
Oppresso dai suoi mali interni e minacciato dalle aggressioni dei barbari, alla metà del terzo secolo il mondo romano era un organismo invecchiato e sull'orlo del collasso. Diocleziano salì dal nulla ai vertici della carriera, si impadronì dell'impero con la violenza, governò con feroce determinazione per più di venti anni, dal 284 al 305. Ma i fasti del potere non cambiarono la sua natura: rimase sempre un soldato. Diocleziano non fu un rivoluzionario, come Augusto o Costantino. Seguendo il suo istinto di soldato, pensava che la rifondazione dell'impero dovesse procedere nel rispetto supremo della tradizione, della religione dei padri. Alla fine trionfò su tutti i suoi nemici: usurpatori, barbari, Persiani. In segno di riconoscenza agli dei scatenò durissime persecuzioni contro i dissidenti, gli empi seguaci di religioni lontane dalla tradizione: i manichei, che arrivavano dalla Persia sasanide; e, avversari ancora più insidiosi, i cristiani. Al culmine della gloria, al momento di godere di una pace finalmente riconquistata, Diocleziano abdicò. Fu una scelta inaudita, inaspettata, unica nella storia dell'impero romano. Perché abdicò? Malattia, stanchezza, delusione? O, piuttosto, volontà di applicare un progetto politico teorizzato negli anni? La scelta di Diocleziano è un enigma che continua ad affascinare gli storici. Sicuramente contò il desiderio di congedarsi dai duri impegni della sua missione. Diocleziano si ritirò lontano, in un grande palazzo...
Attorno al Mille, in un'Europa cristiana assediata a nord dai vichinghi, a est dagli slavi, a sud dall'islam, presero piede istituzioni che erano a un tempo ordini religiosi e fratellanze di cavalieri in armi. Accomunati da un ideale di lotta in nome della fede, furono protagonisti della conquista della Terrasanta, della riconquista della penisola iberica e delle crociate sul baltico. Templari, Cavalieri Teutonici, Ospitalieri, Cavalieri di San Lazzaro. Il volume traccia la storia di questi ordini sui diversi fronti, ne descrive l'organizzazione, ne segue la fortuna e l'evoluzione fino al processo dei Templari (1314).
"Il 9 luglio di quest'anno Sandro Pertini è stato eletto presidente della Repubblica e mi ha nominato segretario generale". Il 3 novembre 1978 inizia così il diario su cui Antonio Maccanico annoterà poi giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, viaggio dopo viaggio, lo svolgersi del settennato di Pertini. Nella sua cronaca si colgono al vivo e secondo prospettive spesso singolari tutti i protagonisti di quegli anni (politici italiani e stranieri, giornalisti, imprenditori, manager pubblici, intellettuali) ed emergono i tratti di una presidenza che, iniziata nell'anno culminato nell'assassinio di Moro e nelle dimissioni di Leone, si dava il compito di ridare prestigio al Quirinale in una difficile fase in cui emergeva, oltre alle manifeste difficoltà del sistema politico, una più generale crisi della società italiana.
Qual era l'aspetto di Roma all'epoca dei Templari, e quali luoghi della città furono teatro di eventi cruciali per la storia del leggendario Ordine? Lo si scoprirà attraverso una serie di tappe significative. Come guida, avremo alcune figure illustri: Hugues de Payns e Jacques de Molay, il primo Maestro e l'ultimo, e fra loro san Bernardo di Clairvaux, il grande mistico del XII secolo che a buon diritto può essere considerato la colonna ideologica e spirituale del Tempio.
I desideri che rinascono dopo le sofferenze della guerra. La voglia di cambiare che cancella il buio delle carceri e la violenza della lotta. Ma, insieme, i meccanismi di controllo esercitati dal Partito comunista sulla vita personale, la doppiezza della morale imposta, l'uso politico dei sentimenti, il tentativo di destreggiarsi fra una pedagogia politica che ha il compito di forgiare il militante secondo i dogmi dell'onestà morale proletaria e una prassi censoria che punisce i trasgressori. Quando l'impegno comune nell'antifascismo si affievolisce e il piacere della libertà di azione prende il posto delle privazioni, anche i comunisti aprono varchi all'interno di una rigidità morale spesso più propagandata che reale. Le unioni 'irregolari' diventano un problema e finiscono davanti alla Commissione centrale di controllo. Ma si discute anche in Segreteria e in Direzione: "Viola il costume del partito", tuona Togliatti, accusando Teresa Noce che denuncia l'abbandono del marito Luigi Longo sulle pagine del 'borghese' "Corriere della Sera". Conoscere questi amori e seguirne le storie significa entrare nelle pieghe della cultura comunista che da un lato ha promosso valori inflessibili e dall'altro ha consentito situazioni opposte, pesando in modo diverso il giudizio fra élite dirigente e iscritti, fra uomini e donne.
"Nel corso dell'ultimo secolo e mezzo la polizia, i magistrati, i politici, gli opinion makers e perfino i semplici cittadini hanno avuto accesso a un'incredibile quantità di informazioni sul problema della mafia. Gli italiani si sono indignati per la violenza della criminalità organizzata e per le collusioni fra una parte della classe politica e i boss. Il risultato è stato che il dramma della mafia spesso si è dispiegato sotto la luce dei riflettori, diventando un evento mediatico. Ma l'Italia; ha mostrato grande ingegnosità anche nel trovare ragioni per guardare da un'altra parte o per non fare niente. La storia delle mafie italiane, dunque, non è solo un giallo in cui bisogna cercare il colpevole, ma anche un giallo in cui bisogna cercare chi sapeva. E soprattutto, cercare di capire perché diamine chi sapeva non ha fatto nulla". Con le stesse qualità del suo libro precedente, il rigore analitico dello storico combinato al racconto del romanziere, John Dickie affronta contemporaneamente la camorra napoletana, la mafia siciliana e la 'ndrangheta calabrese, le cui origini sono tutte e tre riconducibili alla nascita dello Stato italiano.
Il tempo dei forti sentimenti, degli ideali certi, dei sicuri orizzonti da raggiungere entra nell'ultimo decennio dell'Ottocento nello spazio inedito e difficile di una modernità improvvisa. Il passaggio al secolo successivo non sarà una pacifica transizione, ma il tramonto di un'epoca di cui il Novecento e il "novecentismo" si approprieranno totalmente. Grazie alla tecnica, alla scienza, alla filosofia, ai più liberi comportamenti individuali e collettivi. In Italia come in Europa. In "Notturno italiano" Lucio Villari suggerisce una lettura attenta di vent'anni della nostra storia, trascurati e soffocati da eventi, idee, miti precedenti e successivi e che invece sono all'origine di una modernità energica e inarrestabile, della vitalità della materia e della spiritualità del corpo, del turbamento del futuro, del rifiuto della subordinazione economica e sociale, di una diversa percezione dell'incanto e del disincanto, fino alle ombre di una guerra che fu l'ultima estate dell'Europa. Il "notturno" è qui evocazione di atmosfere e di sentimenti inediti e attuali.
"Giulia fu una donna spiritosa, brillante, estroversa, sicuramente affascinante, conscia del suo ruolo e del suo peso sociale, che aspirava a conquistarsi sempre e comunque un proprio spazio nel quale, civettando, primeggiare: dalla frequentazione dei cenacoli letterari a quella dei circoli politici, dai salotti della ribellione generazionale a quelli, più insidiosi, della sotterranea opposizione al regime e al sistema. Tutto le era permesso, e dovunque si muovesse la seguiva un folto stuolo di corteggiatori che ne stimolava l'orgoglio e ne suscitava la vanità. Contestatrice del padre e del suo ipocrita mondo di valori, non si accorse in tempo del baratro in cui sprofondava, giorno dopo giorno, spostandosi da posizioni di fronda a quelle di aperta congiura. Molla ne fu sempre il suo spirito provocatorio e l'impulso al ruolo di prima donna": dal primo accordo di matrimonio stipulato dal padre quando la bimba aveva due anni alla morte, forse casualmente, anche del padre nello stesso anno, il volume ricostruisce l'affascinante vita di una donna discussa e criticata dai suoi contemporanei e forse musa ispiratrice di poeti e bizzarre situazioni dentro la sua corte. È lei Corinna, la donna cantata da Ovidio negli "Amores"? Perché era così affascinata dall'Egitto? Gusto dell'esotico o fatale attrazione verso forme ellenistiche di potere e dispotismo? Quale la natura del rapporto antagonistico tra lei e Livia, la terza moglie di Augusto?
La natura umana non è sempre grave e maestosa; ha i suoi alti e bassi. Da questo assunto muove Frederick Rolfe, alias Baron Corvo, per comporre un'erudita e curiosissima apologia di una delle più controverse dinastie dell'Europa cristiana, i Borgia. Nessuna tardiva riabilitazione, però; perché secondo l'autore gli uomini sono per natura vili al di là di quel che le parole riescono a esprimere. Lo scopo di Baron Corvo è, piuttosto, mostrare i Borgia quali in realtà furono, come campioni, cioè, di splendore e decadenza in un'epoca passionale di vizio e virtù estreme. Alessandro VI, Lucrezia, il duca Cesare, appaiono così vivi, suggestivi e lontani da eroici quanto ipocriti cliché celebrativi. Eccentrico e magniloquente, "Cronache di Casa Borgia" ricostruisce la genealogia della famiglia, dalla metà del XV alla fine del XIX secolo, intrecciandola con molte altre storie: la guarigione del Grande Scisma, la Rinascita delle lettere e delle arti, l'invenzione della stampa, l'invasione musulmana dell'Europa, la storia della scoperta dell'Uomo. Prefazione di Mario Praz.
Nell'agosto 1914, allo scoppio delle ostilità, molti si erano arruolati entusiasti, immaginando di prender parte a una gloriosa avventura, convinti che il sacrificio del sangue avrebbe dato vita a un mondo e un uomo rinnovati. Dopo pochi mesi, l'entusiasmo era scomparso. Ci si rese conto che la guerra era completamente diversa da quelle fino ad allora combattute: per l'enormità delle masse mobilitate, per la potenza bellica e industriale impiegata, per l'esasperazione parossistica dell'odio ideologico, per l'ingente numero di soldati sacrificati inutilmente. La Grande Guerra rappresentava il naufragio della civiltà moderna. I combattimenti cessarono alle ore 11 dell'11 novembre 1918. E già all'orizzonte nuove tragedie si profilavano, poiché il trattato di Versailles ridisegnava l'intera geografia europea secondo la volontà dei vincitori, con conseguenze gravi e di lunga durata a livello politico e ideologico: le rivendicazioni territoriali, la corsa al riarmo e la militarizzazione di massa della società saranno alcuni dei principi cardine sui quali regimi totalitari come il fascismo e il nazismo baseranno il proprio consenso. Gentile ricostruisce il contesto sociale, culturale e antropologico entro il quale maturò quella che è ritenuta una delle più tragiche esperienze del Novecento, soffermandosi in particolare sugli artisti e gli intellettuali che, se all'inizio avevano invocato la guerra come una catarsi, si fecero poi interpreti dell'angoscia profonda da essa scatenata.
Firenze potrebbe sembrare l'ultima città ad aver bisogno di una presentazione, data la sua fama leggendaria: patria natale del Rinascimento e culla della moderna civiltà occidentale. Questo libro offre tuttavia un'interpretazione di circa quattro secoli di storia fiorentina da una prospettiva diversa da quella della leggenda che presenta Firenze come un miracolo inspiegabile, sostanzialmente senza storia e contesto. Da tempo gli storici dell'arte e della letteratura hanno inquadrato le opere della Firenze rinascimentale nel loro contesto storico. Ma altrettanto va fatto per sradicare l'idealizzazione dei detentori della ricchezza e del potere nella Firenze di quei secoli. La sua storia fu piena di conflitti, sia all'interno dell'élite sia fra questa e le altre classi sociali. La sua storia e cultura si svilupparono attraverso controversie e antagonismi di classe. Durante il XIII secolo nelle città italiane il "popolo" organizzato nelle arti di mestiere e nelle compagnie militari di quartiere, imbevuto dei concetti di cittadinanza e di bene comune assorbiti dalla Roma antica, lanciò la prima sfida politicamente efficace e ideologicamente fondata a una élite di detentori del potere; una sfida, nel caso di Firenze, che riuscì, non a rimpiazzare l'élite, ma a trasformarla.
Quando, nel 1943, le armate di Hitler occuparono l'Italia, misero le mani sui più importanti tesori artistici dell'umanità. Come avevano già fatto in tutta Europa, si dedicarono al saccheggio sistematico delle bellezze del nostro Paese: capolavori del Rinascimento, tesori vaticani, preziosi manufatti antichi. Alla vigilia dell'invasione alleata, il generale Dwight Eisenhower incaricò della protezione di questo immenso patrimonio una nuova tipologia di soldato. Erano nati i Monuments Men. Nel maggio del 1944 due improbabili eroi statunitensi, l'artista Deane Keller e lo storico dell'arte Fred Hartt, partirono da Napoli per la più grande caccia al tesoro della storia. Le truppe tedesche in ritirata verso Nord, agli ordini del generale Karl Wolff, avevano infatti l'ordine di trasportare quante più possibili opere d'arte entro i confini del Reich. Giocando contro il tempo e i rischi che minacciavano i capolavori e la loro stessa vita, Keller e Hartt guidarono la loro piccola task force sulle tracce del bottino di guerra dei nazisti: reperti di età romana, tele, capolavori di Michelangelo, Donatello, Tiziano, Caravaggio e Botticelli. Un patrimonio inestimabile che strapparono al nemico con diplomazia, intelligenza e determinazione. Ricostruito con minuziose ricerche, "Monuments Men: missione Italia" conduce il lettore in un viaggio emozionante lungo lo Stivale, da Milano, dove il Cenacolo vinciano si salvò per miracolo dai bombardamenti, al cuore del Vaticano.