
Passeggiando nei pressi di una fonderia - così si narra - Pitagora ebbe la prima fulminante intuizione circa l'armonia: il suono calibrato che usciva dal luogo lo spinse a entrare e indagarne la natura. Entrato, trovò cinque uomini che impugnavano altrettanti martelli di diverse grandezze. Scoprì così che quattro di quegli utensili, tutt'altro che musicali per loro natura, grazie a ben precise dimensioni, riuscivano a emettere un suono armonico, capace di dilettare l'orecchio oltre ogni aspettativa. Era il primo passo per lo studio dell'armonia sonora e dell'approccio alle leggi che governano la musica. Il quinto di quei martelli invece - punto nodale del discorso dell'autore - venne scartato dalle osservazioni di Pitagora, non essendo egli stato in grado né di misurarlo, né di udirlo distintamente. Cosa indusse Pitagora a questa azione di scarto così ferma e decisa? Il libro parte proprio da questo, ipotizzando che la scelta offra la chiave per la definizione dell'idea stessa dell'armonia. Dal rifiuto del quinto martello, infatti, sarebbe nata la teoria del suono musicale, rifiuto che coincide con il primo assioma della scienza del mondo sensibile.
Si tratta della prima traduzione italiana di un testo fondamentale per la storia dei battisti: un'opera del 1612 scritta da Thomas Helwys che, con John Smyth e un gruppo di esiliati inglesi in Olanda, fondò la prima chiesa battista ad Amsterdam nel 1609. Helwys, tornato in Inghilterra, si stabilì a Spitalfields, a Nord di Londra, dove nel 1612 nacque la prima chiesa di battisti generali su suolo inglese. Questa opera è una sorta di appello a Re Giacomo I e al Parlamento inglese per chiedere la libertà di coscienza e il diritto di praticare la propria religione per tutti i sudditi del Re. Per la prima volta con questo scritto si invoca la libertà di religione e di coscienza per tutti gli esseri umani. Si tratta, dunque, di un documento fondamentale per una serie di tematiche che occuperanno il pensiero e la cultura occidentali.
Filosofia e teologia hanno qualcosa da dirsi? Klaus Hemmerle ne è profondamente convinto, sì da condurre un dialogo appassionato e illuminante tra le due discipline. Negli scritti qui proposti se ne rintracciano le orme in una ricerca che ci conduce dal dialogo tra sacro e pensiero, a quello tra verità e testimonianza, alla questione del tempo e della Trinità, del rapporto tra verità e amore, fino alla domanda del pensare e del suo relazionarsi con l'evento della Rivelazione e con la fede. Salvaguardando la necessaria autonomia di filosofia e teologia, Hemmerle ne esalta insieme la complementarietà e attraverso un atteggiamento di pensiero che cura il dettaglio e guarda tutta la realtà circostante senza prendere nulla per già noto e conosciuto ci offre uno strumento che può ridare slancio sia alla filosofia che alla teologia, affinché si rimettano in gioco per offrire risposte alla cultura odierna. Il volume, che accanto alla selezione dei testi ne vuole offrire anche una lettura organica, è una novità nelle ricerche hemmerliane in ambito italiano. Per tale ragione esso si pone all'interno della collana "Per-corsi di Sophia" quale strumento di riflessione e approfondimento di alcune linee di ricerca dell'Istituto.
"La conoscenza ha carattere donativo". Questo presupposto affettivo nel rapporto tra realtà ed essere umano sta alla base del testo Erkenntnis als Urphänomen, il quale espone la formulazione definitiva e matura della teoria della conoscenza di Hengstenberg, allora ottantaduenne. Il filosofo muove da una ontologia allargata che, nella sua applicazione antropologica, punta al superamento del dualismo tra atto e potenza attraverso una triade concettuale: spirito, corpo, principio di personalità. In particolare le applicazioni gnoseologiche risultano innovative, poiché vanno a riaffermare - in decisa controtendenza rispetto al filone postkantiano e in fruttuosa dialettica con le suggestioni heideggeriane - la fiducia nelle capacità della ragione umana di rapportarsi in maniera costruttiva e limpida con gli enti, primi fra tutti gli enti dal "volto umano".
Collocato tra le ortodossie e la critica radicale alla religione, tra lo scandalo delle divisioni fratricide tra Chiese, delle guerre di religione, e lo scetticismo libertino e ateo, Herbert di Cherbury - statista e filosofo inglese (1582-1648) - delinea un'autentica terza via nel dominio religioso che fa di lui, come già Wilhelm Dilthey aveva colto, l'esponente di quella linea speculativo-teologica «trascendentale o spiritualista» che, dal Cinquecento in poi, muovendo dal teismo rinascimentale e dalla mistica, aveva dichiarato l'universalità della rivelazione, il primato della coscienza e del lumen Dei in essa inscritto sul dogma e sulle istituzioni. Herbert, in questo senso, scrive Dilthey, è colui che «primo tra tutti nell'Europa cristiana pose le basi dell'autonomia della coscienza religiosa mediante l'analisi della capacità conoscitiva in materia di religione». Tra le sue opere ricordiamo, oltre a De religione laici (1645) - qui tradotto e commentato da Gabriella Bartalucci -, De ventate (1624), De religione gentilium (postumo, 1663) e l'Autobiografia (postuma, 1769). Roberto Celada Ballanti.
"All'inizio del 2013 sono venuto a conoscenza di passi contenuti nei Quaderni neri che si riferiscono agli ebrei, all'ebraismo o, meglio, all'ebraismo mondiale. Mi fu subito chiaro che la pubblicazione di questi Quaderni avrebbe suscitato un grande dibattito internazionale. Già nella primavera di quell'anno ho pregato Friedrich-Wilhelm von Herrmann - l'ultimo assistente privato di mio nonno e, secondo una dedica di quest'ultimo, il 'principale collaboratore della Gesamtausgabe', in quanto profondo conoscitore del suo pensiero - di esprimere il suo punto di vista sui Quaderni neri nel loro complesso e, in particolare, sui passi riferiti agli ebrei ora al centro dell'attenzione pubblica. Nelle pubblicazioni sui Quaderni neri si sono diffuse rapidamente espressioni di grande effetto come 'antisemitismo onto-storico' oppure 'antisemitismo metafisico'. Ma c'è davvero dell'antisemitismo nel pensiero di Martin Heidegger? Von Herrmann propone qui la sua interpretazione ermeneutica e il suo collaboratore, Francesco Alfieri, conduce un'ampia analisi filologica dei volumi 94-97 della Gesamtausgabe, approdando a risultati sorprendenti che inaugurano una nuova prospettiva sui Quaderni neri" (dalla Premessa di Arnulf Heidegger).
L'essere umano è homo melancholicus: consapevole delle perdite e della transitorietà di tutto, cerca di trasformare questa coscienza in speranza e creatività. In tempi tristi come i nostri, tuttavia, la malinconia è spinta sempre più in un angolo oscuro dall'in-quietudine e dalla paura, e così rischia di trasformarsi in depressione. Accanto alla pace, all'amore e alla cura reciproca abbiamo bisogno di legami sociali qualificati e di un mondo politico-culturale esuberante per alleviare le nostre paure e mantenere "sano" quel sentimento complesso e ambivalente che è la malinconia e che è stato giudicato in modi estremamente diversi nel corso della storia occidentale. In questo saggio lucido e necessario Hermsen interroga l'essere umano - prendendo spunto da pensatori come Hannah Arendt, Ernst Bloch e Lou Andreas-Salomé - per capire se ha sufficienti coraggio e forza per superare il senso della caducità e stabilire nuove relazioni con il mondo e sé stesso, trasformando in tal modo paura e depressione in creatività e speranza.
Nella sua interpretazione del pensiero heideggeriano, l'autore sottolinea come il sentiero percorso dal filosofo sia stato un cammino accidentato, non privo di difficoltà e di rischi, compreso quello di condurre il viandante in un vicolo cieco, o di trovarsi nell'oscurità di una selva. Ma a questi pericoli Heidegger ha potuto via via sottrarsi restando fedele all'originaria opzione ermeneutica.
Tra le tante conseguenze della globalizzazione, una delle rivoluzioni a cui stiamo assistendo negli ultimi decenni è quella religiosa: a causa soprattutto dei flussi migratori, che ogni anno spostano intere comunità da una parte all'altra del pianeta, per la prima volta tradizioni spirituali diverse, che sono nate e hanno prosperato a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, stanno entrando in contatto. Oggi, nelle periferie delle metropoli d'Occidente, cristiani, musulmani ed ebrei, ma anche buddhisti, indù e sikh abitano fianco a fianco, fanno la spesa negli stessi negozi, vanno a lavoro percorrendo le stesse strade. Culture e sensibilità religiose che per secoli hanno saputo poco o nulla le une delle altre - o, peggio ancora, le hanno immaginate in maniera distorta, ostile - si trovano d'improvviso a dover convivere. Ma che significa "convivere"? Secondo John Hick, eminente teologo e libero pensatore, si può fare molto di più che semplicemente "tollerare il diverso". Lontano da facili panteismi new age e profetico nelle sue intuizioni, Hick è il primo a sostenere - in questo libro che attirò l'anatema del cardinale Ratzinger, allora a capo del Sant'Uffizio - che tutte le religioni potrebbero venerare la stessa divinità, che si sarebbe rivelata a ciascun ramo dell'albero umano in modo diverso, usando linguaggi diversi in base alle caratteristiche dei differenti popoli. È possibile, in altre parole, che nella storia Dio si sia presentato molte volte, con molti nomi?
Il cuore è uno dei simboli universali della vita affettiva, diffuso in molte civiltà sin dai tempi più antichi. Oggi, tuttavia, questo fondamentale simbolo richiama quasi unicamente un vago e impalpabile sentimentalismo, assai lontano dalla consistenza ontologica e dalla capacità di apertura alla trascendenza che l'immagine del cuore ha sempre teso a delineare. In questo breve testo, Hildebrand mostra come il "cuore" sia la sede di un'intensa attività vitale e affettiva, indispensabile per accedere alla conoscenza vissuta di tutta una serie di strati di beni e valori che compongono la realtà. Inoltrandosi nella via aperta da Max Scheler, Hildebrand offre uno dei maggiori contributi all'analisi fenomenologia di questa fondamentale sfera della persona umana, incidendo con apporti determinanti su una riflessione che ancora oggi è al centro dell'interesse filosofico. Il testo di Hildebrand, però, non contiene soltanto una raffinata analisi filosofica dell'affettività umana, ma anche una riflessione intima e meditata sul mistero del Sacro Cuore di Cristo, che aiuta a comprenderlo nella sua profondità teologica evitandone letture superficiali e sentimentalistiche.

