
Abbiamo bisogno di un femminismo che dia la priorità alle vite delle persone. Davvero la massima realizzazione per le donne è quella di arrivare a occupare posti di potere nelle gerarchie delle grandi aziende capitaliste? È quel che ci dice il femminismo liberale, che aspira a rompere il soffitto di cristallo, mentre non si preoccupa affatto delle esigenze della stragrande maggioranza delle donne. Esigenze come la lotta contro lo sfruttamento sul lavoro e i diritti sindacali; il riconoscimento della loro fondamentale funzione di cura dei figli, caricata sulle donne in favore della massimizzazione dei profitti; il diritto alla salute e a un ambiente non inquinato; la lotta contro ogni forma di razzismo e guerra. Oggi che il sistema di valori liberisti è in crisi e stiamo vivendo una nuova ondata femminista internazionale, abbiamo lo spazio per creare un altro femminismo: anticapitalista, antirazzista ed ecosocialista. Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser sono state tra le principali organizzatrici dello sciopero internazionale delle donne negli Stati Uniti.
Obiettivo del nostro tempo può essere una mera coesistenza? L'identità è divisione, dicotomia. Separa 'noi' dagli 'altri', tagliando alla radice i rapporti di somiglianza. La diversità si trasforma così in alterità, con cui coesistere o (se è minaccia) da eliminare. Ma, prima di ogni divisione, gli 'altri' non sono forse simili a 'noi'? E, dopo ogni divisione, le somiglianze non rispuntano forse con la forza della loro inattesa resilienza? A partire da queste ipotesi, Francesco Remotti si inoltra in una impegnativa ricerca sui fondamenti della convivenza, ritenendo che la somiglianza sia una dimensione prioritaria e irrinunciabile. Dai filosofi dell'antichità a quelli della modernità, da momenti significativi del pensiero scientifico ai modi in cui in altre società sono concepite le persone, ciò che viene fatta emergere è una teoria delle somiglianze, che - prima di ogni divisione - induce a cogliere legami e intrecci non solo tra le cose, ma entro le cose. In questo modo, insieme all'identità, viene meno anche il concetto di individuo. Come già in biologia, al suo posto troviamo il 'condividuo', un soggetto che, oltre a condividere con altri somiglianze e differenze, è esso stesso espressione di una vera e propria simbiosi interna, a partire dalla quale dovrebbe risultare più facile pensare alla convivenza con gli altri.
Le origini dell'uomo moderno sono davvero così recenti? La teoria dell'evoluzione è così scientificamente documentata e inattaccabile? Una recente interpretazione archeologica condotta da due ricercatori dimostrerebbe il contrario. Secondo Michael A. Cremo e Richard L. Thompson, a dispetto delle più consolidate teorie scientifiche, le origini dell'uomo moderno non risalirebbero a 100.000 anni fa, ma a ben tre milioni di anni fa. I siti archeologici che producono tali evidenze, non solo sotto forma di reperti paleontologici, ma anche di manufatti, vengono dettagliatamente descritti e interpretati in questo saggio affascinante e provocatorio. L'intento divulgativo di questo studio non smorza tuttavia i toni di accusa contro il mondo scientifico, che secondo gli autori avrebbe ignorato e occultato le prove più scomode, con l'obiettivo di mantenere saldo lo "status quo" della teoria evolutiva. Ciò che emerge è che con ogni probabilità non è esistita un'evoluzione del genere umano dall'Australopiteco all'Homo Sapiens, ma che al contrario uomini e ominidi hanno da sempre coesistito sulla Terra e che quindi la teoria evoluzionista della vita sul nostro pianeta, su cui si basano le odierne scienze naturali, non hanno alcun fondamento certo. Introduzione di Graham Hancock.
La vita nell'amicizia è adesso, lo sentiamo senza dovercelo dire. Vale la pena di vivere per questo, perché c'è l'amicizia. Essa libera la quotidianità dal suo carattere di «compito» e l'esistenza da qualunque sospetto di «doversela meritare». È la ricompensa dei viventi, che non bisogna aspettare anni o in un'altra vita. In questo senso, proprio oggi, per noi contemporanei è una delle più assurde e anacronistiche manifestazioni. Ricorda a una società che ne ha completamente smarrito il senso che non c'è un oltre, ma che esso è già qui, che c'è qualcosa che non corrisponde a nessuno scambio equo, è uno spazio della «ingiusta gratuità», ingiusta perché questa non è offerta a tutti.
Pubblicato a Tel Aviv nel 1943, questo libro propone il primo corso di “filosofia della società” tenuto da Buber nel 1938 all’Università ebraica di Gerusalemme. In quest’opera, e per la prima volta, Buber presenta in modo dettagliato, confrontandola con quella di altri pensatori, la sua idea della condizione umana e considera come differenza specifica dell’uomo rispetto a tutte le altre creature il suo configurarsi come essere sociale in forma peculiare. Secondo il filosofo, infatti, l’originaria socialità umana si mostra come un “a priori” universalmente valido che pone immediatamente in contatto l’“io” e l’“altro” in modo gratuito e nella reciproca disponibilità.
Creare produce conoscenza, costruisce ambienti e trasforma vite. L'antropologia, l'archeologia, l'arte e l'architettura sono tutte modalità di creazione che, in questo libro Ingold mette in relazione. Superando la concezione dell'arte e dell'architettura come compendi di opere da analizzare in chiave antropologica o archeologica, Ingold ripensa l'atto di creazione come un processo in cui artefici e materiali sono in corrispondenza reciproca nella generazione della forma. 'Making' presenta una serie di considerazioni sul significato del creare cose, sui materiali e la forma, la natura del design, la percezione del paesaggio, la vita animata, la conoscenza personale e il lavoro manuale. Le riflessioni di Ingold attingono a esempi ed esperimenti che spaziano dall'industria litica preistorica all'architettura delle cattedrali medievali, dai tumuli circolari ai monumenti, dal volo degli aquiloni all'intreccio di corde, dal disegno alla scrittura.
Reato, certamente, ma anche peccato, «la violenza contro le donne è un’offesa a ogni persona che noi riconosciamo creata a immagine e somiglianza di Dio, un gesto contro Dio stesso»: su questa convinzione si fonda il documento Contro la violenza sulle donne. Un Appello alle chiese cristiane in Italia, ratificato a Roma il 9 marzo 2015. La violenza di genere, vi si dice con sofferta chiarezza, «pone un problema alla coscienza cristiana» e nessuno, singolo, comunità o istituzione, può oggi sottrarvisi. Il documento è punto di arrivo di anni di sollecitudine e di pratiche, e insieme appello a un ulteriore e rinvigorito impegno. In questa scia virtuosa nasce anche questo libro, che non nasconde la fiduciosa speranza di contribuire all’alleanza tra lo spirito del pluralismo religioso e la natura dialogica del femminismo. Il volume raccoglie i contributi di donne e uomini impegnati a vari livelli nell’universo del dialogo interreligioso (ebraismo, cristianesimo e islam), ma anche laici, persone sensibili all’afflizione politica, sociale, teologica e pastorale della violenza di genere.
Oggi parlare di identità culturale significa addentrarsi in una zona di pencolo, perché in suo nome si sono perpetrati crimini che sfidano l'idea stessa di umanità, e nel suo cono d'ombra ancora si annidano le pulsioni più aggressive. Ma l'ambivalenza dei processi identitari, in cui spesso vanno a incagliarsi i tentativi di riflessione sul tema, per Franco Fabbro non ostacola la comprensione, anzi ne è il presupposto. E, se indagata con strumenti conoscitivi adeguati, che integrano le osservazioni paleoantropologiche e le analisi storico-religiose, può suggerire strategie di disinnesco dei potenziali dannosi. Fabbro ha studiato per decenni sotto il profilo neuroscientifico le due componenti identificative e coesive dei gruppi umani, ossia le lingue e le religioni: acquisite entrambe nelle prime età della vita, scolpiscono il cervello con analoghi meccanismi neurali, organizzandosi nella memoria implicita e determinando un'architettura neuropsicologica che differirà a seconda delle singole tradizioni. Questi marcatori culturali sono collegati ai sistemi emozionali, quindi alle reazioni difensive e aggressive. Allora, come mitigare gli aspetti violenti dell'identità culturale e preservarne al tempo stesso gli elementi che conferiscono «consistenza e spessore» agli esseri umani, come scrive il teologo Vito Mancuso nella Prefazione? La proposta neuropedagogica di Fabbro è di esporre precocemente i bambini a quella pluralità di religioni e di lingue che, secondo ricerche ormai consolidate, favorirebbe una più efficace regolazione del comportamento e una maggiore autoconsapevolezza. Proprio là dove adesso c'è pericolo crescerebbe - in ottemperanza a un verso celebre - «ciò che salva».
Quella del presepio è una storia che conosciamo tutti: la nascita di Gesù. Ci sono la Sacra Famiglia, una grotta, una capanna, la stella cometa, una mangiatoia, il bue, l'asinello e i Re Magi. La sua iconografia sembra essere tanto luminosa quanto immutabile. Ma, come spesso avviene con i racconti forniti di un forte significato culturale - quelli che hanno valore fondativo per una comunità o per un gruppo -, anche la narrazione della Natività è frutto di centinaia di anni di riscritture, di racconti che nel tempo si sono sedimentati su una base originariamente povera di dettagli. Nei Vangeli di Luca e Matteo molti degli elementi che popolano i nostri ricordi di bambini, infatti, non sono presenti. Non si parla né di una capanna né di una grotta, e nemmeno di due bestie che avrebbero tenuto al caldo il corpo del neonato. Queste pagine descrivono dunque il processo che ha condotto alla formazione di una vera e propria scenografia culturale della Natività, in base alla quale Gesù, che secondo Matteo era nato in una casa, passo dopo passo è arrivato a vedere la luce in una grotta, vegliato da animali soccorrevoli: come tanti eroi mitici dell'antichità destinati a cambiare il destino dei popoli. Quanto ai personaggi più fiabeschi del presepio - il bue, l'asino, i Re Magi -, scopriamo con sorpresa che la loro creazione, e la loro definizione, è stata prodotta non dalle invenzioni del folclore, ma da dotte speculazioni teologiche. Infine, l'autore disegna una vera e propria antropologia del presepio, mettendo in luce la trama di relazioni che da un lato lega fra loro la Sacra Famiglia, i pastori e coloro che «fanno il presepio », simbolicamente rappresentati da queste figurine; dall'altro ristabilisce il contatto con le statuette utilizzate nelle pratiche votive di epoca classica, per testimoniare, ora come allora, fedeltà, memoria e gratitudine alla divinità. Bettini ricostruisce questo avventuroso percorso antropologico con la cura del filologo e la passione del narratore, mostrandoci tutta l'affascinante complessità meticcia che si nasconde sempre dietro la tradizione.
Di cosa parla questo libro? Nella prima parte, del rapporto tra animali umani e animali non umani. La rigida demarcazione del confine tra "uomo" e "animale" costituisce il fondamento ontologico della nostra cultura antropocentrica, che giustifica ogni forma di sfruttamento, sopraffazione e prevaricazione su tutti gli esseri viventi. Perché si è affermato questo modello? Esiste la possibilità di un rapporto diverso? Il testo prende in esame le radici e l'evoluzione del modello antropocentrico nei diversi ambiti - religioso, filosofico, scientifico, linguistico - mettendo in evidenza le criticità e le contraddizioni, per poi offrire prospettive di pensiero e di azione che se ne distaccano, in un diverso modo di pensare se stessi, il nostro mondo e gli altri animali. Nella seconda parte, il testo esamina alcuni fenomeni propri del regno animale, soffermandosi sulle straordinarie facoltà intellettive di alcune specie animali e sulla loro capacità di provare sentimenti ed emozioni superiori. Infine, uno sguardo sull'alimentazione vegetariana, con un confronto tra le caratteristiche organolettiche delle proteine animali e vegetali.
Confrontarsi con alcuni orientamenti delle neuroscienze significa accettare che siano messe in discussione le acquisizioni della tradizione filosofica e teologica, secondo le quali gli esseri umani si stagliano al di sopra di tutti gli esseri viventi perché, essendo dotati anche di un principio spirituale, costituiscono il confine tra il mondo dello spirito e quello della materia. Ma per comprendere il fenomeno umano basta attenersi all'indagine scientifica? Nessuna demonizzazione dei saperi scientifici, piuttosto un tentativo di comprendere i dati che essi offrono alla teologia, la quale ha la convinzione di dare un contributo per la custodia dell'essere umano da ogni possibile manipolazione cui lo si esporrebbe qualora lo si considerasse soltanto un vivente tra gli altri.
Sono le due domande che dovrebbe porsi il lettore che affronta l'opera di Heschel. Vuole sapere davvero ciò che vuole? Vuole davvero uscire dal disorientamento (non privo di vantaggi come ogni nevrosi) in cui tutti oggi vivono? Ma se desidera chiarezza e dunque libertà, avrà grazie a Heschel tutti gli aiuti possibili. Dovrà però fare i conti precisi con la sua tradizione. Se è ebreo, Heschel potrà inebriarlo d'una sobria ebbrezza rievocando felicità non necessariamente perdute. Ma a chiunque, di qualsiasi tradizione, Heschel porge lo stesso dono e ammaestra comunque nella cosa comune a ogni uomo che sia umanamente compiuto, l'arte di pregare , di congiungere il noto all'ignoto, e da quella premessa la tradizione specifica verrà rischiarata. Così Heschel giunge ad essere universale proprio perché saldamente particolare e insegna a chiunque come debba accogliere Chi lo sta cercando (quaerens me sedesti lapsus), l'essere assoluto che nella sua assolutezza può includere la pateticità dell'amante

