
È una singolare giornata dell'anno 1799 e il capitano Delano, fermatosi sulle coste cilene per far acqua nell'isolotto di Santa Maria, avvista la nave San Dominique che sembra aver perso il governo e riesce a salire a bordo con qualche provvista. La San Dominique trasporta schiavi negri e altra merce di valore. Durante la traversata è scoppiato un ammutinamento e i negri, uccisa la maggior parte dell'equipaggio bianco, hanno risparmiato la vita a Benito Cereno, il comandante, perché li riporti in Africa. Scampati a un naufragio a Capo Horn la nave è ferma, in balìa di una misteriosa attesa. "Benito Cereno" è una grande e tragica avventura di mare, che rivela l'aspetto buio, profondo dell'umanità.
Cosa accade a una famiglia cui capiti la disgrazia di avere un figlio problematico, la Lessing ce lo ha già raccontato in "Il quinto figlio". Ma cosa succede, una volta adulti, a questi figli? Ben Lovatt è diventato grande. Troppo. Le sue dimensioni spaventano tutti. Ha appena raggiunto la maggiore età e nessuno è più costretto ad occuparsi di lui. Così Ben è alla mercé di chi incontra, talvolta si tratta di persone gentili, più spesso di profittatori. E si trova a viaggiare verso il Sud della Francia, poi verso il Brasile, coinvolto prima in un traffico di droga e infine in affari molto più loschi e pericolosi.
Il VI secolo non fu un periodo di pace, per l'impero romano. Nel corso dell'esteso regno dell'imperatore Giustiniano, durato dal 527 al 565, i fronti di lotta furono particolarmente estesi. Oltre alle insidie nella stessa Costantinopoli che minavano la stabilità del trono, Giustiniano dovette fronteggiare le controversie religiose e gli attacchi dei pagani, per non parlare dell'impegno diplomatico profuso nel nascondere gli scandali sollevati da Teodora, sua moglie, nota per le avventure fedifraghe. Impegnato in guerra contro la Persia, Giustiniano concentrò le proprie ambizioni sui territori occidentali contro vandali, goti e visigoti. Fu così che i suoi nemici impararono a rispettare e a temere il nome di un uomo tanto abile in battaglia quanto leale nei confronti di chi lo aveva chiamato a difendere il destino dell'impero: Belisario, il più grande generale di Giustiniano. Forte della sua vasta conoscenza storica, Robert Graves tratteggia un affresco vivido di un'era alle soglie di un declino inevitabile e al tempo stesso splendida.
Siamo alla fine del Settecento. Barbara della nobile casata dei Grebe, sposa il borghese Edmund Willows, conquistata dalla sua straordinaria bellezza. È quella, e solo quella, ad accendere la passione della giovane donna. Poco dopo le nozze il marito parte per un viaggio in Europa e Barbara, per ricordarsi delle fattezze splendide fa eseguire un ritratto marmoreo del marito per tenere desta la sua passione. Mentre è sulla via del ritorno Edmund rimane orribilmente sfigurato in un incendio scoppiato a Venezia. Torna a casa con il viso protetto da una maschera di seta ma Barbara non regge alla vista di quella deformazione: il suo grido di orrore allontana il marito per sempre. A questo punto entra in scena Lord Uplandtower che riesce a sposare Barbara convinto di riuscire a farle dimenticare il bellissimo Edmund. Ma si sbaglia: Barbara è come presa da un'ossessione; notte dopo notte la statua del primo marito riceve gli abbracci di colei che non è più sua moglie. Quella follia è, secondo Lord Uplandtower, un autentico adulterio e con un colpo di teatro degno del grande sadico quale egli è, fa confezionare a sua volta, come l'anonimo scultore che a Pisa aveva riprodotto con tanta verosimiglianza il corpo di Willowes, una copia conforme di quel corpo violato dal fuoco, costringendo Barbara a contemplare la statua sfigurata.
In tutti e tre i racconti che compongono questa raccolta Muriel Spark ci proietta in uno scenario molto diverso da quelli altamente anglici a cui ci ha abituati: l'Africa, dove si trasferì, giovane sposa, nel 1937, rimanendovi suo malgrado, a causa della guerra, fino al 1944. L'Africa nera di un'asfittica colonia inglese popolata di piantatori con velleità letterarie e mogli brille e incarognite che dormono sempre con la pistola sul comodino, "posto feroce" che "tira fuori il lato più crudele" di ciascuno, e dove avvengono quei continui omicidi fra bianchi che tanto incuriosiscono chi, in patria, ne legge placidamente le cronache sul giornale bevendo il tè del mattino. Qui incontriamo la giovane Sybil che, catapultata nell'altro emisfero, vi trova proprio la compagna di scuola che detestava di più; o Daphne, ossessionata dal grido funereo e premonitore dell'Uccello va'-via: giovani donne che guardano con spietato disincanto il malevolo consorzio umano che le circonda.
John va ancora al college, eppure è già alla sua seconda vita. La prima l’ha vissuta segregato in un lettino a sbarre in un istituto di Mosca, una di quelle Case dell’Infanzia ideate da Stalin e ancora esistenti. Trattato come un bambino fallato, come vengono considerati i piccoli che dopo diagnosi frettolose ricevono l’etichetta di idioti. John aveva un altro nome allora, Vanja, anche se quasi nessuno si rivolgeva a lui. Nessun legame con i bambini, questa è la regola per il personale. Nutrirli e cambiarli, senza guardarli, toccandoli il meno possibile. Un inferno in terra a cui è condannato chi è destinato all’oblio, e non può nemmeno sperare in un’adozione.
Ma Vanja non è ritardato. Vanja è un bambino sveglio, dagli occhi curiosi, ingordo di affetto e di contatti umani, l’unico in grado di parlare nella stanza in cui è prigioniero con una dozzina di sfortunati come lui.
È grazie alla parola che per lui si accende una speranza. Un giorno una donna, una straniera, si affaccia alla sua stanza e gli regala una macchinina. «Torna ancora» le grida Vanja. Una richiesta d’aiuto che non si può ignorare. La donna, Sarah, moglie di un giornalista inglese, è in contatto con associazioni internazionali che cercano tra mille difficoltà di aiutare quei bambini. Torna Sarah, perché ci sono promesse che non è possibile disattendere, per nessun motivo. Sarà l’inizio di una lunga battaglia, contro la tentacolare burocrazia russa, la diffidenza, i pregiudizi, per dare a Vanja quello di cui ha un disperato bisogno: una mamma.
Una storia di generosità e coraggio, una testimonianza che sprigiona una contagiosa voglia di vivere.
Fawad ha undici anni ed è «nato all’ombra dei talebani», come gli ripete sempre sua madre, Mariya. Non gli è chiaro cosa significhi esattamente, perché lei non aggiunge altro e lui era troppo piccolo quando quei fabbricanti di tenebre erano ancora in circolazione, ma una cosa è certa: una traccia di quell’ombra è rimasta sul volto della mamma. Severa e taciturna, non parla mai della famiglia perduta: il marito e il figlio più grande, uccisi, e la figlia rapita. Solo di tanto in tanto solleva lo sguardo dal cucito e rievoca i tempi felici, che nei suoi racconti hanno i colori di stanze dai grandi cuscini rossi e di un giardino dalle rose gialle.
Fawad pensa che la mamma, con le immagini che si inventa, potrebbe fare la poetessa, se solo sapesse scrivere, e invece è costretta a fare le pulizie nelle case dei ricchi per tirare avanti. Mentre lei è persa nel buio dei ricordi, Fawad corre nel vento e nel sole polveroso delle strade di Kabul, dove, insieme ai suoi amici, si inventa ogni giorno nuovi trucchi per alleggerire le tasche degli stranieri di passaggio.
Fino al giorno in cui Mariya trova impiego presso tre occidentali: Georgie, operatrice di una ONG; May, ingegnere; James, giornalista. Raccolto il poco che hanno, madre e figlio si trasferiscono a casa di quegli estranei: un mondo nuovo e bizzarro, fornito di tv e acqua corrente, ma fatto di stili di vita inconcepibili per chi è afgano. Spinto da un misto di curiosità e diffidenza, Fawad comincia a spiarne gli abitanti, fino a scoprire che tra quel mondo e il suo possono nascere l’amicizia e l’amore. Ma capisce anche che è impossibile sfuggire completamente alle tenebre. E lui stesso si troverà a fare i conti con l’ombra dei talebani quando questa tornerà a incombere sulle persone che più ama.
Ci sono molte cose che Leila non capisce. La parola matrimonio, per esempio. E nemmeno di cosa parlano le nutrici quando dicono che sua sorella maggiore, dimenticata come lei in un istituto, è già incredibile che qualcuno la voglia sposare. Però quando Wifaq, una sua compagna di scuola, dice: «Mia madre non vuole che parli con le figlie del peccato», Leila capisce eccome. In Sudan, dove Leila è nata, nascere fuori dal matrimonio è una maledizione, un’infamia incancellabile. La sorte di questi bambini è segnata. Molti vengono abbandonati a loro stessi. I più fortunati, come Leila, vengono cresciuti negli orfanotrofi , con il marchio della colpa. Senza affetto. Senza un futuro.
Ma Leila ha un carattere forte e si oppone al destino che tutti considerano già scritto. Finché un giorno sente il bisogno di fare qualcosa per i bambini come lei.
In quel pomeriggio lontano, alla frase di Wifaq aveva reagito con rabbia. Con una manciata di terra stretta in pugno, l’aveva aspettata fuori casa e gliel’aveva sbattuta in faccia, prima di scaraventarla nella polvere. Ma ora sa che parlare al cuore è meglio che aggredire.
Una memoir coinvolgente, che sussurra parole di speranza e riscatto.
Camelot è un venditore ambulante che viaggia da molti anni e per vivere vende reliquie false. È anche un vecchio sfigurato da una cicatrice che lo ha reso privo di un occhio. Fingendosi un reduce delle battaglie contro gli infedeli in Terra Promessa, ha fatto del marchio che porta in faccia un mezzo per sopravvivere e così vende speranza e “fede in bottiglia”. Ma ora da tempo è lontano da casa e il ricordo del passato si fa vivo nella mente di Camelot, forte e nostalgico. Il venditore intraprende così la lunga strada di ritorno verso la Scozia, mentre l’imprevista esplosione della peste trasforma il suo viaggio in una fuga dall’epidemia. È il nefasto giorno di mezz’estate del 1348, quando il contagio comincia a diffondersi nel Paese e quando Camelot incontra Narigorm, una bambina albina, lettrice di rune. I suoi occhi celesti, splendenti nella cascata bianca e immacolata dei suoi capelli, lo fissano insistentemente come se volessero leggergli dentro. Un incontro fatale, il primo di una serie, che porta Camelot a proseguire il suo cammino con una nuova e bizzarra compagnia, unita dalla necessità di sopravvivere alla peste. Un mago bigotto, un cantastorie, un pittore di scene sacre, un musicista veneziano e il suo pupillo, un’esperta di erbe e infine proprio la bambina albina diventano così protagonisti di questa fuga dalla disperazione. Quando però uno del gruppo viene trovato impiccato a un albero, tra loro s’insinua il dubbio e la diffidenza. Qualcosa di più terribile della peste minaccia la loro vita, un segreto nascosto in ognuno di loro. Solo la bambina e le sue rune sanno cos’è.
Pubblicate anonime a Londra nel 1798, le Ballate liriche segnarono la nascita del movimento romantico inglese, divenendo ben presto un classico. Eppure ancora oggi possono rappresentare una scoperta, perché di vere e proprie poesie "sperimentali" si tratta. Esse infatti gettano le fondamenta di un nuovo linguaggio, proiettandosi verso il mito rigeneratore dell'immaginazione e giungendo a delineare la condizione ironica e sentimentale del poeta moderno. Pur nella diversità di intenti dei due autori - Wordsworth teso a ricreare il fascino del nuovo nella realtà quotidiana, Coleridge a rendere tangibile il sovrannaturale - queste ballate sono unificate dalla grande novità della poesia romantica: lo spontaneo traboccare delle emozioni e l'aspirazione a una visione globale dlla realtà.
Testo di snodo imprescindibile per la letteratura moderna, il volume contiene alcuni capolavori assoluti della lirica occidentale, come La ballata del vecchio marinaio di Coleridge e L'abbazia di Tintern di Wordsworth.
L'esperienza di essere nato in una famiglia gallese appartenente a una denominazione protestante particolarmente rigorosa ha segnato in maniera indelebile il rapporto di Ken Follett con la religione. Egli iniziò a trasgredire le ferree regole del puritanesimo non appena possibile. Sarà all'università, dopo il confronto con Platone, Cartesio, Marx e Wittgenstein, che si ritroverà infine ateo, anzi, ateo arrabbiato. Ma qualcosa ultimamente è cambiato...
Un successo immediato accolse fin dalla prima edizione "Le straordinarie e sorprendenti avventure di Robinson Crusoe". Nei quasi trent'anni trascorsi lontano da ogni forma di civiltà, Robinson costruisce, coltiva, caccia, assegna nomi, ripercorrendo in sostanza la storia del genere umano. La forza di suggestione di quelle pagine è tale da aver oscurato tutto il resto, e forse pochi saprebbero dire, a dispetto della notorietà della vicenda, che cosa avvenne prima e dopo il fatidico naufragio. Dall'universo letterario Robinson Crusoe è passato rapidamente a quello del mito, e tuttavia questo non esaurisce il progetto dell'opera. Robinson, infatti, protagonista di una biografia in due tempi, fa ritorno nelle "Ulteriori avventure" alla sua isola di Speranza, di cui fu già king and lord. Qui ricomposto, il grande affresco di Robinson si arricchisce per la prima volta anche della traduzione italiana delle "Serie riflessioni", in cui lo stesso personaggio rievoca e commenta in chiave morale alcuni episodi del libro.