
”Tra i libri che non scriverò mai c’è questa specie di sillabario del mondo secondo il cinema: tutte le esperienze, i sentimenti, i modi di fare, le frasi, le azioni che solo il cinema ha reso possibile. Il bacio, il viaggio, il sesso, la passeggiata, la cena, fare a pugni, il salvataggio all’ultimo secondo, lei che parla a lui dandogli le spalle. Cose che si vedono solo al cinema, e che solo il cinema ha reso reali: la nostra vita sub specie cinematografica” Vincenzo Buccheri
La scienza del sogno raccoglie alcuni dei principali scritti critici di Vincenzo Buccheri, usciti tra il 1992 e il 2009. Si tratta di una raccolta di recensioni, saggi, provocazioni, distillati di ironia, intuizioni fulminee o riflessioni ampie e organiche: pagine intensissime, in cui il cinema riesce a essere insieme un oggetto d’amore e un luogo del pensiero.
Un libro essenziale per capire che cos’è la critica e come interpretarne i luoghi più frequentati: l’autore, il cinema postmoderno, il trionfo del midcult, il destino del cinema italiano. E per dare un senso alla nostra posizione di spettatori.
La scienza del sogno rappresenta, a più livelli, un autentico atto d’amore per il cinema: prima di tutto in quanto espressione diretta di un articolato e suggestivo laboratorio di idee e molteplici spunti di riflessione, di uno sguardo ostinatamente libero e personale sul cinema, da parte di un critico e studioso di grande acume e sensibilità; a un secondo livello, più privato e profondo, questo libro rappresenta anche un appassionato ricordo collettivo, animato da attenzione e cura scrupolose nei confronti della memoria e del lucido pensiero di uno studioso e amico, da parte di alcuni vicini “compagni di viaggio”.
L'arte degli antichi abitanti della Mezzaluna Fertile è lontana da noi, cresciuti nel culto del bello classico e della sua armonia.
Armonia scaturita dal felice sodalizio tra uomo e natura in cui il «canone», filtrato dalla sensibilità , appaga l'uomo e insieme, imprigionandola, semplifica, regolarizza, esalta la natura.
Un tale sodalizio coerente con una cultura antropocentrica, come è quella classica, è impensabile nelle culture che l'hanno preceduta, dell'Antico Oriente e dell'Egitto.
In esse l'arte non è indipendente, ma finalizzata a esprimere un mondo di potere e di fede che la sensibilità è inadeguata a mediare.
In esse la realtà che si vuole rappresentare non è ciò che appare, ma ciò che è.
Per esempio, per rendere il potere del faraone, la sua maestà , solennità , trionfo, in Egitto si scolpiscono statue alte come le colonne del tempio cui sono addossate; per dire stupore, venerazione, fede nel divino l'artista sumerico inventa gli occhi enormi che invadono il viso degli «Oranti».
Questa arte antica sa ignorare le immagini che la sensibilità offre e costruirne, inventarne altre asservite a una tensione interiore.
Sa «deformare» per esprimere. Perciò pensiamo che essa possa essere considerata lontana, ma non estranea, lontana ma attuale (pp. 160).
Pochi personaggi della storia sono stati oggetto di tanti studi e dibattiti come Michelangelo. Accanto a opere critiche e biografie d'incomparabile pregio, ce ne sono altre di pura fantasia che hanno diffuso l'immagine di un Michelangelo irritabile, nevrotico, asociale, schivo, esaurito, melanconico, frequentatore di bordelli, avido, celibe per scelta penitenziale. Questi eccessi stridono con i tratti evidenti e documentati dell'artista. Già a metà '500, nella Vita di Michelagnolo, Ascanio Condivi parlava del suo gran cuore, dell'elevata concezione dell'amore umano, della sua generosità e della sua profonda fede. Mal si accorda, del resto, l'opposta visione con l'estrema delicatezza della Pietà Vaticana e la possente devozione dei personaggi della Cappella Sistina. Com'era dunque realmente Michelangelo? Confrontando i dipinti e le sculture con le lettere e le poesie María Ángeles Vitoria ne restituisce in queste pagine un profilo autentico, libero dai cliché.
Una guida dell'Eremo di Lecceto, luogo eccezionalemnte bello costruito nel 1230 a pochi chilometri da Siena, basata su una ricostruzione storica e artistica dettagliata delle aspressioni di bellezza nel campo artistico e luturgico che fanno dell'Eremo un luogo unico e incantevole.
"Sono qui raccolti per la prima volta tutti i principali scritti di Edward Hopper, unitamente alle sue più significative interviste e alle più importanti testimonianze di coloro che lo conobbero. Sia le sue pagine, sia i racconti di critici e artisti che lo incontrarono, nello studio in Washington Square a New York, oppure a Cape Cod, nella casa affacciata sull'oceano che lui stesso aveva costruito all'inizio degli anni Trenta, restituiscono un ritratto suggestivo e illuminante di uno dei maestri della pittura del Novecento. Hopper si riconferma una figura elusiva ed enigmatica ("Non so quale sia la mia identità. I critici ti danno un'identità, e a volte tu gli dai una mano", dichiara lui stesso), ma le sue rare dichiarazioni sono una chiave imprescindibile per conoscerne la personalità, le convinzioni, gli amori intellettuali. Edward Hopper (Nyack 1882-New York 1967) è il maggior esponente del realismo americano del nostro secolo. La sua pittura, ispirata alla scena americana, dove compaiono case vittoriane e binari ferroviari, fari sulla costa atlantica e caffè solitari, distributori di benzina e immagini di strade cittadine, è al tempo stesso quotidiana e metafisica. La sua opera, come è stato detto, è un'icona del mondo contemporaneo". (Elena Pontiggia) Uscito nel 2000, il volume viene riproposto qui in una ristampa rivista e corretta, in occasione della grande mostra dedicata al pittore.
Il volume riproduce fedelmente l'opera di Gilberto Pressacco apparsa nel 1991, in cui l'autore ha inteso raccogliere per la prima volta in forma organica le sue principali tesi sul repertorio liturgico-musicale della Chiesa aquileiese. Un saggio musicologico che ripercorre principalmente le complesse vicende della "furlana", danza originaria dell'antico Friuli. "Sermo" e "cantus" alludono a ciò che l'oratoria classica ha in comune con la musica, "choreis" è invece un richiamo alla danza nella tragedia attica. In realtà, è soprattutto sotto il termine "marculis", apparentemente latino, che si cela la parte più originale dello scritto: questa parola friulana, infatti, indica un complesso fenomeno di estasi, legato a un'originaria pratica sacra della danza antica friulana. La tesi dell'autore è che alla radice di marculis ci sia una prassi cultuale-sacrale tipica della Chiesa di san Marco, giunta in Friuli da Alessandria d'Egitto e risalente addirittura alle danze di Davide e di Myriam descritte nel Pentateuco. Il costante ricorso all'interdisciplinarietà nella ricostruzione storica e la fitta rete di possibili percorsi alternativi e suggestivi collegamenti fanno di quest'opera un'avventura intellettuale e spirituale, che negli anni successivi l'autore ha continuamente rielaborato e raffinato, senza tuttavia alterarne l'impianto generale e la tesi di fondo.
Il 'Musica disciplina' di Aureliano di Réôme è il più antico trattato carolingio di teoria musicale conosciuto, scritto dall'840 fino all'862 circa e forse fino all'870-875 in un'epoca di grande fervore culturale, durante la quale si sviluppò un progetto di revisione dei libri liturgici contenenti i canti, finalizzato all'unificazione del rito su tutto il territorio dell'Impero. Nel presente studio l'autrice analizza la tradizione manoscritta del testo, mostrando come esso costituisca la probabile testimonianza scritta di un lungo insegnamento orale e il risultato finale di successive integrazioni e ampliamenti di un tonario didattico, raccolta di 'incipit' di canti classificati seguendo gli otto toni del canto gregoriano. L'esame dei contenuti ha rilevato l'intento di Aureliano di ristabilire il legame tra la prassi del canto liturgico e la teoria musicale. Il 'Musica disciplina' avvia alla definizione di un sistema di regole relative alla composizione e all'interpretazione e rispecchia il passaggio dall'oralità alla scrittura, mostrando anche tracce dell'affermarsi di un sistema di notazione musicale.
Tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta il mondo dell'architettura sembra non poter fare a meno della nozione di megastruttura: ovunque si guardi fioccano immagini di architetture, ora mastodontiche ora futuribili, che hanno come unico denominatore comune quello di voler fare tabula rasa rispetto all'architettura fino ad allora prodotta. Tra i vari gruppi progettuali una pagina a sé spetta ad Archigram e Metabolism. Questo volume si è posto l'obiettivo di individuare i limiti della storiografia canonica e di fornire nuove possibili chiavi interpretative. Si ripercorre il cammino dell'utopia architettonica, partendo dal primo '900 e cioè dal macchinismo ludico-futurista di Sant'Elia alle prefigurazioni espressioniste e costruttiviste di Taut e Chernikov, passando per i "progenitori" dell'utopia megastrutturale attraverso le sperimentazioni dei maestri del Movimento Moderno quali Le Corbusier, sino ad arrivare alle utopie tecnologiche sostenute da Fuller e Wachsmann. Si è voluto anche aprire una finestra su ciò che in quegli anni accadeva in Italia, attraverso il lavoro dei gruppi radicali Archizoom e Superstudio, la cui singolare posizione critica, per alcuni versi nichilista, ha sancito insieme agli Expo di Montreal (1967) e di Osaka (1970) il tramonto dell'utopia megastrutturale, la cui eredità sarà soltanto in parte raccolta in alcune architetture contemporanee.

