
Nella fantascienza arcaica succedeva spesso che uno scienziato mosso dalle peggiori intenzioni escogitasse un raggio, o qualche altra diavoleria, in grado di ridurre uomini e cose a fattezze minuscole. Forse alcune di quelle formule sono finite in mano a Roberto Abbiati, e forse Abbiati - scenografo, e regista di se stesso - ha deciso di sperimentarle su uno degli esseri più smisurati che abbiano mai posseduto l'immaginazione occidentale: Moby Dick. Di fatto, ha costruito una bizzarra macchina teatrale - una scatola di quattro metri per due, che contiene quindici spettatori - usando la quale il suo Ismaele racconta di Ahab, della Balena, e di quasi tutto il resto. Ma lo fa in quindici minuti. A colpire, qui, non è solo il tentativo di raccontare una vicenda enorme nel minore spazio e nel più breve tempo possibili - anche perché questa sembra essere una fantasia ricorrente, che ha sedotto autori come Stephen King e John Huston, Orson Welles e Joseph Cornell. A stupire è piuttosto il sortilegio di cui, percorrendo questo curioso libro, finiamo per cadere vittime. Dopo essere entrati nello spettacolo descritto dal racconto di Codignola e dai disegni di Abbiati, infatti, ci ritroviamo a esplorare un mondo in miniatura, ma completo in ogni sua parte: e scopriamo con una certa meraviglia di desiderare tutto, tranne l'antidoto capace di riportarci alle dimensioni usuali.
Torna un racconto autobiografico di Mario Soldati nella versione originale inedita (la prima edizione, nel 1943, aveva subito la censura). Lo scrittore rivive, in queste pagine ritrovate, una vigilia dell'Epifania: un incontro tra sacro e profano, tra memoria e sentimenti. Prefazione di Cesare Garboli.
Teo ha otto anni e, più ancora dello Skifiltor, desidera una famiglia felice. Ma i suoi genitori litigano sempre, ogni battaglia quotidiana sembra persa. Così Teo decide di combatterla lui, questa battaglia, al posto loro. Per sapere come vincerla però deve chiedere a uno che di battaglie se ne intende. Uno come Napoleone, la cui storia sta leggendo su un libro. Ma Napoleone è morto: come si fa a incontrarlo? E sarà in paradiso o all'inferno? L'inferno, tra l'altro, pare sia molto caldo, quasi come Porto Ercole d'estate. Pare sia sotto terra, ma allora perché quando fanno gli scavi per la metro non lo trovano? In paradiso invece ci arrivi con l'aeroplano privato di Dio, e solo se non dici parolacce. Poi san Pietro controlla se sei in lista. Teo bombarda gli adulti di domande disarmanti e traccia su un quaderno schemi dall'irresistibile effetto comico, per tentare di capire come funzioni: con la morte, il bene e il male, il silenzio di Dio. Il suo sguardo buffo ci mette davanti alle paure che non sappiamo affrontare. Prima fra tutte, quella di sentirci sconfitti.
Nata a Roma nel 1933, Ludovica Ripa di Meana ha lavorato nell'editoria, nel giornalismo, nel cinema e in televisione. Ha scritto per Adriano Celentano "Il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai", pubblicato tre romanzi in versi, una commedia e una tragedia. In questo volume sono raccolti quattro "monologhi": nel primo una donna, cui il marito ha ucciso il figlio bambino, depone in Corte d'Assise; nel secondo un ragazzo rinfaccia al padre di avergli inflitto un'educazione narcisisticamente complice, senza divieti e senza il coraggio di farsi odiare; nel terzo, un pingue e anziano fiscalista dialoga con il silenzio di Dio, che gli ha portato via la moglie; in "Teodia" un attore reclama il suo diritto di consegnare alla morte la figlia malata.
Costantinopoli, VI secolo d.C. Nella sfavillante capitale dell'Impero romano d'Oriente, travagliata dagli scontri religiosi e dalla corruzione, i giovani Giustiniano e Teodora sembrano destinati a un'esistenza oscura. Lei è la bellissima figlia di un guardiano del Circo, e di mestiere fa l'attrice, barcamenandosi fra teatri e amanti ricchi e maneschi. Lui è il nipote del generale Giustino, un rozzo militare analfabeta che non riesce ad avere peso a corte. Il destino, però, ha altri piani per loro. Giustiniano, implicato in una serie di rivolte per rovesciare l'imperatore Anastasio, da politico consumato riesce a far salire al trono lo zio Giustino, diventando il più potente ministro dell'Impero. Teodora, invece, sfuggita alla vendetta di un governatore suo ex amante, diventa confidente del patriarca eretico di Alessandria e viene inviata come spia e mediatrice a Costantinopoli, proprio per contattare Giustiniano, alle prese con una complicata e pericolosa trattativa con il papa.
Due fratelli indagano sulla morte del padre, ex operaio Fiat ucciso nel suo bar di Centocelle durante una rapina. A raccontare è il più giovane, che scopre una misteriosa dedica in codice - "Non lasciarmi sola, Clelia1979" - sul retro di una cornice. Si apre così uno spiraglio sul passato insospettabile del padre. Dietro all'immagine del barista ironico e tifoso della Roma emerge uno sconosciuto segnato da segreti e contraddizioni che affondano negli anni della contestazione e della lotta armata. Tito, il primogenito, di quel passato è certo: ha raccolto con scrupolo le prove che dimostrano come il padre abbia sempre fatto la scelta più onorevole, dalla parte dello Stato. Il minore invece, tormentato dai dubbi, si trova a fare i conti con il fantasma del padre, che gli appare in forme e visioni sempre più allucinate per dire la sua storia e mostrare una strada verso la possibile verità sul suo omicidio. I due fratelli - che da anni non si parlano, schierati su versanti ideologici opposti - sono costretti a collaborare, diffidano l'uno dell'altro, si rinfacciano colpe, si passano alcune informazioni ma ne omettono molte altre. Il maggiore, un poliziotto convinto protagonista dei fatti avvenuti alla Diaz e a Bolzaneto, è aiutato dall'accesso a documenti riservati dei servizi segreti attorno agli anni di piombo; il minore ha al suo fianco due amici scalcagnati e irresistibili. E poi c'è Elena, un'hacker che lo accompagna con intuito e rigore matematico nella ricerca dell'assassino, sciogliendo la sua cronica incapacità di decidere e spingendolo oltre l'indolenza e la paura. Per svolte inaspettate, supposizioni e disvelamenti, la domanda "chi ha ucciso il padre?" trascina il lettore in un groviglio di colpe e responsabilità dove, in un crescendo hitchcockiano, sembra impossibile giungere alla verità. E, più che mai, essere in grado di dimostrarla.
La mattina del 24 marzo 1946 Alexandre Alekhine, detentore del titolo di campione del mondo di scacchi, venne trovato privo di vita nella sua stanza d'albergo, a Estoril. L'esame autoptico certificò che il decesso era avvenuto per asfissia, e che questa era stata provocata da un pezzo di carne conficcatosi nella laringe - escludendo qualsiasi altra ipotesi. La stampa portoghese pubblicò la versione ufficiale, e il caso fu rapidamente archiviato. Da allora, però, sulle cause di quella morte si sono moltiplicati sospetti e illazioni. Qualcuno ha insinuato che le foto del cadavere facevano pensare a una messinscena; qualcun altro si è chiesto come mai Alekhine stesse cenando nella sua stanza indossando un pesante cappotto - senza contare che il defunto aveva un passato di collaborazionista, e che i sovietici lo giudicavano un traditore della patria... Con il fiuto e il passo del narratore di razza, e con la sua profonda conoscenza del mondo degli scacchi ("lo sport più violento che esista", ha detto uno che se ne intendeva, Garri Kasparov), Paolo Maurensig indaga sulla morte di Alekhine cercando di scoprire, come dice Kundera citando Hermann Broch, "ciò che solo il romanzo può scoprire".
Due adulti sposati (non tra loro) che si ritrovano uniti da una passione incontrollabile e da un amore coriaceo, particolarmente resistente alle intemperie. Viviana è sexy, vitale e intrigante, e ha un notevole talento per i discorsi intorcinati. È combattuta fra restare amante e alleviare cosi le infelicità matrimoniali o sfasciarsi la vita per investire in un'altra. Modesto è meno chic, decisamente più sboccato e sbrigativo nella formulazione dei concetti, ma abilissimo nell'autoassoluzione. Spara battute a sproposito per svicolare, e fa pure ridere. Moderatamente vigliacco, aspirerebbe alla prosecuzione a tempo indeterminato della doppia vita piuttosto che a un secondo matrimonio, visto che già il suo non è che gli piaccia granché. È nella crucialità del dilemma che Viviana trascina Modesto dall'analista, cercando una possibilità di salvezza per il loro rapporto ormai esasperato da conflitti e lacerazioni continue. Il dottore è spiazzato nel trovarsi di fronte una coppia non ufficiale, libera da vincoli matrimoniali e familiari, che non ha nulla da perdere al di là del proprio amore. Accetterà l'incarico per questa ragione, trovandosi nel mezzo di una schermaglia drammatica e ridicola insieme, e rischiando di perdere la lucidità professionale.
Teresa è in fuga. Dalla sua terra – la Sicilia. Da un padre ostinato che non c'è più. Da una madre lamentosa e implacabile. Eppure Teresa è una ragazza che sa sorridere e ridere della vita. Trova riparo a Roma. L'amica Gisella le ha offerto un lavoro: tenere compagnia ai malati terminali. Teresa accetta, titubante. Scopre un'umanità vigorosa, uomini e donne feriti a morte ma capaci di sorprendenti impennate di vitalità, quella vitalità che anche lei sembrava aver smarrito e che ora, lentamente, tenacemente, sta riacquistando. Le cose cominciano a girare per il verso giusto – trova addirittura un ragazzo che sembra troppo perfetto per essere vero – ma un passato archiviato in fretta torna ad affacciarsi e non le dà tregua. Teresa mastica pensieri di rabbia. All'inizio sono soltanto pensieri, ma quando conosce il suo nuovo assistito – Libero Ferrari, un ruvido e scorbutico ex brigatista, condannato per omicidio – allora quei pensieri vogliono l'azione.
È giunto il momento di saldare i conti?