macabro rinvenimento come quello che degnamente conclude la conferenza del professor Maldifassi sulle streghe di Druogno. Così il commissario Norberto Melis, ospite occasionale al seguito della compagna Fiorenza, viene incaricato dai superiori di dare una mano ai locali rappresentanti della legge. Per scoprire quasi subito, fra cene squisite e gite fra i boschi, quanto quel paesino da fiaba e i suoi decorosi e compiti abitanti celino segreti, invidie, rancori, antipatie, ostilità. E che, come sempre accade, il presente affonda le proprie radici nel passato, un passato ormai lontano. Ma scavare nel passato, si sa, può diventare molto pericoloso. Soprattutto quando quei giorni remoti vennero macchiati dal sangue. La nuova, inedita indagine del commissario Melis conferma tutti gli ingredienti che hanno fatto amare ai lettori le precedenti: un linguaggio che, tra il dolente e l'ironico, mischia continuamente alto e basso, l'attenzione all'arte culinaria, una vicenda gialla alquanto intricata che si dipana per piccole intuizioni, con un insoluto crimine commesso durante l'ultima guerra che getta la propria ombra sul delitto contemporaneo, e un complicato puzzle di identità da comporre con le tessere di vittime e colpevoli.
Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant'anni dal suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l'infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l'odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l'accoglienza e l'ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza? Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l'Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l'approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla "Roma bene" degli anni Cinquanta, infine l'incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant'anni. Fino a giungere all'oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell'attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio, in cui Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo desiderio ancora intatto di tramandare alle generazioni future un capitolo di storia del Novecento da raccontare ancora e ancora.
Tra le vite dei personaggi di Edith Bruck, cariche di entusiasmo e fiducia nella fraternità degli uomini, incontriamo Silvia, gettata dai genitori dal treno dei deportati in un estremo tentativo di salvezza, che si affezionerà a Robert, figlio di un gerarca nazista, di cui diventerà la sorella che lui ha sempre desiderato; o l'amore acerbo di una vivace ragazza ebrea che detesta andare a fare il bucato al fiume e non vede l'ora che arrivi l'inverno a ghiacciarlo per poter andare a pattinare con l'affascinante ragazzino "gentile" Endre; o, ancora, il riscatto di una donna che, dopo la guerra, riesce a farsi assumere come cameriera dal ristorante di Haifa in cui ha elemosinato un pasto. E poi c'è Lenke, che descrive al fratellino Beni il mondo che non può vedere e gli promette continuamente una nuova vita in città, dove un'operazione dovrebbe dargli la vista, ma la crudezza della realtà stravolge i suoi progetti. Una storia di amore fraterno che ha ispirato l'omonimo film del 1966 per la regia di Nelo Risi. Edith Bruck racconta con la sua scrittura lieve e poetica tutta la speranza della vita che non si arrende, un amore quotidiano che resiste alla tragedia che incombe.
Scritto all'indomani della morte di Primo Levi, Lettera alla madre è un "dialogo in forma di soliloquio" in cui, accanto a temi cruciali per l'opera di Edith Bruck, quali il racconto del trauma vissuto in prima persona nei campi di concentramento dell'Europa Centrale, la propria diaspora famigliare e il dramma storico della Shoah, l'autrice affronta, attraverso una prospettiva intima, la contrapposizione tra fede religiosa e laicità e propone una profonda riflessione su cosa significhi per un superstite dell'Olocausto avere la responsabilità di esserne testimone. Il confronto serrato e a tratti impietoso con la figura della madre, ebrea ungherese saldamente ancorata alle tradizioni, diventa il luogo per la rievocazione di un'infanzia sospesa tra ricordi e fantasmi, per un'analisi delle proprie scelte e per una interrogazione di sé e del proprio valore testimoniale.

