Per la scuola italiana sono anni difficili. Se si prende in esame soltanto l'ultimo periodo, ci si accorge di quanto ne si è letto sulle pagine sbagliate, quelle di cronaca (con una progressiva e allarmante deriva verso la "nera"). Le sfide aumentano e la scuola sembra perderle tutte, smarrendo insieme la propria credibilità e il poco che resta del prestigio istituzionale che dovrebbe contraddistinguerla. Gli insegnanti, identificati come gli artefici e le vittime di questo fallimento, sono impegnati a destreggiarsi tra studenti sempre più difficili da capire e coinvolgere, obblighi ministeriali spesso poco comprensibili e genitori a volte ostili. È attraverso i loro occhi e le loro storie, dense di speranze, delusioni, aspettative e frustrazioni, che Marco Imarisio, spostandosi di città in città, scuola dopo scuola, docente dopo docente, dipinge il quadro critico del sistema scolastico, e dell'Italia, di oggi.
L'avvocato è una figura difficile per la democrazia. Soprattutto quando difende i potenti, i ladri, i mafiosi, gli assassini o i terroristi. Non sembra un garante della giustizia, ma un soldato del nemico. Viene pagato, in molti casi profumatamente. Eppure proprio l'avvocato che difende il colpevole, magari lavorando d'astuzia e abilità fra le maglie del diritto, è garanzia essenziale per il cittadino onesto. Finché l'avvocato è libero di scegliere il cliente che vuole, il cittadino che non ha commesso reati sa che qualsiasi cosa gli accada, in qualsiasi circostanza si trovi, potrà avere un difensore. La garanzia che il colpevole sia difeso rassicura l'innocente. E alimenta la democrazia.
Nel carcere di Breslavia, pochi mesi prima di venire trucidata, Rosa Luxemburg assiste a una scena di inusitata violenza nei confronti di due animali, e la descrive in una lettera alla sua amica Sonia Liebknecht. Da quel breve testo si dipartirà nel tempo una serie di cerchi concentrici, come se una stessa goccia di esperienza non potesse non far scaturire altre parole illuminanti, che provengono - per vie imprevedibili - da Karl Kraus, da Kafka, da Canetti, da Joseph Roth e da un'ignota lettrice della "Fackel". Questo è un piccolo libro polifonico, fondato sull'affinità delle voci e convergente verso uno stesso punto: la muta sofferenza animale.
Fuggiti da casa, scacciati dalle famiglie, nei loro pochi anni di vita i bambini di questo libro hanno già sperimentato disperazione e violenza lungo le pericolose strade delle città dello Zambia, prima di approdare nel porto tranquillo del Mthunzi Centre, la casa di padre Kizito, uno dei più noti missionari comboniani italiani, in Africa da molti anni con il sostegno della Ong Amani. Intorno a lui, una piccola comunità di africani e volontari italiani, impegnata a combattere il fenomeno sempre più allarmante dei bambini di strada. Queste storie - raccolte da Chiara Michelon - raccontano in prima persona percorsi tortuosi di sofferenza, ma non solo. Raccontano anche la capacità dell'infanzia di sorridere al mondo nonostante tutto.
Gli esseri umani oggi ritengono che la felicità sia un diritto di natura. Il problema è che non è sempre stato così, e soprattutto l'idea di felicità non è sempre stata la stessa. Per gli antichi greci, la felicità coincideva con la virtù ed era un dono degli dei. Per i romani, implicava la ricchezza e il favore degli dei. Per i cristiani, era sinonimo di Dio e implicava la fine delle sofferenze terrene e la beatitudine eterna. Insomma, la felicità è sempre stata al vertice delle ambizioni umane: uno stato di perfezione a cui aspirare. Tuttavia è solo negli ultimi due secoli che gli uomini hanno iniziato a considerare la felicità un obbligo, un diritto, e non una delle tante possibilità dell'esistenza. Nel ricostruire la storia dell'idea di felicità, Darrin McMahon mette in luce la rivoluzione che si è prodotta nel Settecento, e che ha plasmato l'idea dell'uomo e delle sue aspettative terrene, ma ha avuto un forte impatto anche sulla politica. Utilizzando la genetica e la psicologia, passando dalla pubblicità e dal consumismo ai simboli sorridenti degli sms e allo "smiley", passando per il Prozac, il libro dimostra come questa forsennata ricerca della felicità possa anche provocare nuove infelicità.
La sera di lunedì 11 dicembre 2006 in un condominio di Erba, quieto entroterra di Como, si compie uno dei delitti più atroci e inspiegabili degli ultimi anni. Quattro persone, tra cui un bambino di appena due anni, vengono uccise a coltellate, i loro corpi dati alle fiamme. Nelle primissime ore investigatori e media indicano una sola pista, lo straniero extracomunitario, il marito tunisino di una delle vittime che forse ha il movente, è certamente in fuga, non ha vie di scampo. Un controllo telefonico e un po' di prudenza sarebbero bastati invece a smontare le accuse. A Novi Ligure era accaduta più o meno la stessa cosa, quando Erika, che aveva appena ucciso la madre e il fratellino, si inventò l'assalto di una banda di albanesi per depistare gli investigatori, avvelenare i media, farsi proteggere dalla paura collettiva. A inquietare, in tutti questi casi, è l'automatismo della paura. Specialmente nel Nord Italia, dove negli ultimi anni delitti familiari, violenza, cronaca nera hanno anche enfatizzato la percezione del pericolo, moltiplicato l'allarme sociale, amplificato la domanda di sicurezza. Pino Corrias ricostruisce la geografia di quella insofferenza, di quella paura.
Nel corso degli ultimi anni l'uomo sembra essere diventato schiavo dell'immagine. Forse inconsapevolmente, sicuramente controvoglia, ma è innegabile che l'esposizione mediatica abbia finito per coinvolgere l'individuo, mettendo sullo stesso piano eventi molto diversi tra loro. Ed ecco che, in questa sorta di diario degli avvenimenti d'esordio del Terzo Millennio, si trovano la guerra in Iraq e quella tutta televisiva tra Albano e Loredana Lecciso, i ventimila annegati nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere un mondo che si presenta pieno di promesse e l'arresto di Fabrizio Corona che, a quanto sembra, sullo sfruttamento dell'immagine stava cercando di costruirsi una fortuna. Pino Aprile racconta l'avvento di questa bolla mediatica, molto spesso costruita sul vuoto, ma lascia la speranza che, una volta smaltita l'ubriacatura, sia possibile tornare a dare una lettura più selettiva e partecipata di quanto accade attorno.
In quale tempo e in quale spazio ha luogo il singolare, fragile evento della lettura? Da queste domande prende avvio il breve e nitido saggio che Ezio Raimondi, uno dei massimi studiosi della letteratura oggi in Italia, ha dedicato al leggere. È un atto apparentemente semplice, un gesto quotidiano, eppure leggere è un rapporto complesso fra due persone, l'autore e il lettore, che ha luogo attraverso un testo. Chi legge fa vivere un testo, lo realizza, mettendosi così in comunicazione con l'altro, con una diversità. Nel leggere è implicata la disponibilità ad ascoltare, a entrare in relazione, a non prevaricare l'altro con la propria individualità. Esiste dunque un'etica della lettura, che è fatta di filologia e passione, capacità di intendere e disponibilità a mettersi in gioco.
La storia recente del mondo è caratterizzata da una dimensione di violenza tanto più inaudita e imprevedibile in quanto commessa nel nome di dio e delle scritture. In questa temperie, Jan Assmann si chiede se esista una violenza intrinseca del discorso religioso monoteista. Sulla scorta di una rilettura di alcuni brani dell'Antico Testamento, l'autore può ritrovare la radice storica di tale violenza soprattutto nel carattere esclusivo dell'unico dio e nell'immagine consolidata di una divinità irata e punitiva. E tuttavia Assmann contesta che la violenza sia una conseguenza necessariamente inscritta nell'istanza monoteistica e conclude che essa nasce, piuttosto, dall'uso che della religione è stato fatto in senso politico e fondamentalista.
Possono le parole nascondere i pensieri? È da questo interrogativo che Weinrich parte per indagare il rapporto di adeguatezza che sempre si pone fra il linguaggio e il pensiero. La sua risposta è un'arringa contro una diffusa tradizione pessimistica e in difesa della "verità della lingua", in difesa dell'innocenza delle singole parole. E via via che la sua argomentazione procede, si scopre una fitta trama di rapporti che lega questo discorso alla filosofia e alla teologia classiche, alla retorica, alla critica letteraria. Con la raffinatezza di stile e l'ironia che gli sono consuete, l'autore si muove fra Shakespeare e Goldoni, Platone e Wittgenstein, Hitler e Eichmann per approdare infine alla conclusione che no, le parole non mentono: i segni linguistici sono fatti sia per il bene che per il male, e dunque l'inganno non è nella lingua, ma sempre nell'uso che se ne fa.
Quarant'anni fa, il 9 ottobre 1967, moriva nella selva boliviana Ernesto Guevara, il "Che". Un'icona che è sopravvissuta intatta al crollo degli ideali del Novecento. Se c'è una persona che ha conosciuto bene l'uomo Che, che ha lottato e lavorato per anni al suo fianco, che ne ha condiviso i sogni e le battaglie, questa è Fidel Castro, il leader della rivoluzione cubana. La loro storica amicizia cambiò il volto dell'America Latina ed ebbe un impatto enorme e duraturo sul mondo intero. Questa selezione di scritti, interviste e discorsi di Fidel, alcuni mai pubblicati in Italia, costituisce una sorta di biografia, ricca di riflessioni teoriche sull'operato del Che, ma soprattutto di aneddoti e di commosse rievocazioni. Un libro che contribuisce a delineare i contorni di un personaggio recuperando il contenuto originale delle sue idee.