Questo libro nasce da una ricerca sui testi di Fabrizio De Andrè, Pagine documentate, ricche di citazioni e di passione, che permettono di scoprire la capacità del cantautore genovese di raccontare senza condannare e di coinvolgere empaticamente nelle storie dei vinti. La forza evocativa dei suoi versi lascia emergere dal profondo dei personaggi le istanze esistenziali più autentiche. Tra queste, vi è la domanda di Dio, della sua paternità, della sua giustizia, del suo punto di vista. Il libro, alla sua seconda edizione, ha viaggiato in tutta Italia e ha permesso l'incontro tra diverse età, appartenenze culturali, religiose e politiche. Tutti diversi ma accumunati dall'amore per la musica, la letteratura, l'arte e per Faber. Lo spazio comune e comunitario che crea la sua opera poetica e profetica è motivo per condividere la bellezza e la gioia del Vangelo.
“In me esiste, al fondo di un pozzo, / Un pertugio di luce verso Dio. / Là, molto in fondo alla fine, / Un occhio fabbricato nei cieli”: la poesia di Pessoa è una diagnosi spirituale della modernità. La poesia ci prepara alla ricerca di Dio. Essa opera lo smantellamento della crosta che copre la realtà, mette a nudo il nostro cuore, ci espone ad una comprensione più profonda e più totale della vita e delle sue espressioni: la sua notte e il suo giorno, il suo esteriore e il suo rovescio, la sua parola e il suo silenzio.
Fernando Pessoa (Lisbona 1888-1935) è una delle figure principali della letteratura del Novecento. Lavorò come corrispondente commerciale in ditte di import-export, ma sulla scena letteraria portoghese lasciò un’impronta indelebile con la creazione di movimenti d’avanguardia e di riviste. Pubblicò su vari giornali testi poetici e filosofici, firmandoli sia con il suo nome sia con quello dei suoi eteronimi, per i quali inventò una biografia e uno stile peculiari, come si trattasse di persone reali.
felici voi atei! volentieri sarei uno di voi
eppure eppure: non posso
Kurt Marti
sanguina da ogni ferita
viene violentata ancora e ancora
è tradita calpestata frantumata decapitata
torturata squartata disintegrata
membra perdute sono state
sostituite da protesi mostruose
è alienata da se stessa da noi e da tutto
è schizo e neuro e psico
trapassata di nuovo e di nuovo da aghi con i quali
sono state iniettate sostanze aliene
agonizza senza fine
è forse già morta o non ancora o
tuttora discute il consilium dei medici
e DUNQUE divenne la parola DIO
l'ultima delle parole
il più depredato di tutti i concetti
la più svuotata metafora
la proletaria del linguaggio
Magistrale il "vento delle parole" che si susseguono in un lessico della pagina a proprio volere, libere dagli schemi tradizionali. Siamo Verbo e siamo Carne, più sostantivi che Aggettivi. Più Contenuto che contenente. Il superfluo non esiste nell'artista che si batte per la dignità della persona, per l'inno all'Essenza della Vita, comune a tutti.
"Le mie poesie saccheggiano quasi tutto, timori, progetti, congetture e stupori, cercano prove di infedeltà, frammenti di ispirazione. Indifferenti alla sofferenza che descrivono, odiano tutto quello che amo, credono solo nella loro insularità."
È spesso una data, un’ora del giorno, una stagione, a dare l’avvio alle poesie di Philip Schultz, o un oggetto, una strada, una persona. Elementi di per sé insignificanti, fortuiti, ma che accendono la memoria, annullano le distanze, squarciano i veli di rimozione in un abbraccio liberatorio con il tempo. Gran parte della lirica di Schultz sembra scaturire dal bisogno di assecondare i ricordi che lo incalzano e lo assediano scagliandolo in un passato non riconciliato. Dettagli visivi, sensazioni tattili e il dolore ancora lacerante di affetti perduti si compongono alla fine in un insieme dove il passato è ancora vivo, e la lingua è sempre in tumulto e fortemente emotiva. Figlio di emigrati provenienti dai margini dell’impero russo agli inizi del XX secolo, Schultz ripercorre nelle sue poesie momenti e passaggi nodali della sua esperienza biografica: l’infanzia emarginata a Rochester (NY), la precarietà esistenziale degli anni giovanili nel corso della guerra del Vietnam, il senso di stupore e quasi di colpa per il successo inaspettato, giunto in età matura, insieme agli affetti familiari: «Non mi aspettavo di avere una famiglia;/ non mi aspettavo la felicità», confessa in una poesia. Il presente resta comunque «inabitabile» e il futuro «inequivocabile/ nel suo desiderio di sfuggirmi». La felicità appartiene forse ai figli che corrono insieme ai cani lungo l’oceano, «un posto magico», «un regno/ dove andiamo per sentirci umani,/ e essere grati».
Le trentotto poesie che formano il Citra sono state composte da Tagore nello spazio esatto di tre anni, tra il marzo 1893 e il marzo 1896. A quel tempo il poeta trentaduenne, sposato da dieci anni e padre di cinque figli (l’ultimo è del 1894), vive una vita familiare piena di interessi e di impegni a Calcutta ed è già apprezzato e conosciuto in patria per le sue numerose pubblicazioni.
Le poesie di questa raccolta sono state suddivise in cinque classi, secondo il tema dominante:
1) La percezione della bellezza; 2) l’amore per l’uomo e per la terra; 3) il Dio della vita; 4) il lavoro e il dovere; 5) la morte.
Destinatari
Giovani e adulti, appassionati di spiritualità orientale, interessati alla poesia, in particola- re quelli affezionati a Tagore.
Autore
Robindronath Tagore (Calcutta 1861- 1941) è il più grande poeta moderno dell’India, ma è anche drammaturgo, prosatore, filosofo e critico letterario. Nel 1913 vince il Premio Nobel per la Letteratura con l’opera Ghitangioli. Fonda una scuola divenuta in seguito Università Internazionale, ispirata ai valori della pace e della fratellanza. Organizza cooperative agricole e bancarie, promuovendo piccole industrie. Viaggia instancabilmente in Europa, Asia, America.
Raccolta di poesie sulla morte.
Quaranta composizioni poetiche che vanno dalla riflessione esistenziale alla rievocazione interiore di luoghi del cuore (come Milano e Gerusalemme) e di figure significative (come Etty Hillesum e papa Francesco). Su tutti, spicca la memoria di Carlo Maria Martini, di cui Garzonio è considerato uno dei più acuti biografi. "Cronache dell'anima scandite entro una scansione di tempo preciso, 'da Martini a Bergoglio': evocata la stagione della nascita dei testi, ma evocato anche un amore, non celato, quasi da privilegio, per un vescovo e un papa. (...) Spesso nelle pagine cogli una passione ferita - siamo il sogno, ma siamo anche l'incubo di Dio -, passione che leva grido, a volte anche urlo dalle poesie, là dove immobilità, indifferenze, ingiustizie sporcano sogni, nella vita della società e della chiesa" (dalla prefazione di don Angelo Casati).