
La vita straordinaria di Gaio Giulio Cesare diventa un'autobiografia. Nel suo turbinare di scelte imponderabili e di strategie politiche, di relazioni difficili con donne dalla personalità forte ma anche pronte al sacrificio di se stesse, nel rutilante susseguirsi di battaglie e campagne militari, la trama della sua esistenza compone i tratti di una figura complessa e sfaccettata. Capace di arrivare dalla sua Suburra alle cariche più alte dello Stato e a ineguagliabili trionfi, il suo temperamento - sempre in bilico tra freddezza lucida e sincera generosità, l'amore per la grande tradizione dei padri e una visione alessandrina del mondo - lo ha reso un simbolo ineguagliabile, destinato post mortem a diventare un dio. Dall'esilio volontario per sfuggire alla mano di Silla all'inizio della sua carriera politica e al pontificato, dalla congiura di Catilina alla campagna in Gallia, dal passaggio del Rubicone alla campagna africana e agli attimi precedenti il tragico epilogo delle Idi di marzo: nel memoriale che scrive a Gaio Ottavio - futuro Cesare Augusto - e in cui lo nomina suo erede, Giulio Cesare ripercorre in prima persona i momenti cruciali di un vivere al galoppo, in sella alla sua celeberrima Fortuna, nella consapevolezza che la vita è un lancio di dadi e la vittoria una dea con le ali.
La prima bomba scoppia davanti a una scuola elementare, mentre i bambini entrano. La seconda bomba scoppia poco dopo, quando arrivano le ambulanze e i soccorsi. Dopo, qualcuno nota un segno sul muro. Una lettera greca. Alfa. E solo l'inizio. Paolo è un giornalista, uno cinico, uno curioso, uno spregiudicato e vuole cercare e capire. Francesca è un chirurgo, una madre a cui muore una figlia, a cui muore il marito e non può non odiare e fuggire. Gualtiero, è un politico, un uomo serio, sincero, isolato, uno che ha paura di quello che sente. Perché non finirà. Gli attentati continuano, sempre più crudeli e assurdi. Senza mai una rivendicazione. Solo uomini vestiti di nero e irriconoscibili. E quella lettera. Alfa.
Sono passati solo due anni, e di tutto ciò che è stata non è rimasto nulla. Lena era brillante, determinata, brava a detta di tutti, curata, buona. Poi nella sua vita era entrato Saverio, e tutto era stato stravolto. Quel ragazzo più giovane, che viveva per essere contro qualsiasi regola, pregiudizio, conformità, l'aveva trasformata. E non erano solo i vestiti, i capelli, le parole. Era lei, le sue sicurezze, il suo amor proprio. Tutto calpestato in nome di un amore che agli occhi di tutti gli altri era solo nella sua testa. Il giorno in cui lui era finito in Arno, dato per disperso prima e per morto poi, qualcosa in Lena si era spento definitivamente. Sono passati due anni, e di Saverio le resta il cane Argo, che ancora la vive come un'usurpatrice, e un senso di vuoto dolente e indistruttibile. La sera in cui trova nella cassetta della posta un cellulare, Lena pensa che si tratti di uno scherzo, oppure di uno sbaglio. Ma bastano pochi minuti per rendersi conto che quell'oggetto può cambiare la sua vita. Perché i messaggi che arrivano, e a cui lei non può rispondere, parlano di cose che solo Saverio può sapere. E quindi è vivo. È tornato. Così, senza che Lena se ne accorga, quell'oggetto diventa l'unica linfa vitale a cui abbeverarsi, e non importa che i messaggi siano sempre più impositivi e le ordinino di commettere atti di cui mai si sarebbe pensata capace. Perché se lei farà la brava, lui rientrerà nella sua vita. O questo è ciò che pensa. Almeno fino a quando le persone che le stanno intorno cominciano a morire. E il gioco si fa sempre più crudele. E la prossima vittima prescelta potrebbe essere lei.
A Lido di Magra, un paesino di poche anime e una manciata di case a qualche chilometro dalla Versilia, il mare c'è, ma solo d'estate. Perché la vita da queste parti dura il tempo di una stagione. Fabio Arricò, figlio di un cavatore appena licenziato dalle derive della crisi, è un ragazzo normale. Ma a diciassette anni, essere normali significa fare quello che fanno gli altri, adeguarsi alle scelte del gruppo anche se capisci che sono sbagliate. Il gruppo, però, ha un punto debole e si chiama Caterina Valenti. Lei è tormentata, agguerrita e irriverente. Troppo bella e irriguardosa per non innescare un ambiguo corto circuito. Sorda al sentimento che Fabio si rifiuta di confessarle, ma che neppure riesce a nascondere. Di più. C'è qualcosa nel suo sguardo che svela uno strano piacere nell'umiliarlo e farlo soffrire. Come se avesse qualcosa da fargli pagare. Gli adulti, un campionario di figure umane comiche e inconcludenti, arrivano sempre tardi. In questo piccolo mondo nel quale sonnecchiano esistenze comuni, si soffre, si ama, si lotta ma sempre nel modo sbagliato. Prima ferendo, poi nascondendo la faccia. E il risultato, un congegno a orologeria che si carica con la frustrazione, è l'odio più incontrollato, quello che trascina a fondo. Quello che ti obbliga a ideare una notte di violenza inaudita ai danni di chi non può difendersi.
Nel silenzio della campagna pugliese, in un'estate caldissima, un gruppo di bambini gioca in mezzo ai campi di grano. E uno di loro, Michele, scopre che il male esiste, che è terribilmente reale e ha una faccia peggiore dell'incubo più brutto che un bambino possa immaginare.
L’estate piú calda del secolo. Quattro case sperdute nel grano. I grandi sono tappati in casa. Sei bambini, sulle loro biciclette, si avventurano nella campagna rovente e abbandonata: in mezzo a quel mare di spighe c’è un segreto pauroso, un segreto che cambierà per sempre la vita di uno di loro. La storia di Io non ho paura è un congegno a orologeria che si carica fino a una conclusione sorprendente, e mette in scena la paura stessa.
In questo romanzo Niccolò Ammaniti va al cuore della sua narrativa, con una storia tesa e dal ritmo serrato, un congegno a orologeria che si carica fino a una conclusione sorprendente: e mette in scena la paura stessa. Michele Amitrano, nove anni, si trova di colpo a fare i conti con un segreto cosi grande e terribile da non poterlo nemmeno raccontare. E per affrontarlo dovrà trovare la forza proprio nelle sue fantasie di bambino, mentre il lettore assiste a una doppia storia: quella vista con gli occhi di Michele e quella, tragica, che coinvolge i grandi di Acqua Traverse, misera frazione dispersa tra i campi di grano. Il risultato è un racconto potente e di assoluta felicità narrativa, dove si respirano atmosfere che vanno da Clive Barker alle Avventure di Tom Sawyer, alle Fiabe italiane di Calvino. La storia è ambientata nell'estate torrida del 1978 nella campagna di un Sud dell'Italia non identificato, ma evocato con rara forza descrittiva. In questo paesaggio dominato dal contrasto tra la luce abbagliante del sole e il buio della notte, Ammaniti alterna, a colpi di scena sapienti, la commedia, il mondo dei rapporti infantili, la lingua e la buffa saggezza dei bambini, la loro tenacia, la forza dell'amicizia e il dramma del tradimento.
In questo romanzo Niccolò Ammaniti va al cuore della sua narrativa, con una storia tesa e dal ritmo serrato, un congegno a orologeria che si carica fino a una conclusione sorprendente: e mette in scena la paura stessa. Michele Amitrano, nove anni, si trova di colpo a fare i conti con un segreto cosi grande e terribile da non poterlo nemmeno raccontare. E per affrontarlo dovrà trovare la forza proprio nelle sue fantasie di bambino, mentre il lettore assiste a una doppia storia: quella vista con gli occhi di Michele e quella, tragica, che coinvolge i grandi di Acqua Traverse, misera frazione dispersa tra i campi di grano. Il risultato è un racconto potente e di assoluta felicità narrativa, dove si respirano atmosfere che vanno da Clive Barker alle Avventure di Tom Sawyer, alle Fiabe italiane di Calvino. La storia è ambientata nell'estate torrida del 1978 nella campagna di un Sud dell'Italia non identificato, ma evocato con rara forza descrittiva. In questo paesaggio dominato dal contrasto tra la luce abbagliante del sole e il buio della notte, Ammaniti alterna, a colpi di scena sapienti, la commedia, il mondo dei rapporti infantili, la lingua e la buffa saggezza dei bambini, la loro tenacia, la forza dell'amicizia e il dramma del tradimento.
"Te che non sei nato dalla mia pancia ma dal mio cuore. Te che hai una faccia diversa dalla mia, anche se tutti dicono che mi somigli. Te che la vita è bastarda, perché ti ha fatto nascere in un posto e rinascere in un altro. E non hai potuto scegliere. Nessuna delle due volte." C'è una storia nella vita della comica più amata d'Italia. Una storia complicata, ma anche piena di momenti divertenti, che nasce con l'affido di due ragazzi da un istituto e continua negli anni con tutto quello che comporta crescere dei figli: i dubbi, gli spaventi, i ricevimenti professori, i fidanzati, i tatuaggi, la stanchezza, il senso di colpa, di inadeguatezza, costante: "Dio come le ho odiate queste mamme perfette, genitrici naturali di figli perfetti. Pitonesse dagli occhi a mirtillo sempre pronte a farti sentire inadeguata e inutile come il mignolo per le arpiste. A spampanarti il cuore, a te che ti danni l'anima nel tentativo di trasformare quel mucchio di detriti in un bambino tranquillo e felice. Provaci tu, madre gaudiosa, a inventarti madre a quarant'anni di due bambini di nove e undici anni senza un minimo di tirocinio...". Luciana Littizzetto racconta questa storia privata in un memoir potente e originale, senza risparmiarsi niente, nemmeno i momenti più duri, "quando il cuore si scartavetra, si corrode a forza di ruminare lacrime, e ti convinci che non hai capito una mazza, un tubo di niente e di niente". Si racconta con sincerità e grazia, spingendo la scrittura umoristica verso una nuova frontiera, mettendola al servizio dei sentimenti più profondi e contraddittori: "l'amore è un puttanaio infinito, un guazzabuglio che ti fa battere il cuore e saltare i nervi, a volte nello stesso momento. In sincrono. E qui si tratta d'amore".
Joseph è per metà senegalese e per metà nigeriano, tecnicamente un minore non accompagnato, un quattordicenne che sopravvive di piccoli furti. È arrivato in Italia nel 2011, passando dalla ex Iugoslavia, via preferenziale in quel periodo. Un veterinario di buon cuore, un gruppo di carabinieri e un’assistente sociale pieni di buona volontà si chinano con tenerezza su di lui giovane virgulto di piccola criminalità che si può ancora fermare. In realtà Joseph è l’unico sopravvissuto al massacro di Dogo Nahava, ha visto la sua famiglia sterminata, vive col cuore straziato dalla nostalgia e dal senso di colpa di essere sopravvissuto, rinchiuso nella solitudine dei suoi ricordi e dei suoi incubi. La presenza di coetanei, il calcio, sembrano fare il miracolo di riportare Joseph verso la vita, lontano dai suoi fantasmi. Attraverso i film di Clint Eastwood il veterinario ricostruisce linee etiche infrante, e Joseph si schiera per la giustizia: denuncia e fa arrestare la banda di sfruttatori di bambini mendicanti che lo ha portato in Italia. Un cavillo burocratico però porta alla scarcerazione dei due più pericolosi. C’è quindi un’ultima scena drammatica. Joseph è disposto a sacrificare la sua vita per il loro arresto, come il protagonista del film “Gran Torino”. Ma il suo destino è un altro: restare vivo, un giovane guerriero che combatterà per la giustizia.
«Quanti vizi i Sapienza, penso, e rabbrividisco all'idea di crescere ed essere costretta ad affrontarli tutti».
Può una bambina - lasciata interi pomeriggi nel ventre sicuro di un cinematografo - arrivare a identificarsi totalmente con Jean Gabin?
Sì, se quella bambina è Goliarda Sapienza. L'attore simbolo di un certo modo di stare al mondo, l'icona anarchica del cinema francese, le calza a pennello. Goliarda bambina, non appena esce dal Cinema Mirone, è Jean Gabin, e scorrazza per i vicoli di Catania traboccanti di vita e di malaffare come Jean per quelli di Algeri. Incontra prostitute filosofe, pupari, la vita pullulante della Civita in tutte le sue forme, comprese quelle magmatiche dei «corpi lunghi di draghi neri scolpiti nella lava sotto i balconi».
E quando rientra a casa, trova un'altra forma di vita altrettanto disordinata e imprendibile: quella della sua famiglia senza fine. Un padre avvocato «amato dai poveri e odiato dai fascisti, ma da tutti rispettato e temuto»; una madre socialista impegnata durante il Ventennio a trasformare il suo appartamento catanese in un focolaio di resistenza e di controcultura; una tribù di fratelli acquisiti, ognuno intento a seguire i suoi sogni, contagiosamente.
Io, Jean Gabin racconta tutto questo raccontando un pugno di giorni. È un tassello di quella che Goliarda Sapienza chiamava «autobiografia della contraddizioni»: l'idea - bellissima ed eccentrica - era quella di tornare a distanza di anni su alcuni momenti della propria vita, per capire cosa combina il tempo con la memoria, e la memoria dentro di noi. Perché il passato non è mai cristallizzato, proprio come la coscienza di chi è troppo vivo per stare fermo.
In Io, Jean Gabin - romanzo postumo e assolutamente inedito - c'è la stessa energia stilistica dell'Arte della gioia, ci sono il piglio, lo slancio, la spavalderia di Modesta bambina: la «carusa tosta» che è divenuta un personaggio indimenticabile della letteratura del Novecento.
Barricato in cantina per trascorrere di nascosto da tutti la sua settimana bianca, Lorenzo, un quattordicenne introverso e un po' nevrotico, si prepara a vivere il suo sogno solipsistico di felicità: niente conflitti, niente fastidiosi compagni di scuola, niente commedie e finzioni.
Il mondo con le sue regole incomprensibili fuori della porta e lui stravaccato su un divano, circondato di Coca-Cola, scatolette di tonno e romanzi horror.
Sarà Olivia, che piomba all'improvviso nel bunker con la sua ruvida e cagionevole vitalità, a far varcare a Lorenzo la linea d'ombra, a fargli gettare la maschera di adolescente difficile e accettare il gioco caotico della vita là fuori.
Con questo racconto di formazione Ammaniti aggiunge un nuovo, lancinante scorcio a quel paesaggio dell'adolescenza di cui è impareggiabile ritrattista. E ci dà con Olivia una figura femminile di fugace e struggente bellezza.