
"Liber nos a malo" è la presentazione della vita e della cultura di Malo, un paese della provincia vicentina, negli anni Venti e Trenta, ricreata, con un misto di nostalgia affettuosa, di distacco ironico, e di rigorosa intelligenza, dall'autore ormai adulto. Attraverso il microcosmo di Malo viene fissata e trasmessa compiutamente al futuro la vicenda di tutta la nostra società, nel breve periodo in cui passa da una statica e secolare civiltà contadina alle forme più avanzate della modernità, la vicenda addirittura di tutto il nostro mondo con le fratture che hanno segnato la sua precipitosa evoluzione." (Giulio Lepschy)
Anni ottanta, a pochi chilometri da noi l'ultimo decennio del comunismo è appena cominciato. Lea Ypi è una bambina e la sua vita è scandita dalle promesse del socialismo di stato dell'Albania: un futuro preordinato, in cui si può crescere al sicuro tra compagni entusiasti. Tutto vero, fino al giorno in cui Lea si ritrova aggrappata a una statua di pietra di Stalin, appena decapitata dalle proteste degli studenti. Il comunismo non era riuscito a realizzare l'utopia. Il mondo attorno inizia a crollare. Lea si chiede chi è quel vecchio primo ministro dell'Albania accusato di collaborazione con i fascisti che porta il suo stesso cognome. Lei non sa che la sua famiglia paterna è una grande famiglia nobile dell'impero ottomano. Non sa che quando i suoi genitori parlano di amici appena laureati si riferiscono in realtà a fatti gravissimi. Lea sa che esiste la Coca-Cola solo perché nel mercato nero girano alcune lattine vuote, che diventano suppellettili rarissime. Con una nonna elegante, intellettuale e francofona, un padre che crede nei movimenti sociali del Sessantotto e una madre thatcheriana ultraliberista, Lea Ypi cresce attraversando questi tempi di rivoluzioni e di grande disorientamento, con un'educazione politica unica e ricchissima. La sua è una storia di faticosa liberazione dalle menzogne: quelle del regime comunista, quelle che la sua famiglia le racconta per proteggerla. Ma la menzogna più dolorosa è quella che si svela con il crollo del regime: la promessa di libertà segna invece l'inizio di un conflitto sanguinario. Il tentativo difficilissimo di entrare in Occidente è l'abisso di tutte le illusioni. Il Novecento è tramontato, ma dopo non c'è più nulla. La sensazione è claustrofobica: il progetto di costruzione di una società giusta è degenerato nella dittatura, ma la fine della dittatura non corrisponde alla libertà. E allora, la libertà, come si conquista?
Queste parole di Primo Levi sono una sintesi della sua biografia e della sua opera. Levi è ormai riconosciuto in tutto il mondo non solo come uno fra i maggiori testimoni di Auschwitz, ma come uno scrittore di vivido talento linguistico e di multiforme energia immaginativa, e come un uomo di pensiero capace di innescare con ciascuno dei suoi lettori un dialogo limpido, appassionato, arguto. È per questo che il Centro internazionale di studi sorto a Torino nel suo nome propone, a partire dal 2009, una Lezione annuale - rivolta in primo luogo alle persone più giovani - che ne ripercorre l'opera a partire da interrogativi suggeriti dalla ricerca critica e dalle sollecitazioni del mondo attuale. Questo volume raccoglie le dieci Lezioni tenute fino a oggi, affidate di volta in volta a studiosi di letteratura e di scienza, a storici e a linguisti, a professionisti della traduzione, a esperti della tradizione ebraica: il tutto per indagare il pensiero, in continua evoluzione, di un uomo che aveva la capacità di tradurre le idee e le cose in parole, e che delle parole sapeva scorgere i significati materiali e immateriali.
Ci si dava appuntamento in un parco, ci si metteva sparsi, chi in piedi, chi sdraiato e chi in braccio a qualcun altro, dopodiché s'iniziava. «Questo era il gioco, questa la sfida delle giornate di follia: aggirare l'ovvio, non ripetere il risaputo, bucare il tempo, aprire strade, sondare il possibile, il parallelo, l'alternativo. Poteva durare anche a lungo questo aggrovigliarsi di nuvole e mondi, ma si atterrava, prima o poi si atterrava sempre». La scuola di Roberto Vecchioni prima di tutto è un luogo in cui s'insegna senza impartire lezioni. I ragazzi hanno coraggio, desideri, paure, e una sete dentro che non si spegne mai. Sono irrequieti, protervi, insicuri: in una parola veri. Si chiamano come i più celebri pittori della storia, ma sono solo esseri umani in cerca di se stessi. E il professore, quel Roberto Vecchioni che insegnava negli anni Ottanta in uno storico liceo milanese, è colto, originale, ma soprattutto appassionato, sempre disposto a quell'incantesimo che balena diverso ogni giorno. Che parli della morte di Socrate, del viaggio di Ulisse o di un verso di una poetessa contemporanea, i suoi occhi brillano e la voce va su e giù come un canto.
Un libro particolare, un romanzo nutrito di autobiografia, che diventa anche biografia di una generazione. Una narrazione composita, fatta di brani di esistenza, ricordi, che ci portano gradualmente al cuore nero della storia, Auschwitz. «Lezioni di tenebra» racconta il rapporto tra la giovane autrice e la madre, l'unica di due famiglie numerose a essere sopravvissuta all'Olocausto, insieme al padre. Ebrei polacchi, vissuti in Germania, dove la figlia Helena è cresciuta sentendosi completamente estranea al mondo tedesco e alla sua cultura, pur usandone la lingua anche nel suo esordio in poesia. Romanzo sull'eterno tema dell'amore difficile tra madre e figlia, che non è soltanto una memoria sull'Olocausto, ma un resoconto lucido, appassionato e distaccato al tempo stesso, che punta soprattutto a misurare l'intensità del contraccolpo che quella tragedia ha lasciato nella generazione successiva. E il contraccolpo sta nell'impossibilità di avere radici, nella confusione linguistica, nel disperato bisogno di appartenere e nella crudele condanna a sentirsi estranei, comunque e dovunque. Sta nello stupore di fronte al destino, al male, alla sorte: «Paghi per ogni errore, anche il più piccolo, sempre e comunque... Ma che cosa sia un errore non lo sai. A questo non devi mai pensare».
Nate come testi per un ciclo di conferenze da tenere ad Harvard queste lezioni costituiscono l'ultimo insegnamento di un grande maestro: una severa disciplina della mente, temperata dall'ironia e dalla consapevolezza di non poter giungere ad una conoscenza assoluta.
Giovanna e Matilde non potrebberero, all'apparenza, avere nulla in comune, salvo il fatto di abitare entrambe nel quartiere di Brera, a Milano, e di incrociarsi talvolta per strada. La prima è un'affascinante antiquaria, sposata e con una figlia adolescente; l'altra è un'anziana diseredata che vive sola in un abbaino da cui cerca, ostinatamente, di non farsi sfrattare. Una serie di circostanze drammatiche avvicina le due donne, che impareranno a conoscersi e a stringere una profonda amicizia.
Maschere, sogni, allucinazioni, parrucche, trucco, schizofrenia, monologhi, travestimenti: i temi del romanzo di Adriana Asti tradiscono il primo mestiere della sua autrice. Il teatro è lì, presente in ogni pagina, nonostante Augusta Sarmerio, l’eroina innamorata e perduta in un suo mondo privato, una siciliana trapiantata a Parigi, non sia un’attrice, ma una lettrice. Legge per i ciechi, un modo discreto di essere attrice. Augusta ha un unico amore: la casa, ereditata da una zia, in rue de Tournon, a Parigi. Le vecchie e solide pareti cui appoggiarsi, aggrapparsi se necessario, le stesse da quando era bambina; le tende velate attraverso le quali scoprire il mondo circostante, senza però esserne travolta. Quella è la vita che ha scelto, che ama. Da anni ormai si è chiusa in una rassicurante solitudine fatta di libri, di passeggiate nei giardini del Lussemburgo e non sente il bisogno di altro.
Poi un giorno, durante uno dei tanti giri per le vie della città, Augusta legge un annuncio: è richiesta una lettrice per intrattenere una donna in rue Ferou. Così, decide di fare uno strappo alla regola e di proporsi per quel lavoro.
Proprio grazie a Marie, giovane e bella, ma afflitta da un male incurabile, e al suo affettuoso marito, Augusta riuscirà a dare un nuovo senso alla sua vita, a scoprire una se stessa diversa, che può concedersi di avvicinarsi a qualcuno e anche, perché no, di innamorarsi.
La storia della propria vita raccontata attraverso i letti. Brevi sequenze narrative sull'atto del dormire come momento cui dedichiamo, in automatico e distratti, un terzo della nostra vita. I letti dell'amore da soli, poi quelli dell'amore in due e dell'affrancamento dalla famiglia. I letti degli altri come l'erba più verde; i letti del desiderio, dell'amore consumato e di quello solo sognato. Le abitudini del dormire, la sfortuna dell'insonnia... stralci di un'esistenza per lo più orizzontale.
Questo volume raccoglie gran parte degli scritti e delle lettere sulla psicoanalisi di Umberto Saba. Come è noto, Saba è stato insieme a Svevo lo scrittore italiano che più precocemente si è interessato alla scienza freudiana. Ma per Saba, a differenza di Svevo, la psicoanalisi non ha soltanto costituito un interesse speculativo, bensì è stata un'esperienza esistenziale diretta (fu in analisi con Edoardo Weiss). Il nucleo centrale, e finora inedito, di questo libro è nel carteggio che tra il 1946 e il 1949 il poeta tenne con Joachim Flescher, psicoanalista e direttore, a quel tempo, di "Psicoanalisi", organo ufficiale della Società italiana di psicoanalisi. L'oggetto della discussione non è di quelli che permettono impassibilità e distacco da parte degli interlocutori, e soprattutto da parte di Saba. Come bene spiega nella sua lucidissima postfazione Arrigo Stara, curatore del volume, dopo un'iniziale disamina di questioni generali legate alla teoria freudiana, presto "nelle pagine che Saba scrive a Flescher, le memorie dell'infanzia, le immagini, le "storielle" e le argomentazioni ricavate dalla sua prima educazione sotto la tutela della legge ebraica materna (che veniva a spezzare il "paradiso" degli anni in cui era stato affidato alla balia) si affollano e danno corpo a quell'ostilità che, ancora come forma vuota, egli aveva riversato sullo psicoanalista; Flescher diventa a sua volta la sagoma, il bersaglio sostitutivo, sul quale ricadono-le accuse.
Esiste ancora la letteratura italiana? Qualche "apocalittico" dice di no. Qualche "continuista" dice di sì: si nasconde in angoli remoti e refrattari all'attuale italiano mediatico, che è una cattiva traduzione da un cattivo inglese. A differenza del banco dell'ortolano, dove il carciofo e il tarocco di origine protetta fanno bella mostra di sé, in libreria si trova, comunque, pochissima letteratura italiana "biologica". Che fare? In "Lettere non italiane" si discutono alcune tesi classiche nel dibattito tra apocalittici e continuisti, anche alla luce della possibile sopravvivenza e addirittura della mera esistenza storica del romanzo italiano oggi. D'altra parte, di alcuni grandi e solitari scrittori contemporanei (da La Capria a Biamonti ad Atzeni) si considera la lampante continuità con i difficili padri novecenteschi: una porta socchiusa a un riaffluire di voci familiari, un segnale di resistenza e di attesa, secondo il principio che in ogni tempo una lingua e una nazione esistono solo se esiste una letteratura, si interrompono se si interrompe la letteratura.