Due minuti di predica, perché don Camillo conosceva le sue pecorelle. Quella sera dopo il vespro passò davanti al bar e abbassò il finestrino del suo Ape Car. "Allora", disse guardando gli arzilli del tresette, Peppone compreso, "l'ho fatta breve?". "Abbastanza", disse Peppone rispondendo per il gruppo. "Ma si può fare anche più corta". "La ringrazio, lei però cominci a pensare che nell'aldilà, se le va bene, ci dovrà passare l'eternità con il Signore". Lorenzo Bertocchi, giornalista, direttore del mensile /l Timone.
Fan guareschiano che non ha resistito alla tentazione di immaginare cosa combinerebbero don Camillo e Peppone ai giorni nostri. Ne sono usciti trentacinque racconti brevi, sorsi di "mondo piccolo" da mandare giù alla salute del mondo globale.
Il Piccolo Principe compie ottant'anni. Dove sara andato? Il morso del serpente è stato per lui davvero fatale oppure l'ometto avrà raggiunto la sua rosa tanto amata sul minuscolo asteroide B-612? Di sicuro, dovunque si trovi, non sarà divenuto un vecchio barbuto, ma avrà ancora l'aspetto di un bambino.
Perché, come dice il suo "papa" Saint-Exupery, l'infanzia e un "grande territorio da dove ognuno è uscito". Rileggere in controluce questa fiaba, accostandola alla vita dell'autore, ci consente di scoprirne le verità nascoste. Dal senso della vita e della morte, alla metafora del deserto, fino alla mistica dell'amicizia. Consapevoli che l'essenziale si può cogliere solo con gli occhi del cuore.
Nell'estate del 1630, a Milano, il caldo e le disastrose condizioni igieniche infiammano una violenta epidemia di peste capace di uccidere più di cento persone al giorno. In quel periodo due donne riferiscono di aver notato un uomo aggirarsi sotto la pioggia e ungere le mura delle case con una strana sostanza probabilmente in grado di diffondere il morbo. Da qui parte la storia del processo agli "untori" e la furiosa ricerca di colpevoli da parte dei magistrati, spinti dalla popolazione imbestialita a scelte arbitrarie. La vicenda che Manzoni ripercorre a oltre due secoli di distanza solleva pesanti interrogativi morali sul trattamento degli accusati, sulla pena di morte e sull'interazione tra passioni collettive ed esistenze individuali.
Ci sono libri che danno pura gioia. È quel che capita con il romanzo di Larsson: ci ritroviamo adulti a leggere una storia di pirati con lo stesso gusto dell'infanzia, riscoprendo quella capacità di sognare che ci davano i porti affollati di vascelli, le taverne fumose, i tesori, gli arrembaggi, le tempeste improvvise e le insidie delle bonacce. Chi racconta in prima persona è Long John Silver, il terribile pirata con una gamba sola dell'"Isola del Tesoro", fatto sparire da Stevenson nel nulla per riapparirci ora vivo e ricco nel 1742 in Madagascar, intento a scrivere le sue memorie. E non è solo a quell'"e poi"? che ci veniva sempre da chiedere alla fine delle storie che risponde Larsson, è al prima, al durante, al dietro.
C'è un'età della vita in cui si può trovare una voce pura: una voce tra il silenzio e il tuono. Non c'è un altro modo per parlare di sé, forse, quando guardarsi indietro, e dentro, è lo stesso movimento. E tutto, proprio tutto - le gioie, i dolori, la scoperta dell'amore come quella della morte - è in noi con la stessa forza. Attraverso le lettere di un ragazzo che cresce e di un misterioso nonno, Roberto Vecchioni ha scritto il suo romanzo più intimo e struggente. Questo è un romanzo fatto di lettere, ma non è un romanzo epistolare come gli altri. Si alternano due voci: da una parte c'è lui, Roberto Vecchioni, che racconta a un fantomatico nonno alcuni degli episodi più significativi della sua vita. Li riporta in presa diretta, proprio mentre gli accadono, a dieci, quindici, trenta, ottant'anni. Infanzia, amicizie, studi, canzoni, dolori, amori. Sconfitte e vittorie. Il nonno, dal canto suo, non gli risponde mai: forse non ce n'è bisogno, forse conosce Roberto fin troppo bene. Le sue lettere sono indirizzate ad altri personaggi, veri o immaginari, e affrontano gli argomenti più disparati. Che si tratti di Schubert, di bizzarre teorie sugli ingorghi stradali o di scrittori russi che conosce soltanto lui, ne scrive sempre con la medesima, grandissima passione. E anche se le lettere di Roberto raccontano la storia di una vita - e insieme la storia di un corpo, che sente, ama, si ferisce, si ammala - e quelle del nonno sono puro pensiero, capita di rimanere spiazzati, perché ogni tanto parlano di qualcosa che sembra essere accaduto a entrambi. Di un palco illuminato, ad esempio, e di un uomo che chiede di essere chiamato amore. Ma, soprattutto, della morte di un figlio, e del dolore lacerante che non ti abbandona mai. Cinquantatre lettere, cinquantatre momenti sfolgoranti per catturare «l'ombra sfuggente della verità». In un tempo in cui il prima e il dopo possono confondersi, e persino, forse, illuminarsi a vicenda.
Due percorsi narrativi in versi, due vasti movimenti poetici che rivelano, nei termini di una insolita energia espressiva, il carattere di un autore che da sempre si è mosso con efficacia coinvolgente sul doppio registro della scrittura in versi e del romanzo. Daniele Mencarelli, con "Degli amanti non degli eroi", riesce qui a comporre un doppio quadro, con due poemetti complementari nella loro diversa fisionomia, nella linearità internamente turbata dell'ampio racconto d'amore fra due giovanissimi, in apertura, e nelle screziature interne, anche sul piano della pronuncia e della versificazione, di Lux Hotel , il testo successivo. Due impostazioni alternative, dalle aperture e dai turbamenti di "Storia d'amore", al complesso gioco metaforico del secondo poemetto, dove viene messo in risalto il tema dell'eroismo negativo nella sua connotazione guerresca, nella speranza, «meravigliosamente utopistica» come dichiara lo stesso autore in nota, «che si arrivi a un mondo dove a essere festeggiato è l'eroismo del perdono, della compassione, del coraggio che soccorre». Una straordinaria ricchezza di situazioni concrete, vissute e ritratte in vivi dettagli, nell'affiorare del «dolore che non s'affoga», caratterizza il primo capitolo, nel quale Mencarelli riprende, con sensibili, decisive modifiche, un testo apparso anni fa; mentre nel secondo, ambientato tra le luci e le ombre di un albergo di lusso, si muovono emblematici personaggi frutto di un'immaginazione quanto mai ricca e variegata. Ecco allora la figura del concierge, ecco l'ombra di un dittatore e i soldati Mercurio, Marte, Nettuno. Umani traffici e minuzie di orrori si manifestano con imprevedibili esiti nel gioco d'azzardo di Lux Hotel, realizzando un singolare e affascinante contrasto rispetto al racconto d'amore «nella sua dismisura» del primo poemetto, in un'opera poetica che conferma Mencarelli come una delle personalità di maggior spicco e solidità della nostra nuova ricerca letteraria.
Le vicende travagliate e i dolorosi conflitti interiori della peccatrice perdonata nel Vangelo.
Questo romanzo di Christian Bobin, dalla trama alla forma, è una fantasmagoria, un miracolo letterario. Pagine oniriche che, fingendo di raccontare la quotidianità banale di una giovane colf di nome Ariane, parlano di innocenza, astuzia, gelosia, tristezza, orgoglio, amore folle, domani senza speranza e illuminazioni senza ritorno. Come indica il titolo del romanzo, tutti sono occupati a cercare di appendere ghirlande all'infinita sarabanda di giorni cupi, al tocco di bacchetta magica di Bobin, l'incantatore, maestro dell'illusione, prodigio della metafora e re di un meraviglioso genere romanzesco. (Jean-Rémi Barland)
Durante una missione di recupero al largo della costa del Mississippi, Bobby Western vede quel che non avrebbe dovuto vedere: un JetStar apparentemente intatto adagiato sul fondale e, in cabina, chiome fluttuanti, bocche aperte e occhi vuoti, nove corpi senza vita. Da dove viene quell'aereo, che fine ha fatto la scatola nera, e che ne è stato della decima persona sulla lista passeggeri? Queste le domande a cui Bobby, perseguitato da due emissari governativi «con un'aria da missionari mormoni», non sa dare risposta. Capisce allora di dover scomparire. Del resto a fuggire ci è abituato, da tanto tempo è inseguito dai sensi di colpa nei confronti del mondo e di lei, Alicia, l'amore del suo cuore, la rovina della sua anima. Alicia Western, sua sorella. Mente matematica sopraffina ed esperta mondiale di violini cremonesi, donna bellissima e perciò più difficile da perdere, «perché la bellezza ha il potere di suscitare un dolore inaccessibile ad altre tragedie», anche Alicia, come Bobby, ha guardato dove non doveva guardare, nel cuore delle tenebre. Visitata sin da bambina dalle «coorti», un'accozzaglia di allucinazioni da vaudeville capeggiate da un piccolo focomelico scurrile chiamato il Kid, e afflitta da un amore che offende, Alicia ha provato a opporre l'ordine del numero al caos della vita ma non ce l'ha fatta perché «certe cose un numero non ce l'hanno». Ora cosa resta a Bobby, se non la fuga? Via da New Orleans, Knoxville e la baia petrolifera della Florida, da bettole, bagnarole e topaie. Un mondo popolato di reietti, ubriaconi e reduci - dall'amorevole trans Debussy al killer di blatte Borman al dandy dissacrante Sheddan - ma brulicante di vita e inventiva. Via da tutto quel rumore, via dalle oscure macchinazioni del potere e dai peccati ereditati come da quelli bramati, verso una nuda bicocca dall'altra parte dell'oceano, verso un posto senza compagnia né legge né letteratura, dove non c'è altra realtà del ricordo e la fisica si fonde nella metafisica. Perché questo siamo noi: «dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno».
Certi amori ci restano addosso. Come una cicatrice. La protagonista di questa storia non crede più nei miracoli. Troppe volte la vita l'ha masticata e risputata, illudendola che un futuro scintillante fosse in serbo per lei. Da sola e senza mezzi, Mireya decide di trasferirsi a Philadelphia in cerca di fortuna. Con sé ha soltanto una vecchia valigia, intorno l'inverno gelido di una città sconosciuta. Il suo personale miracolo sembra compiersi quando si imbatte in un'insegna al neon che si staglia nel buio della notte. Eccentrico e sfarzoso, il club Milagro's è un luogo capace di affascinare chiunque ne varchi la soglia, Mireya compresa. Con l'ostinazione di chi non ha niente da perdere, la ragazza riesce a farsi assumere come barista. Il Milagro's, però, è più di un locale esclusivo. Dietro le sue porte chiuse, oltre i lustrini e le luci di scena, si intrecciano destini e sussurrano segreti. I più oscuri si condensano tutti nel viso aspro e incantevole di Andras, il capo della sicurezza. Fra Mireya e Andras è odio a prima vista. Entrambi portano sulla pelle gli stessi segni, hanno addosso il marchio di chi ha dovuto imparare a lottare per sopravvivere. Eppure i due continuano a imbattersi l'uno nell'altra, come attirati da una forza misteriosa che non sanno né possono contrastare, stretti da un filo dorato più forte di un destino.
Ponzio Pilato, il governatore della Giudea che, secondo i Vangeli, ha consegnato Gesù alla morte in croce, lavandosene la mani, è una delle figure più conosciute nella storia umana che ha incuriosito e affascinato intere generazioni. Se per alcuni è responsabile della morte del Cristo, per altri è un martire (Chiesa copta) e addirittura un santo (Chiesa etiope). Attingendo a piene mani da fonti di ogni genere, Camillo Bartolini ricostruisce il racconto della vita di Pilato, dalla giovinezza, ai giorni della passione di Gesù, fino alla sua morte, restituendoci il lato oscuro e misterioso dell'uomo che ha cambiato per sempre la storia del mondo.
Un serrato dialogo tra due diavoli specializzati nell'attaccare i punti deboli della famiglia per creare delle crisi e possibilmente distruggerla. La finzione letteraria riprende il modello delle famosissime "Lettere di Berlicche" di C. S. Lewis, in cui paradossalmente dalle considerazioni dei due demoni emergono per contrasto i punti di forza che fondano la famiglia cristiana e che sono da coltivare e rinnovare in una unione che si basa sul sacramento. Lettura che esercita una preziosa forma di catechesi a sostegno e in difesa di una istituzione attaccata da molte parti.