
Ogni proposta morale si concentra sui modi in cui i soggetti si relazionano e sulle norme che dovrebbero regolare tali relazioni. Rimane, però, spesso inevasa la domanda circa l'esistenza di una pluralità di soggetti a cui applicare l'analisi etica e morale. In questo volume, si studiano le vie entro cui storicamente si è messa in discussione una certezza in cui inevitabilmente confidiamo: l'esistenza degli altri. Ci si chiederà: io sono il solo soggetto? Posso affermare che tutto ciò che vedo e tutti coloro con cui mi relaziono esistono, o sono imprigionato dentro a una convinzione tanto illegittima quanto inevadibile? Il percorso, che si seguirà per tentare l'impresa di affermare l'intersoggettività, sarà quello dell'argomentazione elenctica: via di "mostrazione" dialettica, dialogica, ma - qualcuno sostiene - non necessariamente inclusa in un contesto intersoggettivo. Sfruttando lo stesso élenchos, si cercherà di mostrare che l'intersoggettività non è solo l'ambiente fattuale in cui ogni affermazione e ogni presa di posizione scettica avvengono, ma è anche loro presupposto pragmatico strutturale e, per questo, necessario.
Fino a poco tempo fa tutte le società hanno considerato il matrimonio come una partnership coniugale, l'unione tra un uomo e una donna. "Che cos'è il matrimonio?" identifica e difende le ragioni di questo consenso storico e mostra come ridefinire il matrimonio civile non solo non sia necessario, ma anche irragionevole e contrario al bene comune. Pubblicato originariamente sull'"Harvard Journal of Law and Public Policy" (2010), è divenuto rapidamente uno dei saggi più citati nel mondo delle scienze sociali. Da allora è stato oggetto di dibattito di studiosi e attivisti in tutto il mondo come la più formidabile difesa della tradizione. Gli autori propongono una critica penetrante all'idea che l'uguaglianza richieda di ridefinire il matrimonio. Essi difendono il principio che il matrimonio, come unione di corpo e spirito ordinato alla vita famigliare, lega l'uomo e la donna come marito e moglie, e mostrano come esso sia non un bene privato e individuale, ma un bene pubblico capace di garantire spazi di libertà ai cittadini. Senza il concorso di questi fattori costitutivi del matrimonio, si finisce per riconoscere le più svariate forme di unione sessuale, erodendo l'istituto matrimoniale e danneggiando seriamente il bene comune sociale.
"Vi è un tipo di terribile cui il poeta ha accesso solo e unicamente tramite il disgustoso. È il terribile della fame." Non stupisce, alla luce di questa affermazione di Gotthold Ephraim Lessing, che l'estetica si soffermi su quanto di più disgustoso ci sia nel cibarsi. Nell'estetica moderna, il disgusto si annida nella definizione stessa del gusto e si appella a quell'oscurità in cui è stato relegato in quanto senso inferiore. L'elemento carnale, corporeo, materiale, inevitabilmente legato al gusto e al piacere estetico, è dunque anche ciò che genera il rovesciamento del piacere in dispiacere, del gusto in disgusto. La possibilità di un'estetica del disgusto, di una forma di godimento al tempo stesso attraente e repulsiva dell'arte, si rivela una sfida particolarmente stringente per la riflessione filosofica, che ha dedicato negli ultimi anni un'attenzione sempre maggiore a questa sensazione. Il carattere innovativo dei saggi raccolti in questo volume consiste proprio nel restituire una definizione del rapporto tra gusto e disgusto a cavallo tra estetica e alimentazione.
In mezzo all’enorme mare degli scritti di Péguy, qual è il punto essenziale? Péguy ha lasciato pagine memorabili di sofferta partecipazione al dramma degli esclusi, di penetrante critica dell’uso ridotto della ragione tipico del «mondo moderno», di veemente ribellione di fronte alla «mistica» rimpicciolita in «politica», di partecipata immedesimazione con passi del Vangelo, di passione per la propria patria: che cosa privilegiare? Péguy ci ha inoltre parlato in modo indimenticabile della «piccola speranza», della nobiltà del «lavoro ben fatto», della grazia che buca le corazze più dure ed è impotente di fronte alle «anime abituate», del padre che è «il più grande avventuriero della storia» e del bambino che è «l’innocenza» che non si recupererà mai più, di Dio quasi imbarazzato di fronte alla libertà umana. Tutto questo ruota attorno al punto infuocato riassunto dalla parola «avvenimento». Péguy, infatti, ci ha aiutato a ricordare che la dinamica dell’avvenimento è essenziale per ogni autentica conoscenza. Alain Finkielkraut lo aveva scritto anni fa e lo ha approfondito nell’intervista che ci ha concesso in occasione della mostra e che pubblichiamo integralmente in questo catalogo. Péguy ci ha anche ridetto, con splendore di parole taglienti, che il cristianesimo stesso è, supremamente, avvenimento e che ridurlo a qualsiasi altra cosa – discorso o morale, organizzazione o devozione, ricordo o utopia – significa immiserirlo fino al punto di soffocarlo.
Questo volume racconta la filosofia dell'Ottocento dal pensiero posthegeliano all'appendice novecentesca, quando con la Prima guerra mondiale si chiude un'epoca culturale, oltreché storico-politica. Un'età che vede la formazione di indirizzi come il positivismo, l'evoluzionismo, lo spiritualismo, il neokantismo e l'emergere di grandi personalità quali Schopenhauer, Kierkegaard, Marx, Nietzsche, Bergson.
La favola delle api di Mandeville è il punto di partenza del percorso del libro, un percorso che affronta i problemi posti dalla rivoluzione industriale, dal capitalismo moderno e dalla economia del mercato globalizzato. L'indagine va alle radici della formazione dell'individuo sociale, disegnandone la genealogia attraverso le strutture del sacrificio, del dono e dello scambio, in base alla relazione tra denaro, sapere e scrittura e alla conseguente, fatale, mercificazione dei rapporti umani. Il senso del "viver bene" (il buen vivir degli Indios) pone altresì una domanda urgente su possibili economie e politiche alternative o correttive rispetto all'oggi prevalente via del neoliberismo capitalistico: una correzione di rotta che si proponga la salvaguardia della biodiversità e delle differenti tradizioni culturali del pianeta, e soprattutto e in generale l'affermazione dei diritti della vita "della nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa".
Hegel, l'imponente filosofo, snodo fondamentale del pensiero dell'Occidente, ha sempre suscitato le mie resistenze. Non tanto per un'ostilità, quanto perché il suo formidabile sistema si annunciava come la fine di un'epoca. Ma Hegel spariglia sempre le categorie in cui i suoi lettori intendono rinchiuderlo. Il suo pensiero non si offre con facilità, ma invita il lettore a confrontarsi non tanto con ciò che Hegel afferma, quanto con il percorso in base a cui Hegel arriva a dire ciò che dice. Questo è il metodo che il filosofo propone: confrontarsi con una verità che è generata, che si fa in una storia; il prima e il poi non costituiscono una semplice successione, ma un movimento di cui non dominiamo completamente l'origine e la legge. Intorno a questa idea di verità lavorano le pagine di questo libro, suscitate dalla commozione per lo stile hegeliano, in quanto esso non riposa sulla presunzione di un possesso cosciente di sé e della realtà, ma sul riconoscimento di una lacerazione e di un negativo come strutture dell'io. La lettura di Hegel è anch'essa presa in questo spiazzamento continuo, in questa storia non lineare: alterità all'opera nel pensiero, processo che si genera nello spazio di un probabilmente.
Scrive Hegel: "Niente vien saputo che non sia nell'esperienza". Come si concilia questa affermazione con il sistema idealistico hegeliano? Mario Dal Pra si propone qui di dare risposta a tale interrogativo esaminando le opere di Hegel e ponendole in dialogo con quelle di Hume, Kant e Marx. Anticipando, con finezza e rigore, un tema di studio sorto nella filosofia angloamericana degli ultimi anni, a opera di John McDowell, Robert Pippin, Robert Brandom, Dal Pra pone inoltre a confronto l'idealismo hegeliano con il neoempirismo novecentesco, con particolare interesse a John Niemeyer Findlay e alla sua interpretazione di Hegel, inteso come un possibile "empirista critico-metafisico". Per Dal Pra, Hegel si muove sempre tra due posizioni contrapposte: da un lato vuol mostrare la costituzione dialettica dell'esperienza, dall'altro ne dà una giustificazione metafisica totalizzante; ammette il dato di fatto e lo "uccide"'' speculativamente. Si può allora concedere alla dialettica una funzione euristica che, depurata della sua natura metafisica, conosca la relazionalità della realtà, ma Hegel sembra così, paradossalmente, ammettere la finitezza della ragione umana. Per Dal Pra Hegel potrebbe essere, suo malgrado, un "realista".
In una società che vive di apparenza e spettacolarità, la discrezione è una necessaria forma di resistenza. Spegnere i riflettori, abbassare il volume, godere dell'anonimato sono gesti politici prima che morali. La discrezione è un'arte, un atto volontario, una consapevole scelta di vita in un mondo che ci vorrebbe sempre connessi, protagonisti, inesorabilmente presenti, e in cui s'impone l'urgenza di una tregua, di staccare e sparire. Come quando, in un paese straniero, assaporiamo la massima libertà di non essere riconosciuti, la discrezione è arte della scomparsa: non nascondere nulla fino a non avere più nulla da mostrare, fino a rendere la propria presenza impercettibile. È arte della sottrazione, non per negare ma per affermare se stessi, e al contempo far scomparire quello che ci definisce. È aprirsi al mondo senza toccarlo, è gioia di "lasciar essere" le cose. È ancora possibile oggi, tra selfie e YouTube, essere discreti? Secondo Pierre Zaoui la risposta è sì: anzi, la discrezione è la nuova faccia della modernità, frutto delle libertà offerte dalle nostre società democratiche. Nel suo saggio, Zaoui convoca i grandi pensatori della discrezione, da Kafka a Blanchot a Deleuze, passando per Virginia Woolf e Walter Benjamin, per delineare i tratti di questa esperienza "rara, ambigua e infinitamente preziosa".
In questo libro Harvey offre una panoramica della crisi della modernità vista attraverso l'analisi degli anni Ottanta, del "rampantismo" diffuso. È una indagine serrata, che accosta e attraversa il dibattito culturale, la mutata esperienza dello spazio e del tempo, l'arte e l'architettura postmoderna, le trasformazioni del modello fordista, l'internalizzazione delle attività finanziarie e la nuova stratificazione sociale.
Il "Manualetto di filosofia contemplativa" di Ran Lahav, che viene qui pubblicato per la prima volta in italiano a cura di Silvia Peronaci, è il copione originario di un intenso laboratorio di vita filosofica tenutosi nel 2005 in Spagna, dove l'autore organizzò, come si legge nella Premessa alla presente edizione, il Primo Ritiro Internazionale di filosofia contemplativa. Se meditare in occidente è pratica ormai sfruttata per tenere in corsa quei clienti che la modernità mette a dura prova, prevenire lo stress stando alla finestra sembra però una proposta troppo comoda. Contemplare, tradizionalmente, rimanda all'idea dello spettatore disinteressato. Nella filosofia contemplativa di Ran Lahav, invece, volta a elevare il senso della nostra esistenza ordinaria, significa l'esatto contrario. Questo Manualetto, quasi un biglietto con le istruzioni scritte a penna per la casa che l'amico ci ha prestato, contiene quelle rare chiavi levigate che aprono bene. Pochi istanti e capiamo, con gradita meraviglia, che l'interno silenzioso dove siamo entrati non è una casa altrui ma il luogo da sempre ricercato, quello di cui siamo protagonisti indiscussi - la nostra stessa vita.

