
Quando pensiamo al lusso, immediatamente ci chiediamo quanti soldi siano necessari per comprare un oggetto di lusso. Se poi si vagheggia la possibilità di vivere lussuosamente, subito si calcola quanti quattrini servano per realizzare quel desiderio. Insomma, sotto qualsiasi profilo si prenda in considerazione il lusso, questo ci appare sempre in relazione con il denaro, anzi, con molto denaro. Se fosse soltanto così, una riflessione sul lusso avrebbe poco interesse e, fra l'altro, in un periodo economicamente difficile come l'attuale, sembrerebbe una provocazione. Che cos'è, davvero, il lusso? Stefano Zecchi ne studia le caratteristiche, esamina i procedimenti estetici che trasformano un oggetto qualsiasi in uno di lusso, descrive chi crede di condurre una vita lussuosa e, invece, a volte, è una persona rozza e priva di sensibilità. E dà una risposta in apparenza controcorrente, osservando che il lusso è la naturale aspirazione a una bellezza rara e preziosa nella sua perfezione, che desiderarlo è una chiara testimonianza della volontà di migliorare la propria esistenza, di lasciarsi alle spalle una quotidianità noiosa e ripetitiva. Che è un'esperienza di vita nella bellezza, in cui l'ostentazione del denaro finisce spesso per diventarne il più agguerrito nemico. Ecco perché in queste pagine c'è un accorato richiamo alla necessità di un'educazione estetica che consenta di comprendere fin da giovani cosa sia il bello, evitando abbagli e fraintendimenti di un gusto approssimativo.
In democrazia bisogna rinunciare alla verità pur di garantire la pace civile? Questo è il nodo cruciale, centrale per la filosofia politica, che Nida-Rümelin affronta nel volume. Negli ultimi anni la democrazia come forma politica e sociale, ma anche come forma di vita, è venuta a trovarsi chiusa fra un economicismo neoliberista e un nuovo fondamentalismo culturale: da un lato ha dovuto fronteggiare attacchi di fanatici motivati su base religiosa, o che si spacciano per tali, e dall'altro ha dovuto misurarsi con modelli economici che la considerano un presunto ostacolo sulla strada di un'economia mondiale dominata dai colossi di internet, dove tutti sono produttori e consumatori di beni e servizi scambiati a livello globale. Ci sono dunque soprattutto ragioni politiche per dedicarsi al ruolo della verità nella democrazia. Ma, poiché non esiste un metodo sicuro per separare le convinzioni vere da quelle false, che rimangono perciò sempre rivedibili, che cosa ci rimane allora? Altro non resta nella forma di vita eminentemente umana (Lebenswelt) se non affidarsi alla pratica quotidiana del dare e prendere ragioni - empiriche e normative - che sono certamente permeate dalla razionalità scientifica, ma non sempre con essa coincidenti. La tesi dell'autore è che la verità sia indispensabile in politica poiché senza di essa la democrazia perderebbe il suo volto umano e la sua base partecipativa.
Non ci sarebbe bisogno di leggi, di regole, di comandamenti, se non ci fossero uomini e donne disposti all'imbroglio, alla menzogna, al furto, al falso giuramento e all'omicidio. Eppure - sostiene Ágnes Heller - fino a quando la capacità di distinguere il bene dal male prevale sugli altri princìpi, resta valido un punto centrale di riferimento morale. «Certamente ogni persona retta lo è in modo diverso, ciascuno a suo modo, ma l'uomo e la donna retta rimangono sempre colui o colei che preferirebbe, se fosse posto di fronte a una scelta, soffrire un'ingiustizia piuttosto che commetterla, subire un torto piuttosto che farlo di proposito a un altro». Tuttavia, la rettitudine non è immediatamente identificabile con la bontà o con la scelta della sofferenza come testimonianza morale. L'irreprensibilità di una persona retta è molto più modesta: essa sceglie di soffrire solo nel caso in cui l'unica alternativa alla sua sofferenza sia la causa indiretta della sofferenza altrui.
Nel 1963 Edmund Gettier, un giovane filosofo pressoché sconosciuto, pubblicò su Analysis un breve saggio intitolato "Is justified true belief knowledge?". Grazie alle sollecitazioni e alle sfide lì contenute, la discussione sulla nozione di conoscenza e sulle nozioni correlate - credenza, giustificazione e verità - ha visto negli ultimi cinque decenni il fiorire di una grande varietà di analisi e posizioni filosofiche. L'epistemologia, nel senso di teoria della conoscenza prima ancora che in quello di filosofia della scienza, è oggi, specialmente nella tradizione analitica, uno degli ambiti più vivaci nel dibattito filosofico. Il lettore troverà in questo volume, oltre al saggio di Gettier, i testi epistemologici che sono alla base della ricerca attuale sull'analisi della conoscenza, la natura della giustificazione e il problema dello scetticismo.
Le concezioni naturalistiche si caratterizzano per avere sempre assunto il fatto quale fondamento oggettivo, come se esso fosse autonomo e autosufficiente, cioè non in relazione al soggetto che lo rileva. Di contro, la prospettiva metafisica, intesa in senso non dogmatico, ha riconosciuto che solo l'assoluto può valere quale autentico fondamento, ancorché esso non sia determinabile proprio perché assoluto. Per approfondire le aporie della concezione naturalistica, alla luce della prospettiva metafisica qui delineata, questa ricerca tematizza il ruolo svolto dall'atto di coscienza. Infatti, l'atto di coscienza, che è illuminato dal fondamento, dispone l'esperienza su tre livelli. Il primo livello è quello percettivo-sensibile, nel quale il dato appare come indipendente e, per questo, originario. Il secondo è quello concettuale-formale, nel quale si rivela la struttura costitutiva del dato, cioè la relazione che lo vincola a ogni altro dato e al soggetto cui è dato. Il terzo livello è quello trascendentale, nel quale la relazione non viene più intesa come nesso tra dati, ma come il riferirsi intrinseco di ciascuno, che fa di ogni dato un segno di quell'unico significato che emerge oltre l'esperienza ordinaria.
Cammini, sentieri, verso dove? Non si sa. Che dire poi dell'essenza dell'uomo in ambito etico? Pare non sia più né definibile né auspicabile. Sarà allora possibile parlare ancora di identità personale, o invece persino l'io, come dicono, va declinato al plurale? Sono tematiche, centrali nel dibattito contemporaneo, discusse in questo libro: lo scopo è di mostrare che tali ambiti richiedono distinzioni. Sono nozioni che vanno riconsiderate secondo la sensibilità del tempo, ma sempre con spirito critico. Con i "superamenti" ci vuole molta cautela e prudenza, anche perché la condizione umana, assai fragile, si arricchisce di significati, ma non muta. Il nuovo e l'antico non sono così lontani. Tre saggi compongono questo libro. Il primo affronta la nozione di cammino in un confronto tra la posizione di Hegel e quella di Heidegger. Nel secondo, sulla vita etica, viene in questione il tema dell'essenza umana, con principale riferimento ad Aristotele. Infine il terzo, sull'identità personale, è affrontato attraverso un esame del pensiero di Agostino, Machiavelli, Montaigne, Locke, Schopenhauer e Nietzsche.
Walter Benjamin è stato uno dei più importanti ed enigmatici intellettuali del ventesimo secolo. I suoi scritti, che sovrappongono filosofia, teoria letteraria, analisi marxiana della società e una sorta di sincretismo teologico, sfuggono a ogni tradizionale categorizzazione. E la sua esistenza randagia e spesso in fuga dal minaccioso incalzare degli eventi ha offerto terreno ideale a ogni forma di mitologizzazione. La sua parabola intellettuale muove dal brillante esoterismo dei primi scritti ai saggi che hanno fatto di Benjamin una voce centrale della cultura di Weimar, per arrivare agli anni dell'esilio con le pionieristiche teorie sui media moderni e la nascita del capitalismo di consumo nella Parigi del secondo Ottocento. Questo percorso ha avuto luogo nel corso dei più catastrofici decenni della moderna storia europea: l'orrore della prima guerra mondiale, la surreale instabilità della Repubblica di Weimar e l'incombente ombra del nazismo. Questa nuova biografia, a firma di due tra i più affermati studiosi dell'opera dell'intellettuale tedesco, getta, al di là dei miti e del carattere frammentario della sua opera, una nuova luce su uno straordinario protagonista della cultura contemporanea. Howard Eiland e Michael W. Jennings mettono a disposizione del lettore una ricca messe di informazioni che consentono di ricostruire in modo sorprendente una vita tragicamente straordinaria.
Derive oligarchiche, delegittimazione dei partiti, scollamento tra istituzioni e popolo, dominio dei poteri economici. Perché proprio quando la democrazia sembra diventata ovvia, la partecipazione deperisce e il potere reale diventa sempre più opaco e indiscutibile? Può rinascere un'energia politica nuova e dissidente che rompa il conformismo del discorso pubblico dominante, rilanciando la sovranità democratica e la dimensione sociale dei diritti, oggi gravemente minacciate?
"Che cos'è la giustizia?" è una di quelle domande alle quali l'uomo "si è consapevolmente rassegnato a non poter mai dare una risposta definitiva, ma solo a formulare meglio la domanda stessa". È a questo compito, e all'esplicitazione dei presupposti della propria filosofia della giustizia, che Hans Kelsen dedicò, nel 1952, la lezione di congedo dall'insegnamento che dà il titolo al presente volume. Questo testo, per molti versi "conclusivo", è preceduto da due lezioni inedite del 1949, qui riunite sotto il titolo complessivo "Elementi di teoria pura del diritto", nelle quali Kelsen s'interroga sull'essenza dei fenomeni giuridici, e sui problemi epistemologici propri della filosofia del diritto. Chiude il volume la lezione "Politica, etica, diritto e religione", del 1962, in cui si affronta il ruolo che le credenze religiose possono svolgere nel determinare l'effettività delle norme di un ordinamento sociale. Grazie anche alla loro natura di lezioni, gli scritti qui raccolti offrono una "summa" dell'opera filosofica del grande pensatore, che si confronta da un lato con l'analisi dei concetti giuridici fondamentali, dall'altro lato con il quadro metagiuridico (etico, politico e sociale) nel quale necessariamente si collocano gli ordinamenti normativi.
"La sfida di una predica inculturata consiste nel trasmettere la sintesi del messaggio evangelico, non idee o valori slegati. Dove sta la tua sintesi lì sta il tuo cuore" (papa Francesco, Evangelii Gaudium, 143). Non c'è sintesi senza analisi e non c'è analisi senza sintesi, perché la sintesi è il compimento dell'analisi. Un'analisi senza sintesi è distruzione e una sintesi senza analisi è confusione. Alla scuola di Tommaso d'Aquino le due procedure si bilanciano armoniosamente. Ma se a livello dell'analisi il fondamento della speculazione tomista si trova nella dicotomia potenza-atto, a livello di sintesi il fondamento si trova nella idea di ordine. La proposta che qui si presenta è un approfondimento della visione sintetica, individuando nella nozione di causa esemplare, o meglio di exemplar, il fondamento. Con Tommaso e oltre Tommaso questa nozione viene esplorata come struttura originaria del reale.
La preoccupazione tardiva per ciò che Hannah Arendt ha chiamato le attività della vita della mente, relative all'azione, all'etica e alla politica, prende forma consistente dopo il processo a Adolf Eichmann. Se la questione centrale in "Vita activa" è quella di pensare "ciò che stiamo facendo" e attestare la preoccupazione che attraversa tutta la sua opera (la definizione dell'azione politica comune), già ne "La vita della mente" l'autrice ci sfida a una fenomenologizzazione della vita contemplativa, il cui punto di vista privilegiato è la visibilità delle azioni e del linguaggio. Il punto cruciale per una praxis etica della visibilità è come il soggetto si singolarizza nella comunità politica, un'etica della responsabilità personale. Ci chiama a una costante "resa dei conti", verso noi stessi, verso gli altri e verso il mondo. Questa etica della visibilità apre la possibilità di riproblematizzare il pathos tra il self e il mondo comune, tra coscienza e esperienza - i pilastri che ispirano una nuova simbologia etica nella politica.
Se la coscienza non può essere spiegata dalla fisica e dalla biologia nella loro forma attuale, e se la mente è un prodotto dell'evoluzione biologica, "allora", afferma Nagel,"la biologia non può essere una scienza puramente fisica". Convinto del fallimento della concezione materialistica della natura, che non spiega i tratti fondamentali del nostro mondo connessi con la mente (coscienza, intenzionalità, significato, valori), Nagel sostiene la necessità di rileggere l'intera storia dell'evoluzione assumendo la centralità dei fenomeni mentali e coscienti, governati da principi che, nella loro forma logica, sarebbero teleologici piuttosto che meccanicistici. La visione riduzionistica del mondo, che pone la materia a fondamento di tutta la realtà, è ancora molto diffusa. Riconoscerne i limiti - è questo il senso della proposta di Nagel - rappresenta il primo passo nella ricerca di possibili alternative.