Il sentimento del reale: con quest'espressione Donald Winnicott - lo psicoanalista che ha cambiato il nostro modo di pensare che cos'è un bambino, il significato della violenza delle emozioni, come diventare sé stessi - apre a una dimensione dell'esperienza che riguarda il sentirsi vivi. Il volume contiene scritti inediti di Winnicott, scelti tra quelli più in sintonia con le inquietudini del nostro tempo. Ne emerge un Winnicott determinato a proporre le novità che ritiene di avere introdotto nella psicoanalisi: il "primitivo" nella formazione della psiche, l'inconscio come inesauribile riserva di energie, le affinità con il lavoro degli artisti che attingono all'immaginazione per conquistare il sentimento del reale. Ma anche un Winnicott inedito, ironico e appassionato, di cui seguiamo in diretta la ricerca di un linguaggio per comunicare, capace di sintonizzarsi con chi ascolta. Gli scritti sono accompagnati da saggi critici e da un apparato di note, oltre che da una lista di illuminanti espressioni dell'autore ("Lampi d'intuito") che aprono al lettore nuovi orizzonti.
Come fa una giovane donna di appena trent'anni, qual era all'epoca Irène Némirovsky, a scavare così profondamente nell'animo umano? si chiese Bernard Grasset, il suo primo editore, leggendo questi racconti. Come fa a capire, e a descrivere in modo così empatico e al tempo stesso spietato, non solo le lusinghe e le illusioni della giovinezza, ma anche la nostalgia degli amori perduti, il rimpianto delle vite non vissute, l'acredine delle esistenze sbagliate, le ferite dell'ambizione frustrata, l'angoscia della solitudine, lo sgomento per i segni che lascia sul corpo il passare degli anni, la ferocia che si annida nel cuore degli uomini? Le prove giovanili di Némirovsky continuano a riempirci di stupore non meno di quelle della maturità: le quattro «scenette», per cominciare, di sapore quasi lubitschiano, dove due aspiranti attricette di incantevole amoralità mettono in opera comici e insieme patetici tentativi di trovare un uomo molto ricco che le mantenga; i tre «film parlati» - in realtà vere e proprie narrazioni, condotte con la mano sapiente di uno sceneggiatore navigato, in grado di dare indicazioni su inquadrature, stacchi, dissolvenze, montaggio; gli struggenti "Una colazione in settembre" e "Le rive felici"; il truculento affresco finlandese dei "Fumi del vino"... Fino al sorprendente "I giardini di Tauride", che appare qui in volume per la prima volta, e che, costellato di appunti in cui Némirovsky riflette sulla forma stessa del racconto, ci consente di gettare un'occhiata indiscreta nel suo laboratorio.
«Perché un corpo sia stabile è necessario che abbia almeno tre punti d'appoggio» dice uno dei protagonisti di questo romanzo, che George Steiner considerava il capolavoro di Bernhard e «fra i più importanti del Novecento». I tre punti d'appoggio sono qui l'anonimo narratore, il taciturno imbalsamatore Höller e soprattutto Roithamer, docente di scienze naturali a Cambridge, cui la figura di Wittgenstein presta più di un dettaglio biografico. Con lucida ostinazione Roithamer ha realizzato nel centro esatto della foresta del Kobernausserwald, dove lui e la sorella, la sola persona che abbia amato, sono cresciuti, un temerario progetto architettonico - un cono perfetto, utopistica dimora felice - che lo ha prosciugato di ogni energia. Alla sua morte Höller invita il narratore nella soffitta della casa dove abita, nel punto più impervio di una gola: lì, nel fragore assordante del fiume che si getta fra le rocce, Roithamer si era ritirato per lavorare al cono, lì sono conservati i suoi libri e le sue carte, fra cui un manoscritto ossessivamente riveduto e corretto. Sullo sfondo di una natura ostile e insieme familiare, la voce di Roithamer si intreccia alle parole e ai silenzi dei due amici, mentre la scrittura di Thomas Bernhard ci sospinge implacabile fino ai limiti estremi del pensiero, fino all'ultima correzione - quella che, nel tentativo di emendarla, estingue l'esistenza stessa.
Il mondo sulle spalle. È il peso che Giorgio Napolitano ha spesso sentito su di sé durante la sua lunga vita politica, piena di battaglie appassionate, cause giuste e sbagliate e strade nuove da esplorare. E che, insieme alla gratificazione per l'intenso rapporto con gli italiani, ha avvertito ancor di più quando è diventato Presidente della Repubblica e poi è stato rieletto per un secondo mandato. Ma una sensazione simile l'ha talvolta provata anche il figlio Giulio, crescendo con un padre dal rigore fuori dal comune e seguendo il suo percorso con curiosità e partecipazione, prima da bambino e poi mentre si impegnava negli studi e nella professione. Proprio attraverso lo sguardo di Giulio entriamo nella casa di Monteverde in cui ha passato l'infanzia con i genitori e il fratello maggiore Giovanni, nei corridoi di Botteghe oscure dove il padre incontrava gli altri dirigenti del Partito comunista, nell'appartamento al rione Monti in cui Giorgio condivideva ogni passo importante con sua moglie Clio, nelle stanze di Montecitorio e infine in quelle del Quirinale, teatro di giorni sereni ma anche di momenti delicati. E riviviamo da un'angolazione intima e inconsueta i principali tornanti della storia d'Italia dell'ultimo cinquantennio, dal compromesso storico al terrorismo, dalla fine del PCI allo scoppio di Tangentopoli, dalla nascita del bipolarismo fino al salvataggio dell'Italia da una rovinosa crisi finanziaria e al tentativo di avviare un programma di riforme. Pagina dopo pagina, tra fatti inediti ed episodi sorprendenti, prende forma il ritratto di un uomo e di uno statista lucido e misurato, ironico e affabile anche se "in servizio permanente", insieme a quello di una famiglia unita, fondata su un sodalizio di coppia più forte di ogni differenza caratteriale. Ed emerge il rapporto di complicità intellettuale tra Giulio e il padre, la reciproca tenera attenzione, ma anche, talvolta, l'inevitabile fatica del "mestiere di figlio". Un racconto in cui il pubblico e il privato, le vicende individuali e quelle collettive, il tono formale e quello scherzoso si alternano e contaminano continuamente: il risultato è un memoir di rara potenza, scritto da una prospettiva irripetibile.
«In questi libri tutti fanno la guerra, si incazzano, diventano furiosi, litigano, sono gelosi, minacciosi, e usano la forza in modo esplicito, picchiando, violentando. Ma sono anche violenti in modo più moderno, quindi occultato, passivo: sono lamentosi e recriminatori, e finiscono per soffocare le donne in altro modo. Il racconto semplicemente corrisponde a quello che siamo (stati)». Un saggio d'autore, inaspettato e personale. Francesco Piccolo rilegge tredici capolavori che, con i loro protagonisti, sono entrati nelle nostre vite e hanno segnato in maniera indelebile il nostro immaginario, contribuendo a legittimare il mito della maschilità e la cultura virile. Se l'impressione che abbiamo degli uomini è che siano potenti, arroganti, violenti, egoisti e famelici, allora, di questi uomini, ve ne sarà traccia anche nelle opere chiave della nostra letteratura, quelle che hanno in qualche modo contribuito a consolidare una certa idea di maschio. A partire dalle fondamenta, dalla settima novella dell'ottava giornata del "Decameron", in cui Boccaccio mette in scena la spietata vendetta del giovane scolaro Rinieri, che sbeffeggiato e rifiutato da una avvenente vedova la punisce facendo in modo che non possa più vantare la propria avvenenza. La morale: se si ferisce il maschio non è pena affatto ingiusta essere sfregiate a vita. Come non pensare al nostro presente. E come non pensarci leggendo delle peripezie matrimoniali di Zeno di cui scrive Svevo. Zeno Cosini, arrogante e fragile al tempo stesso, irrazionale che si finge ponderato, ma soprattutto, come ogni uomo che si rispetti, tarlato dal desiderio, che una volta piantato in testa non schioda più e fa compiere i gesti più sciocchi e sconsiderati. E poi ancora l'innominato di Manzoni, il Principe di Salina di Tomasi di Lampedusa, 'Ntoni di Verga, l'Antonio di Brancati, il Milton di Fenoglio e altri maschi, tutti sempre uguali a sé stessi, vigliacchi e furiosi, gelosi e violenti, al centro di romanzi che hanno costruito il canone della letteratura italiana. Perché chi siamo ha a che fare con la famiglia, l'educazione, il mondo dove si cresce, ma anche con i libri che si sono letti.
«A un tratto, la ruota del destino diede un giro. La vicenda di Craxi entrò nella fase finale, quella della vita e della morte. In poche settimane la situazione sarebbe precipitata, in modo insieme epico e grottesco. Iniziava una tragedia. Che tanti in principio considerarono una farsa. Perché l'Italia è convinta di essere un Paese comico, al più melodrammatico. Invece la storia unitaria del nostro Paese è una storia tragica.» Aldo Cazzullo atterra a Tunisi a fine ottobre del 1999. In Italia è appena arrivata la notizia del ricovero di Bettino Craxi. Il leader socialista, dal 1994 ad Hammamet per sfuggire a Mani Pulite e all'arresto, sarebbe morto pochi mesi dopo. Parte dalla fine, da questi ricordi personali vissuti sul campo del giornalismo - la malattia di Craxi, il disperato intervento chirurgico, la morte, il funerale -, il racconto dell'uomo e del politico che più di ogni altro ha rappresentato la modernizzazione dell'Italia repubblicana e la caduta del sistema dei partiti. Un ritratto in chiaroscuro. Un profilo biografico impreziosito da aneddoti personali e da un apparato fotografico unico, che punta a ricostruire la storia del giovane militante, l'ascesa al potere del segretario socialista, i rapporti con i leader nazionali e internazionali del suo tempo, dando conto della dimensione umana e intima del politico che fu Craxi anche nei mesi concitati dell'epilogo della sua parabola, senza nascondere gli errori e le responsabilità. Fino a tracciare un'analisi della sua eredità, quel nodo mai sciolto della fine della Prima Repubblica che forse trova proprio in Bettino la sua plastica rappresentazione: uomo di potere osannato e odiato, capro espiatorio della stagione del malaffare, esiliato illustre per alcuni, latitante per altri (e per la giustizia italiana). L'ultimo vero politico, scrive Cazzullo a venticinque anni dalla scomparsa di Bettino Craxi, con una formula su cui non si riesce a porre un solo accento: è stato l'ultimo uomo di Stato italiano dotato di spessore e di visione; ma ha pagato un prezzo altissimo alla sua spregiudicatezza. Ingombrante financo sul piano fisico, è diventato il bersaglio grosso: da statista a «Cinghialone». Un simbolo della Prima Repubblica, che ha avuto - come ha riconosciuto il suo nemico della vita, Eugenio Scalfari - «la grandezza della fine».
C'è una donna in questa storia che, di fronte alla figlia appena nata, ha una sola certezza: da ora non potrà mai più permettersi di impazzire. La follia nella sua famiglia non è solo un pensiero astratto ma ha un nome, e quel nome è Venera. Una bisnonna che ha sempre avuto un posto speciale nei suoi sogni. Ma chi era Venera? Qual è stato l'evento che l'ha portata a varcare la soglia del Mandalari, il manicomio di Messina, in un giorno di marzo? Per scoprirlo, è fondamentale interrogare la Mitologia Familiare, che però forse mente, forse sbaglia, trasfigura ogni episodio con dettagli inattendibili. Questa non è solo una storia di donne, ma anche di uomini. Di padri che hanno spalle larghe e braccia lunghe, buone per lanciare granate in guerra. Di padri che possono spaventarsi, fuggire, perdersi. Per raccontare le donne e gli uomini di questa famiglia, le loro cadute e il loro ostinato coraggio, non resta altro che accettare la sfida: non basta sognare il passato, bisogna andarselo a prendere. Ritornare a Messina, ritornare fra le mura dove Venera è stata internata e cercare un varco fra le memorie (o le bugie?) tramandate, fra l'invenzione e la realtà, fra i responsi della psichiatria e quelli dei racconti familiari. Nadia Terranova ci consegna con queste pagine il suo romanzo più personale e più intenso, che ci interroga sul potere della memoria, individuale e collettiva, e sulla nostra capacità di attraversarla per immaginare chi siamo.
Eva non sa quasi nulla, sa soltanto che vuole sapere: a causa di questo desiderio darà origine assieme ad Adamo, l'uomo che Dio le ha messo accanto, al faticoso percorso dell'umanità sulla Terra. Lia e Rachele non hanno potere e si contendono uno sposo che lo detiene, Giacobbe, e il privilegio di dargli dei figli. Miriam avrebbe voluto nascere libera e lotta assieme a suo fratello Mosè perché possa esserlo tutto il suo popolo. Conoscenza, potere, libertà: parole che nella Bibbia, come in tutta la grande storia scritta dagli uomini, sono declinate al maschile. Ma le donne non ci stanno, a restare nell'ombra: ed emergono dalle pagine con la determinazione di Giuditta, l'onestà di Susanna, la passione di Maria Maddalena e tante altre ancora, a passarsi il testimone di una forza che sfida ogni tempo e ogni discriminazione. Marilù Oliva dà loro parola in questo grande racconto corale, facendoci riscoprire le donne della Bibbia di volta in volta curiose, fragili, impavide, acute. Una ricostruzione rispettosa e puntuale, coraggiosamente alternativa, che sposta la prospettiva da cui guardiamo da sempre le storie bibliche e ce le mostra nuove, avvincenti, vicine a noi, arricchite di sguardi e dettagli inattesi. Così che infine il Libro, con le sue protagoniste, diventa ancora più vivo, ancora più nostro.
La rielezione di Trump il 5 novembre 2024 ha messo in scena un riallineamento nella politica americana in cui il cattolicesimo gioca un ruolo unico e particolare, ben più complesso dello "scisma liquido" in atto da tempo e amplificato dalle reazioni ostili, fin dall'inizio, al pontificato di papa Francesco da parte dell'episcopato, del clero e del laicato militante di tendenze conservatrici e tradizionaliste. In America c'è ancora una fame di spiritualità, di comunità e di Dio che viene sfamata in modi nuovi anche sulla scena politica. Il movimento populista di Trump è una risposta - semplicista, violenta e vendicativa quanto si vuole - non solo alle incertezze economiche e sociali dell'America. È anche una risposta a quella ricerca di senso che emerge da un ordine del mondo, anche religioso, ecclesiale e cattolico, visibilmente alle corde. C'è chi vede in Trump un messia, e chi un anticristo. In ogni caso, è una storia che riguarda non soltanto l'America o i cattolici americani.
La storia di una relazione come tante. Una ragazza e un ragazzo che si innamorano, si trasferiscono, si amano di un amore umano, domestico e imperfetto, sognano, si contraddicono, progettano una casa e un futuro. Un giorno, accanto a una tavolata di bambini al ristorante, avvertono una sensazione nuova: vogliono un figlio. Ma le cose non vanno come vorrebbero e le loro speranze si rivelano più difficili da affrontare del previsto. La polvere che respiri era una casa è un romanzo sulla creatività, intesa come creazione di vita e creazione letteraria; sull'impossibilità di non prendere determinate decisioni, sul fare i conti con i vuoti e la violenta inspiegabilità delle cose, e sul tentativo di affermarsi provando a inseguire un fantasma, raccontando una fiaba, o imponendo il proprio irrimediabile silenzio. Al suo esordio, Eleonora Daniel dimostra una mano sicura nella narrazione, che spazia tra diversi stili e voci narranti, e una straordinaria capacità di sviscerare i due punti di vista di una coppia, decostruendo ogni banalità e facile romanticismo.