
Non di rado il volto della povertà viene raccontato attraverso la povertà dei volti che dovrebbero comporlo; volti anonimi, stereotipati, vuoti come gli approcci generalizzati al fenomeno. Non di rado la voce della povertà si manifesta mediante il timbro sordo di chi la vita di strada l'osserva da lontano, certamente con onestà professionale, ma infine con distacco. Essere testimoni di un accadimento significa invece operare dalla giusta distanza, come un equilibrista in bilico tra l'eccesso di empatia (da cui scaturisce la retorica) e quello di alterità (da cui derivano gli stereotipi): ed è proprio da questa cautela che si sviluppa "Il volto (e la voce) della strada". Le precisazioni, storiche o statistiche, operate dai professionisti, accompagnano un viaggio intimo e personale all'interno delle nuove povertà, dove la macchina fotografica e un orecchio attento ci restituiscono i meccanismi di autorappresentazione di chi vive per strada. Un percorso che parte dal basso, rigoroso ma interessato, affinché un tema pericolosamente attuale non continui a nutrirsi del disinteresse sociale e politico. Immagini e parole strappate alla miseria senza morbosità, ma con una rispettosa complicità senza cui non potrebbe costruirsi alcuna riflessione sul disagio abitativo ed economico; un'occasione, infine, per vedere da vicino un profilo d'umanità con cui dovremmo confrontarci con maggiore diligenza. Prefazione di Paolo Pezzana.
Questo volume contiene le note per l'allestimento dello spettacolo, il copione e gli spartiti di una commedia musicale che racconta la storia di due "ragazzi di Don Bosco": Domenico Savio e Michele Magone. Il vero protagonista che emerge dalle vicende è l'oratorio, e il clima di festa che vi si respira: l'oratorio di Domenico e Michele ma anche, di riflesso, l'oratorio di oggi. Disponibile anche il libretto con cd delle canzoni dello spettacolo.
Questo volume propone un’analisi sul senso delle icone cristiane russe da un punto di vista filosofico e artistico. Attraverso un esame del pensiero dei filosofi religiosi russi, e in particolare di Pavel Florenskij, vengono
affrontate le questioni del valore artistico dell’icona in relazione all’arte occidentale, il tema della prospettiva rovesciata e della più generale appartenenza dell’icona al mondo culturale russo. Il volume è s corredato di un’ampia sezione di immagini.
"Lo sguardo" a partire dal quale Ermanno Olmi si racconta a Marco Manzoni è quello che si sono scambiati i suoi genitori quando si innamorarono l'uno dell'altro: un momento che Olmi non ha vissuto direttamente, ma che continua ad accompagnarlo come un ricordo presente ed eterno. Dalla scoperta di quel primo gesto d'amore, il suo sguardo non ha mai smesso di indagare il mistero dell'uomo, raccontando come un poeta dell'immagine i segreti del tempo e il ritmo della natura, la dignità del lavoro e le profondità dello spirito. Ermanno Olmi ripercorre sessant'anni del suo cinema, dai documentari degli esordi ai film premiati nei festival internazionali, sempre fedele a quel primo sguardo innamorato della vita.
"Ho bisogno della bellezza, così come amo ogni anelito dell'uomo per compararsi a essa. Rinuncerei a qualsiasi merito artistico pur di riuscire a fare della mia vita un'opera d'arte." È il principio che guida Ermanno Olmi in questa esplorazione di una vita, delle sue poche certezze e dei suoi molti incontri. Cresciuto nel pieno della disfatta fascista e testimone critico della rinascita nazionale, Olmi è stato giovanissimo fornaio, impiegato ragazzino, regista precoce. Ha vissuto direttamente l'abbandono delle campagne e l'esplosione della società dei consumi e per questo, divenuto protagonista della stagione d'oro del cinema italiano, ha scelto di rappresentare non i lustrini del Boom, ma la cecità di uno sviluppo che ha strappato il nostro Paese alle sue radici contadine. Proprio questa ferita è il cuore filosofico della sua illuminante autobiografia. L'"Apocalisse è un lieto fine" non è infatti solo il racconto di una vita densa e affascinante, degli incontri e dei successi che l'hanno segnata. È soprattutto la profonda, urgente riflessione con cui l'artista che ha saputo cogliere gli ultimi echi della civiltà rurale ci mette in guardia davanti al declino di un'altra epoca umana: la nostra. Abbiamo dimenticato cosa vuol dire "far bene" e coltivato a dismisura l'etica del male minore. Produttività, arricchimento e potere continueranno a rinchiuderci nelle loro gabbie fino a quando non saremo pronti a imparare l'eterna lezione della terra.
"Ho bisogno della bellezza, così come amo ogni anelito dell'uomo per compararsi a essa. Rinuncerei a qualsiasi merito artistico pur di riuscire a fare della mia vita un'opera d'arte." È il principio che guida Ermanno Olmi in questa esplorazione di una vita, delle sue poche certezze e dei suoi molti incontri. Cresciuto nel pieno della disfatta fascista e testimone critico della rinascita nazionale, Olmi è stato giovanissimo fornaio, impiegato ragazzino, regista precoce. Ha vissuto direttamente l'abbandono delle campagne e l'esplosione della società dei consumi e per questo, divenuto protagonista della stagione d'oro del cinema italiano, ha scelto di rappresentare non i lustrini del Boom, ma la cecità di uno sviluppo che ha strappato il nostro Paese alle sue radici contadine. Proprio questa ferita è il cuore filosofico della sua illuminante autobiografia. L'"Apocalisse è un lieto fine" non è infatti solo il racconto di una vita densa e affascinante, degli incontri e dei successi che l'hanno segnata. È soprattutto la profonda, urgente riflessione con cui l'artista che ha saputo cogliere gli ultimi echi della civiltà rurale ci mette in guardia davanti al declino di un'altra epoca umana: la nostra. Abbiamo dimenticato cosa vuol dire "far bene" e coltivato a dismisura l'etica del male minore. Produttività, arricchimento e potere continueranno a rinchiuderci nelle loro gabbie fino a quando non saremo pronti a imparare l'eterna lezione della terra.
Conosciuto in tutto il mondo per capolavori come L'albero degli zoccoli, La leggenda del santo bevitore, Il mestiere delle armi, Ermanno Olmi ha dichiarato di voler abbandonare il cinema di finzione per concentrarsi sulla realizzazione di documentari. Ciò che gli sta a cuore è seguire appieno quello che definisce il sentimento della realtà, "perché la realtà ci parla solo se siamo capaci di ascoltarla, di osservarla in silenzio, e allora ci dice qualcosa che non è traducibile in termini scientifici, logici o fenomenologici: ci racconta ciò che quel segmento di realtà - magari un tram che passa - ha in sé di sacro, ed è la vita che vive attraverso quel frammento". Dalle conversazioni con Daniela Padoan si leva cristallina la voce di un protagonista della storia del cinema che, ripercorrendo i temi che hanno segnato la sua opera, guarda la traiettoria intellettuale e poetica del proprio cammino, in dialogo con una folla di amici evocati di pagina in pagina: Fellini, Bianciardi, Zavattini, Rossellini, Parise, Ungaretti, Pasolini... Ma, più ancora che sul suo lavoro, a Olmi preme riflettere sul mondo che gli sta attorno, convinto della forza testimoniale dell'esistenza di ciascuno. Opinioni spesso controcorrente, talvolta radicali, dove la passione per la politica, intesa nel suo senso più alto e nobile, si fa insegnamento e salvezza.
In una vecchia chiesa ormai in disuso un anziano prete assiste impotente allo smantellamento di tutti i simboli religiosi fino alla sparizione del grande crocifisso e alla trasformazione della casa del Signore in un centro di accoglienza per gli immigrati, "i veri ornamenti del tempio di Dio". Il vecchio prete, senza più un luogo in cui officiare i suoi servizi, si troverà a prendersi cura dei disperati che, inseguiti dalla polizia, hanno cercato un rifugio nella chiesa dismessa, e grazie a loro ritroverà una fede ormai vacillante. Il messaggio di Ermanno Olmi non lascia spazio a dubbi: via i simulacri, dentro gli uomini. La sceneggiatura del film del grande regista lombardo, presentato fuori concorso all'ultima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e accolto dal giudizio unanime dei critici come un piccolo capolavoro, è stata scritta valendosi delle considerazioni di Claudio Magris e Gianfranco Ravasi ed è qui accompagnata da un saggio introduttivo del teologo Vito Mancuso.

